Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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05 maggio 2010

Il decreto anti-burka

Dalla provincia di Milano, quando il ddl "anti-burqa" è già divenuto legge
«A Peschiera non ci sono donne con il burqa: io non ne ho mai vista una», inizia così il suo discorso Naglaa Sayed, araba che vive in Italia da 15 anni con la famiglia.
«La legge italiana dice che un cittadino non può entrare nei luoghi pubblici col volto coperto, ed è questo che si dovrebbe conoscere, non ci dovrebbe essere nessuna specifica per il burqa; – continua sua figlia quindicenne Engi – si dovrebbe dire che questa legge non è anti-burqa, ma una legge in generale applicata anche a tutti gli italiani: l'arabo non sa che c'è questa legge anche per gli italiani, quindi pensa di essere discriminato».
Engi espone con questa semplicità una soluzione per la decisione che ha scosso nelle ultime due settimane Peschiera Borromeo (dopo che un emendamento della Lega ha vietato l'utilizzo del burqa), identificando l'informazione come un aiuto. «Il Comune potrebbe far conoscere agli arabi queste legge, e spiegare che è per la sicurezza della città; – continua suo padre Osama Sayed, presidente dell'Associazione Culturale Araba Badr - se è questo il motivo, noi saremmo felici di rispettarla, e non la vedremmo come una provocazione». E, in questo modo, s'introduce il tema dell'integrazione: «la colpa è anche dei media – prosegue Engi - che non parlano mai di quando gli extracomunitari fanno del bene, e anzi si pensa che quando un arabo fa qualcosa di male, sia colpa della religione», come ricorda Naglaa «ci sono uomini ignoranti in tutti i paesi».
Osama vive in Italia da 26 anni, sua moglie da 15 e i loro due figli sono nati in Italia: una famiglia integrata e felice di vivere a Peschiera, ma non per questo capace di dimenticare le sue origini islamiche. «Il problema è che ognuno interpreta la religione come vuole – continua Osama - se il Corano fosse letto e interpretato correttamente, tutti agirebbero per il meglio; ad esempio, il burqa lo indossavano le donne dei nostri profeti, quindi una donna lo mette per essere più praticante e assomigliare a loro. Il Corano dice di mettere il velo, ma dove sta scritto che le donne devono portare il burqa?». Infatti, la legge coranica non obbliga la donna a mettere il burqa, ma soltanto a coprirsi i capelli con un velo che scenda fino alle spalle. «In Afghanistan, invece, le donne sono abituate a mettere il burqa come se fosse una sorta di vestito nazionale, e fu imposto per permettere la riaffermazione dell'Islam dopo un periodo in cui era stato vietato; - ricorda Naglaa - c'è stata un'imposizione, come se si partisse dalla fine per arrivare al principio, senza seguire tutte le tappe del processo». Un'imposizione storica, che Engi spiega non può assolutamente essere un'imposizione individuale: «il burqa non si potrebbe imporre perché è una libera scelta della donna; mio marito non potrebbe avere voce in capitolo perché non devo ascoltare la sua voce, ma la voce di Dio. Ad ogni modo, in Italia non lo metterei mai perché mi sentirei discriminata, mentre col velo sto bene».
Una religione fatta di dogmi, ma anche di scelte consapevoli, «tutto quello che faccio per la mia religione mi è stato spiegato, perché devo capire tutto con la mia testa - continua Engi -. Io sono nata qui: mi trovo bene e mi sento ben integrata. A volte, a scuola, qualcuno non comprende le mie scelte, ma io sono felice lo stesso». Integrati, sereni e praticanti: un esempio di come differenti culture possano convivere: «l'Italia mi piace, mi piace tutta: non ho intenzione di lasciarla» conclude Naglaa, mentre il marito le si accosta, «ognuno può fare quello che vuole, noi cerchiamo solo di fare il bene per andare in Paradiso».
Elisa Murgese

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