Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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01 ottobre 2008

Nuove frontiere del giornalismo

Glauco Maggi
Se i lettori pagano le inchieste
Nuova frontiera del giornalismo: negli Usa il pubblico commissiona articoli ai cronisti
“La Stampa”, 10 settembre 2008


Il giornalismo cambia pelle, anche se l’ultima foggia sembra la scoperta dell’acqua calda: fornire ai lettori ciò che interessa davvero e, per non sbagliare, chiedere loro l’argomento prima di fare le inchieste. Benvenuti nella generazione del reporter a gettone, che si scatena dove lo indirizza il pubblico pagante. L’assedio soffocante dell’Internet gratuito sta circondando la cittadella del quarto potere, ma dall’interno della vecchia professione le prime squadre di coraggiosi resistenti e guastatori si organizzano, e preparano sortite di rilancio. E’ una risposta che viene, curiosamente, sia dall’ultima generazione dei genietti del web, sia da testimonial storici del giornalismo investigativo, che insieme condividono la fede nel ruolo non sostituibile dell’informazione. Per provarlo, gettano il ponte diretto tra se stessi e l’unico alleato che può davvero ribaltare le sorti della battaglia per la sopravvivenza della stampa: i lettori con le loro curiosità.
Le difficoltà degli editori dei giornali cartacei non sono un mistero: dal New York Times in giù, le ristrutturazioni con taglio degli staff si susseguono bilancio dopo bilancio. Con tanti giornalisti free lance per necessità più che per scelta, la ricerca di nuovi modelli operativi nell’era della grande rete è diventata un obbligo. La sfida consiste nel trasformare la crisi in occasione, accettando il declassamento del businnes dell’informazione, o se si preferisce il suo innalzamento, dal lucro al no-profit, dal mestiere alla missione.
Due primi esempi si confrontano dalle due sponde dell’America. Spot Us, un website californiano nato nell’area di San Francisco, sta sperimentando l’idea del «giornalismo finanziato dalla comunità»: sollecita suggerimenti di inchieste, seleziona quelle meritevoli di essere seguite, e invita il pubblico a finanziare in pool i costi vivi per la produzione dell’articolo. «Vogliamo dare un nuovo senso di potere editoriale ai lettori», ha detto al New York Times David Cohn, 26 anni, che ha avuto dalla Knight Foundation, un ente di beneficenza, un finanziamento di 340mila dollari per testare in due anni il suo progetto. «La nostra formula del finanziamento diffuso è quella di Obama e di Howard Dean», i due democratici che nelle elezioni del 2004 e in quella attuale hanno sfruttato magistralmente Internet per collegarsi ai fans e finanziarsi la campagna. Anche se non sei Bill Gates puoi dare 10 dollari per una buona causa, è la filosofia di Cohn.
Ma è proprio vero che il potere alla folla, nel raccogliere prima i temi da trattare, e poi la colletta per pagare la nota spese (e lo stipendio) è una rivoluzione? I critici osservano che, se ci sono gruppi di pressione con un proprio interesse dietro le sollecitazioni e il sostegno materiale, il quadro non è poi così diverso dalla vecchia formula dell’editore-padrone, e sicuramente peggiore dei giornali nei quali i direttori sono in grado di difendere un’effettiva indipendenza. Un esempio di inchiesta proposta, per esempio, è a cavallo tra i timori del global warming e della disoccupazione: come conciliare l’impegno della California a ridurre le emissioni di carbonio con il mantenimento di tutte le aziende che producono il cemento nello Stato, senza perdere posti e affari? L’inviato del popolo, raggiunto il budget di spesa prevista con i contributi della gente, si lancerà nella raccolta di dati, interviste e commenti, ed il risultato sarà messo sul website. Se sarà ben giudicato dai giornali «veri», questi ultimi lo potranno anche riprendere, che è lo scopo di Spot Us. E’ prevista anche l’esclusiva della pubblicazione ad un solo committente, ma a quel punto l’idea si riduce alla formula del service, cioè dell’acquisto da parte di un editore commerciale di un articolo prodotto da una società no-profit.
Da Manhattan, sull’altra costa, l’«interesse pubblico» nel tenere vivo il giornalismo investigativo è la ragione sociale di ProPublica, una società editrice indipendente, bipartisan, no-profit, finanziata con un piano pluriennale dalla Sandler Foundation e altri filantropi, e guidata da una coppia di navigati professionisti: Paul Steiger, ex direttore del Wall Street Journal, è il direttore responsabile e Stephen Engelberg, ex giornalista investigativo del New York Times, il direttore esecutivo. L’enfasi è sul recupero delle inchieste a servizio del pubblico, in un contesto di costante impoverimento dei giornalisti di questo genere nelle redazioni americane: «Molte aziende editrici vedono il giornalismo investigativo come un lusso che può essere accantonato nei tempi duri», sostiene Steiger. E cita un’indagine dell’Università di Stato dell’Arizona tra i 100 più diffusi quotidiani americani: il 37% non ha reporter investigativi a tempo pieno, la maggioranza ne ha uno o due, e solo il 10% ne ha 4 o più. Con i suoi 27 giornalisti d’altri tempi, sguinzagliati a scoprire per tempo i nuovi Watergate, ProPublica punta a produrre indagini di grande impatto, mettendo al centro solo i fatti e non sposando alcuna ideologia. Se avrà successo nel lanciare un marchio credibile, e le sue inchieste saranno riprese dai media tradizionali, il pubblico e i filantropi avranno di che essere soddisfatti.
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*estratto dal sito de "La Stampa", 10 settembre 2008.

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