Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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26 marzo 2011

La terra postmodernamente desolata

«Ti amo disperatamente» direbbe un ipotetico lui.
Ma la sua ipotetica lei sa che questa frase, un po’ melensa, melliflua, persino indolente e forse, addirittura, letterariamente inetta, è una di quelle tipiche frasi da Liala, la scrittrice, l’amorazzo dannunziano, quella dei feuilleton, i romanzi d’appendice che stringi stringi e poi c’è l’happy ending. Ma d’altronde, lui, pure, sa che lei sa che lui sa che lei sa che è una frase di Liala. Impasse. Come fare per non cadere nella stentatezza di una citazione così scontata?
«Come direbbe Liala, ti amo disperatamente» dice lui, quindi.
Questo, più o meno, l’esempio che Umberto Eco, la trave nell’occhio della letteratura italiana contemporanea, dava per spiegare, nelle postille a Il Nome della Rosa, l’atteggiamento postmoderno. Il Panarari, Massimiliano, mi piace molto, questo perché mi da modo di parlare di Postmodernismo. Poco prima, sempre Eco, scriveva: «Ma arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l’arte concettuale). La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: in modo non innocente». La non-innocenza è un buon punto di partenza.
Lasciamola un attimo qui e proseguiamo.
Uno dei più grandi poststrutturalista francesi è il Lyotard, Jean François. Anche costui diceva qualcosa che sarebbe il caso ricordare: «Il Postmodernismo è incredulità nei confronti delle metanarrazioni» ovvero, e qui la dico alla maniera di John Stephen: «quegli schemi narrativi culturali totalizzanti o globali che ordinano e spiegano la conoscenza e l’esperienza». Per esempio la televisione?
Ecco, Postmodernismo, un weltanschauung più che una corrente o, per dirla sempre alla Umbertissimo, un kunstwollen, è contraddistinto da due istanze, due grossi perni: non-innocenza e incredulità. Il problema è che non sono i tempi ad essere postmoderni, ça va sans dire, e a dircelo è Panarari stesso. Ancor più: ce lo dimostra! Il postmodernismo di cui trattiamo qui è quello dei processi escatologici (perché ingerenti si occupano del nostro destino ultimo) mediatici. Qui, la lettura panarariana è illuminante: negli anni, in Italia, in una certa Italia, la non-innocenza ha innescato quel processo di ribaltamento il cui risultato è questa egemonia sottoculturale, fenomenologia antipolitica e individualista di un certo edonismo tatcheriano e reaganiano che in Italia è stata “intuizione” di Craxi poi portata a compimento dal berlusconismo (ancor più che da Berlusconi stesso). Il Panarari, Massimiliano, si diverte (e il divertimento contagia pure il lettore) a smascherare il trompe l’oeil della comunicazione nel nostro Paese tramite un affresco di entropie comunicative, alter – giunzioni, parossismi e sperimentalismo: la prosa di Panarari riesce anche a essere bella. Tanto bella da potersi permettere un’esegesi compiuta e decisa, quasi da pamphlet: l’avido copulare della Voce del Padrone con il suo “Min.Cul.Pop.” genera mostri al pari del sonno della ragione. Anche se poi, a dire il vero, l’anestesia della logica non è proprio l’unico risultato, se andiamo a vedere. Arbasino, uno che ne sa e che in fatto di sperimentalismo ha avuto un certo ruolo, ebbe a dire: «il sonno della ragione genera ministri». Uno zdanovismo cortigiano che esiste grazie a personaggi come i “ministri (appunto) ombra” Alfonso Signorini, Antonio Ricci, Maria De Filippi. E se a Gramsci, in questa particolare cosmogonia à rebours, sostituisci il gossip, ogni elemento va al suo posto nel particolarissimo ikebana panarariano, dando fuoco alle micce dei cannoni della controrivoluzione televisiva, quella che erige il Drive In a tempio del mcluhanesimo, sposta la discussione dal costume al coattume, dal neorealismo al neorealitismo.
Come l’Egemonia sotto culturale è diventata egemonica? Ritualizzazione. Se la religione è l’oppio del popolo, l’oppio (la televisione) è la religione del popolo. La televisione, nel suo procedimento d’autoperpetuazione, autoreferenzialità, autoinflazione produce una religione “pop” metodista (nel senso di pastiche di stili ed espressioni) e mitopoietica (ahinoi, mitopoietica!) che si fa forte di un alfabeto di riti take away, pronti all’uso, semplici semplici, free (anche se ormai il weltanschauung è così radicato da poter sconfinare nella dimensione “pay”). L’esercizio della sostituzione, della degradazione del rito, del rito come immagine del mito, non è cosa nuova: Eliot, un esempio su tutti. La terra (L’Italia) del Re Pescatore (Berlusconi) è sfinita, la terra è desolata. Perché questa ancora possa gettare gemme da far fiorire l’unica speranza è che Parsifal si rimetta nuovamente in viaggio, in viaggio verso il Graal.
La speranza, però, è quella di trovare nuovi Parsifal.
Come fare? «Oggi la via d’uscita è sostituire la premessa e spostare l’accento su quel che importa davvero: “Nonostante Liala, ti amo disperatamente”. Il cliché è evocato e subito messo da parte, la dichiarazione d’amore inizia a ricaricarsi di senso». Un pezzo tratto da New Italian Epic di Wu Ming.
È possibile una nuova narrazione italiana?
Emanuele Podestà

Massimiliano Panerari
L’egemonia sottoculturale. L'Italia da Gramsci al gossip
Torino, Einaudi, 2010, 148 p.

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