Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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27 febbraio 2011

In libreria

The Dissemination of News and the Emergence of Contemporaneity in Early Modern Europe,
a cura di Brendan Dooley,
Ashgate Publishing, Ltd., 2010, 305 p.

Scheda si presentazioneI moderni mezzi di comunicazione consentono la diffusione istantanea delle informazioni e delle immagini, creando una sensazione di presenza virtuale ad eventi che si verificano lontano. Questa sensazione dà significato alle nozioni di "tempo reale 'e di un« presente' che è condivisa all'interno e tra le società,  in altre parole, una sensazione di contemporaneità. Ma che percezione si aveva del tempo e dello spazio prima della modernità? Quando le cose cominciarono a cambiare in Europa? Questo volume analizza gli albori del giornalismo, quando si diffusero le prime reti dell'informazione pubbliche e private. Quello che accadeva a Praga rapidamente raggiungeva  Venezia, quello che accadeva a Napoli era presto risaputo anche ad Amburgo. A poco a poco, in giro per l'Europa si cominciò a pensare in termini di `'presente condiviso". Ogni saggio di questo volume esplora i diversi modi in cui la circolazione della notizia ha contribuito a sviluppare il senso della contemporaneità.
*link all'Indice e all'Introduzione sul sito dell'editore.
*link al sito dell'autore Brendan Dooley 
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In libreria

Ermanno Rea
La fabbrica dell'obbedienza, il lato oscuro e complice degli italiani
Milano, Feltrinelli, 2011, 224 p.




"Non sono uno storico né un saggista: il mio, come ho detto, è un libro-sfogo, legittimamente disordinato, che non esita qua e là a farsi favola, immaginando un mitico passato di glorie durante il quale l'Italia fu la "civiltà" e gli altri si chiamarono 'barbari'". (Ermanno Rea)
Scheda di presentazione
Servili, bugiardi, fragili, opportunisti: il mondo continua a osservarci stupito e a chiedersi donde provengano, negli italiani, tante riprovevoli inclinazioni, tanta superficialità etica e tanta mancanza di senso di responsabilità. Colpa delle stelle? del clima? della natura beffarda che ci avrebbe fatti così per puro capriccio? In questo suo nuovo libro, sciolto e affabulatorio nella forma quanto ruvido e penetrante nella sostanza, Ermanno Rea ci trasporta indietro nel tempo alla ricerca delle origini stesse della "malattia", del suo primo zampillare all'ombra di quel Sant'Uffizio che, nel cuore del secolo xvi, trasformò il cittadino consapevole appena abbozzato dall'Umanesimo in suddito perennemente consenziente nei confronti di santa romana Chiesa.Dopo oltre quattro secoli, la "fabbrica dell'obbedienza" continua a produrre la sua merce pregiata: consenso illimitato verso ogni forma di potere (tanto meglio se dal cuore marcio, dal momento che la Controriforma – ci spiega l'autore – sa essere sempre molto indulgente con se stessa e con i propri alleati e sostenitori). Da allora nulla è più cambiato: l'italiano si confessa per poter continuare a peccare; si fa complice anche quando finge di non esserlo; coltiva catastrofismo e smemorante cinismo con eguale determinazione. Dall'Ottocento unitario al fascismo, dal dopoguerra democristiano alla stessa dinamica del compromesso storico, fino alla maestosa festa mediatica del berlusconismo, il proverbiale "Mario Rossi" ha indossato la stessa maschera del Girella ossequioso: viva il potere! viva i ricchi! viva la Chiesa! Saggio, pamphlet, sfogo, invettiva, manifesto, La fabbrica dell'obbedienza è un libro di straordinaria lucidità e saggezza, una riflessione che diventa sbrigliata ricognizione storica, appassionato atto di accusa, istigazione al pensiero. Un grande "no" scolpito nel tempo dei "sì" più vischiosi che la società civile italiana abbia mai conosciuto.
*link alla presentazione del libro sul sito dell'editore.



 

25 febbraio 2011

Scontri a Tripoli, preso l'aeroporto.

Secondo fonti del canale satellitare Al Jazeera (intimata piu volte di lasciare il paese) gli insorti sono riusciti, poche ore fa, a prendere il controllo dell'aeroporto della capitale libica. Sarà da vedere in che modo intendano sfruttare il controllo di questa importante struttura nel caso riescano a presidiarlo a lungo. Gheddafi ha risposto con, ormai purtroppo consueti, spari sulla folla. Risultato 5 morti.
Conquistate anche le città di Misurata e Al-Zawiyah.
Persiste la prepotente barriera mediatica, le sole immagini sono frammentarie e di scarsa definizione, internet è sempre bloccato e tutti i giornalisti stranieri sono stati allontanati da Tripoli dalle milizie pro-regime. Gheddafi minaccia ancora di bloccare l'afflusso di petrolio.
Giro di telefonate incrociate tra Obama e i principali leader europei. Francia e Gran Bretagna, paesi che dispongono di diritto di veto, chiederanno all'ONU azioni chiare verso il governo libico tra le quali l'embargo totale di armi e un'inchiesta presso il tribunale internazionale per scoprire eventuali crimini contro l'umanità commessi dal regime. In Italia il terzo polo chiede la sospensione immediata del trattato di amicizia italo-libico in una mozione a firma dei deputati Vernetti (Api), Della Vedova (Fli) e Adornato (Udc) che e' stata presentata in una breve conferenza stampa alla quale ha preso parte anche il leader Udc Casini. Prevista dalle nazioni europee la creazione di una no fly zone sulla Libia per impedire a Gheddafi di usare l'aviazione militare per bombardare i manifestanti.
Una riunione di Emergenza della NATO è in corso questo pomeriggio.
Luca Saltarelli

20 febbraio 2011

Giornaliste del Risorgimento




Ricordare i 150 anni di un’Italia unita non vuol dire solo festeggiare perché possiamo chiamarci italiani, ma deve essere soprattutto un momento per arricchire di approfondimenti le vicende storiche e conoscere i personaggi a cui le ricerche non danno l’attenzione adeguata.
Per l’occasione viene riscoperto il pensiero e il lavoro giornalistico della coraggiosa sostenitrice delle vicende nazionali di metà ‘800, tanto da essere chiamata dai suoi contemporanei “la prima donna d’Italia”: Cristina Trivulzio di Belgiojoso.
Il volume «La prima donna d’Italia» Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo, a cura di Mariachiara Fugazza e Karoline Rörig raccoglie l’approfondimento del pensiero politico e della vita professionale della principessa lombarda, frutto del materiale concentrato nella giornata di studio organizzata a Milano nel 2008, per celebrare il bicentenario della nascita di uno dei personaggi centrali delle vicende che hanno portato agli avvenimenti nazionali nel 1861.
Cristina Belgiojoso è conosciuta maggiormente per le nobili origini e per aver viaggiato a lungo distinguendosi dalle donne del suo tempo; la sua vita è stata minuziosamente indagata in circa 16 biografie, oltre alla presenza in internet di un sito a lei unicamente dedicato (cristinabelgiojoso.it); le ricerche invece inerenti le numerose pubblicazioni, ma soprattutto la sua concezione della politica e della storia sono molto scarse, anche per la mancanza di reperti scritti consultabili.
Omettendo volontariamente una digressione sulla romanzesca vita della nobildonna e le vicende per cui è passata alla storia, gli studiosi, che compongono 9 capitoli, indagano nell’aspetto meno documentato, al quale la Belgiojoso si dedicò instancabilmente fino alla vecchiaia: lo studio della storia e della critica sociale come fondamento della politica. Questo aspetto fondamentale della personalità e la radicata fede cristiana segnarono in maniera indelebile il proficuo percorso professionale della principessa e, di conseguenza, motivando la partecipazione all’unificazione d’Italia. Nonostante il perenne contrasto tra la sua condizione di donna del tempo e le passioni riservate al genere maschile quali, la storia e la politica, che coltiva fin da giovane età, la Belgiojoso diventa ben presto un’importante e stimata interlocutrice tra letterati e pensatori d’Europa, a dispetto del ruolo sociale che avrebbe dovuto svolgere.
Prima di essere definita «un’assetata di verità», la Belgiojoso aveva già un’idea precisa di cosa volesse dire fare giornalismo, un’idea estremamente attuale come viene rappresentata dai capitoli inerenti le sue collaborazioni: la principessa scrive come fanno in America e in Inghilterra, i suoi sono racconti sulla contemporaneità, sulla vita quotidiana, una rappresentazione delle società che ha possibilità di studiare durante i suoi lunghi viaggi, in Oriente, per esempio. Il passaggio “dai salotti alle redazioni” avviene in conseguenza alla sua presenza nella scena politica e sociale e alla scoperta di cosa significasse avere giornali a propria disposizione per la propaganda politica.
Sia la storia del Paese sia la complessa personalità di Cristina Belgiojoso, sono raccontate dalle numerose collaborazioni dell’eclettica scrittrice e dalla sue stesse iniziative in campo editoriale, di fatti la giornalista, scrittrice ed editore non ha mai riassunto la sua concezione politica, probabilmente perché sapeva di aver già detto tutto nelle sue imprese fisiche ed editoriali. L’ultima parte del libro dedicata agli scritti che Cristina Trivulzio compone dopo una vita di studio, irrequietezza e stravaganza permettono una rivalutazione del personaggio e lasciano aperti degli interrogativi sui repentini cambiamenti, come per esempio la valutazione delle donne che lavorano.
I capitoli riservati all’esperienza come scrittrice e direttore di giornali seguono una parte fondamentale, meno pratica, dedicata alle influenze filosofiche, politiche e religiose sul pensiero della Belgiojoso; questo contributo come del resto tutto il volume, non rimane strettamente legato al personaggio, risultando noioso e pedante, ma riscopre uno scenario storico ben preciso nel quale si muovono, oltre alla protagonista, i maggiori intellettuali e politici del tempo e si ha così l’impressione di trovarsi nei dibatti pubblici di tutta l’Europa, nel clima di fermento anticipatore dell’unità d’Italia.
«La prima donna d’Italia» Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo descrive anche ciò che non è previsto, con un racconto storico, politico e biografico di un periodo storico che ha formato la coscienza di una donna che ha modificato la storia.
Gloria Sormani


Mariachiara Fugazza, Karoline Rörig (a cura di)
La prima donna d'Italia. Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo

Milano, Franco Angeli, 2010, 256 p. (prima ristampa nel 2011).
*link all'Indice del libro sul sito dell'editore.
Il libro è disponibile anche in formato e-book.

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Libri ri/trovati

Franco Della Peruta
Il giornalismo italiano del Risorgimento. Dal 1847 all'Unità
Milano, Franco Angeli, 2011, 186 p.

Scheda
Il volume costituisce un imponente censimento, esemplare per ricchezza e rigore, dei giornali e periodici pubblicati negli anni che coincisero con la costruzione dell'Italia unita. Oltre a fornire concisi ma precisissimi ragguagli sulle esperienze giornalistiche fiorite nella penisola, esso analizza le leggi sulla stampa e la censura, le tecniche di produzione e i problemi del mercato, i giornali dell'emigrazione e la stampa clandestina. Circa 300 le principali testate censite, che figurano anche nell'elenco inserito in appendice; oltre 700 quelle citate a vario titolo nell'opera. Particolare attenzione è rivolta al giornalismo del biennio 1848-1849, studiato nel suo sviluppo in tutti gli Stati preunitari. Edito per la prima volta oltre trent'anni fa e riproposto in occasione del 150° dell'Unità con prefazione di Valerio Castronovo, il testo rappresenta uno strumento insostituibile per orientarsi in una fase fondamentale della storia italiana. Attraverso una produzione giornalistica ricchissima e diversificata, il lettore è condotto alla scoperta dei fermenti che attraversavano la società, della vivace contrapposizione degli schieramenti, della fisionomia di un'opinione pubblica che, dopo secoli di conformismo e di oppressione, anche e soprattutto attraverso la carta stampata iniziava a sperimentare nuove forme di partecipazione. L'autore Franco Della Peruta è presidente dell'Istituto lombardo di storia contemporanea e direttore della rivista "Storia in Lombardia". Tra le sue opere principali Democrazia e socialismo nel Risorgimento (Roma, Editori Riuniti); Storia dell'Ottocento (Firenze, Le Monnier); Storia del Novecento (Firenze, Le Monnier); Momenti di storia d'Italia fra '800 e '900 (Firenze, Le Monnier). Per i nostri tipi ha pubblicato, tra l'altro: Esercito e società nell'Italia napoleonica; Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento; Realtà e mito nell'Italia dell'800; Politica e società nell'Italia dell'800; Carlo Cattaneo politico; Uomini e idee dell'Ottocento italiano; I democratici e la rivoluzione italiana (I ed. Milano, Feltrinelli); Società e classi popolari nell'Italia dell'Ottocento (I ed. Palermo, Epos).

Indice del libro
 Prefazione di Valerio Castronovo,
Dai giornali dell'emigrazione alla libertà di stampa
(I giornali dell'emigrazione; La stampa clandestina; Le leggi sulla stampa di Roma e di Firenze; Gli sviluppi del giornalismo nella Stato pontificio e in Toscana sino all'inizio del 1848; La stampa degli Stati sardi nel 1847; Il problema della censura nel Lombardo-Veneto)
I caratteri generali della stampa periodica dal 1847 al 1859
(Le Costituzioni e le leggi sulla stampa; La tecnica dei giornali e i problemi di mercato)
Il giornalismo nel biennio rivoluzionario (1848-1849)
(Gli Stati sardi; La Lombardia; Venezia e il Veneto; Trieste e Trento; Il Granducato di Toscana; I ducati; Roma e lo Stato pontificio; Napoli e il Mezzogiorno continentale)
Giornali e periodici nel "decennio di preparazione"
(Giornali e giornalisti a Torino; Il giornalismo genovese; Il giornalismo provinciale negli Stati sardi; Riviste e periodici degli Stati sardi; Giornali e riviste del Lombardo-Veneto; La stampa negli Stati italiani; I periodi specialistici)
Bibliografia essenziale / Elenco delle principali testate / Indice dei nomi / Indice delle testate.


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19 febbraio 2011

Notizie da Bruxelles

Nel 2010 Alessio Cornia ha pubblicato un libro dedicato alle problematiche della copertura mediale dell’Unione Europea ed, in particolare, alla situazione dei corrispondenti italiani a Bruxelles.

L’autore si sofferma inizialmente sul collegamento tra il deficit democratico delle istituzioni comunitarie e la loro scarsa copertura mediatica. Dopo aver illustrato alcune teorie e modelli giornalistici, Cornia passa all’esposizione della vastissima ricerca che ha condotto immergendosi nella comunità dei corrispondenti italiani da Bruxelles delle diverse testate giornalistiche. Cornia ha infatti analizzato da vicino la composizione delle fonti d’informazione ed ha intervistato i professionisti dei media che operano nella cosiddetta “bolla di Bruxelles”.
L’autore passa in rassegna le fonti d’informazione a livello comunitario e quindi innanzitutto la Commissione. La Commissione riveste il ruolo di principale referente istituzionale dei corrispondenti. Essa si avvale del Servizio del portavoce e di un incontro quotidiano con la stampa: il middaybriefing. A differenza della Commissione, decisa ad avere una comunicazione costante ed omogenea, il Consiglio ed il Parlamento europeo si caratterizzano per una copertura “episodica e conflittuale” il primo e “scarsa e caratterizzata da una molteplicità di voci dissonanti” il secondo. Oltre a queste fonti istituzionali l’autore si sofferma sulla descrizione dei rapporti tra giornalisti ed lobbisti, e tra giornalisti e fonti confidenziali. Proprio da tali rapporti informali infatti i giornalisti traggono le preziose informazioni sommerse sulle pratiche comunitarie. Dall’analisi delle fonti informative, del contesto sociale, delle regole formali che si adottano nel rapporto tra fonti e giornalisti, quali ad esempio il regime di attribuzione, l’autore evidenzia le routine professionali adottate dai corrispondenti. Queste routine sono quindi il frutto di un condizionamento strutturale determinato dalle specificità e dalle logiche di funzionamento del beat istituzionale europeo.
Nella parte finale del testo Cornia espone la peculiare situazione dei corrispondenti italiani a Bruxelles i quali, provenendo da routine professionali tipiche del modello mediterraneo, si trovano nella condizione di alterare la natura degli accadimenti comunitari per renderli maggiormente attrattivi per il pubblico italiano. Essi cercano di “italianizzare Bruxelles” nazionalizzando il contenuto delle issue europee e narrando gli accadimenti di Bruxelles attraverso il frame del conflitto.
Le notizie europee quindi sono il risultato di diversi condizionamenti esercitati dalla natura istituzionale, sociale e mediale tipica della “bolla di Bruxelles” ed il significato che viene attribuito agli eventi è frutto di svariate negoziazioni tra i diversi attori descritti nel volume che definiscono la forma ed il contenuto dell’attualità comunitaria.
In conclusione, la mia opinione personale su questa ricerca è che essa sia sicuramente molto accurata e dettagliata. Grazie alle numerose citazioni delle risposte date a caldo dai giornalisti effettivamente il lettore si immerge, proprio come ha fatto l’autore, nella bolla comunitaria e comprende i complessi meccanismi che guidano i comportamenti dei corrispondenti italiani. Ritengo inoltre utile una ricerca incentrata sulla copertura mediatica dell’Unione Europea poiché, probabilmente, proprio alla scarsa attenzione dei media si può imputare una delle cause del deficit democratico dell’Ue. Capire i meccanismi della comunicazione delle istituzione europee permette di comprendere le cause del suo “deficit di comunicazione” ma, purtroppo non aiuta nello sviluppo di nuove routine professionali che permettano, soprattutto nelle redazione nazionali, di dedicare maggiore spazio agli accadimenti comunitari che continuano ad essere percepiti dai cittadini come fatti compiuti distanti da loro.
Estella Trotta

Alessio Cornia
Notizie da Bruxelles. Logiche e problemi della costruzione giornalistica dell’Unione europea
Milano, Franco Angeli, 2010, 192 p.
*link all'Indice del libro.
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18 febbraio 2011

Giornalismo e conflitti armati

Oliviero Bergamini è giornalista inviato della Rai e docente di Storia del Giornalismo all’Università di Bergamo. Leggere la sua storia del giornalismo vuole dire percorrere il tempo della storia al ritmo delle guerre, le più conosciute e le più dimenticate, e osservare il comportamento del giornalismo nei momenti in cui fu chiamato a rispondere. Questa è una definizione molto generica.
Più specificamente la storia del giornalismo di guerra è un’indagine circostanziata delle sue diverse performances. Uno studio e una verifica dell’immagine che i reporter seppero dare degli eventi bellici, alla luce delle conoscenze date dagli studi e dalle scoperte di ambito storico. La ricerca storica serve a ricostruire una o più “verità” sugli accadimenti bellici; non solo. Inquadra il conflitto in un più ampio contesto politico-economico-sociale-culturale; non basta. Definisce lo stato del giornalismo di un’epoca, tenendo conto dei suoi progressi tecnici e tecnologici, del suo peso all’interno della società, infine delle restrizioni cui è stato sottoposto dai governi per imbrigliarne la corsa.
Innanzitutto il testo fa questo: incastona la pratica (e professione) del giornalismo in una rete complessa intessuta dalle maglie della storia, di cui essa è figlia e parte integrante. Da un lato, prodotto della storia: nata e cresciuta passo passo con le sue civiltà; dall’altro, membro di essa: capace di studiarne il divenire, influenzarne il corso e figgerne l’immagine a memoria dei posteri.
Il giornalismo nasce nella storia, vi cresce all’interno, poi se ne distanzia e ne diventa scrutatore. Per questo studiare la storia del giornalismo, o di una sua branca, significa ripercorrere a ritroso il suo cammino, osservando picchi e cadute, svolte e accelerazioni, in rapporto alle società civili, alle strutture politico-economiche e alle sovrastrutture culturali nelle quali è inserito.
Torno al libro. Bergamini scrive mescolando in una sola narrazione elementi storici e giornalistici. Il suo testo raccoglie ricostruzioni proprie della storia dei conflitti bellici, argomentazioni attinenti al giornalismo di guerra (accompagnate da excursus di storia del giornalismo tout court) e descrizioni dei reporter di spicco, alti esempi di dedizione, coraggio e amore della verità. Questo trova una soluzione unica e continua sulla pagina, che diventa il delta di confluenza di fiumi argomentativi distinti.
La trattazione inizia con le guerre napoleoniche (o meglio, di stampo napoleonico), e finisce con i conflitti in Afghanistan e Iraq d’inizio XXI secolo. Si parte con le corrispondenze per il Times dalla Crimea dell’inviato speciale William H. Russell: uno dei grandi padri fondatori del war reporting. Si conclude con l’analisi di un giornalismo di guerra complesso e soffocato dagli organismi di potere. Se Russell doveva ancora rivelare al mondo la grande potenza del resoconto di guerra e l’importanza del suo autore, il reporter; le prove giornalistiche dei conflitti afghano e iracheno, dimostrano definitivamente come i mass media siano allacciati agli interessi degli organismi di potere (economico e politico), e non possano per questo motivo offrire un’informazione penetrante.
Dovrà nascere pertanto, se non è già nato (con le tecnologie digitali), un movimento che stacchi il giornalismo (certa parte di esso) dai circuiti dominanti, risponda al bisogno di informazione delle società civili e si riavvicini alla “realtà”.
In mezzo, il testo affronta l’analisi delle guerre coloniali, dei conflitti guerre mondiali, della guerra civile spagnola (1936-1939). Dà spazio alle guerre “periferiche” degli anni ’50, ’60: inserite nel quadro ideologico-culturale della Guerra Fredda. Combattute perciò dalle popolazioni indigene di vari paesi “arretrati” (Filippine, Nigeria, Angola, Algeria ecc…), ma armate e appoggiate dalle potenze dominanti del pianeta, Usa da una parte, Urss dall’altra.
Nasce come guerra “periferica” anche la guerra del Vietnam, salvo poi veder crescere a dismisura l’impiego americano dei soldati e dei mezzi. Sarà un teatro di morte come pochi altri nella storia, ma anche una prova di alto giornalismo da parte delle centinaia di reporter sul campo. Viene ricordato come una delle occasioni in cui la voce del giornalista è riuscita a sorprendere “il potere” e a ritrarlo impegnato nel conflitto. Viene ricordato come “la guerra nel salotto di casa”: l’uso coraggioso e sapiente della cinepresa porta le tragedie del fronte (dei mille fronti del Vietnam) in televisione e spalanca l’orrore della guerra davanti agli occhi delle famiglie americane.
Va detta ancora una cosa, il testo non costituisce solo una storia del war reporting, ma anche una storia della censura. Dei vari tipi di censura e dei diversi metodi con cui “il potere” li ha applicati al giornalismo di guerra.
Alberto Cavallo


Oliviero Bergamini
Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi
Roma-Bari, Laterza, 2009, 343 p.

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Giornalisti imperfezionisti

Tom Rachman
Gli imperfezionisti

Milano, Il Saggiatore, 2010, 368 p.
Scheda
Romanzo. Il giornale sta al terzo piano di un palazzo storico. Non ci sono scritte sulla porta. Niente nome né testata, solo un manipolo di penne che comunicano fra loro in inglese. Fuori dall’ascensore qualcuno ha appeso un cartello: «Lasciate ogni speranza voi ch’uscite. Outside is Italy». Tre piani sotto c’è Roma, la cui bellezza, con quel misto di fascino e inquietudine, caos e dolce vita, appare eterna soprattutto a chi, all’inseguimento di sogni effi meri, vi arriva da un paese lontano. Tutti i dipendenti del giornale – americani, inglesi, australiani, canadesi – sono sufficientemente uomini di mondo per primeggiare nella qualità che governa il loro mondo: l’imperfezione. Lo stagista zelante interviene sempre a sproposito, la titolista non riesce a far entrare le parole nelle colonne, il correttore di bozze lascia errori grossolani, il redattore pedante dà letteralmente in escandescenze se qualcuno si azzarda a utilizzare l’avverbio «letteralmente», l’inviato al Cairo conosce quattro parole di arabo e non ha idea di dove si trovino le notizie. In redazione parlano il giornalese, lingua che fonde sintesi e desiderio di conformismo, ma fuori ognuno torna a indossare – drammaticamente – la propria inadeguata unicità. Undici ritratti di imperfezionisti – taglienti, ironici e fatalmente intrecciati con le traversie del giornale e con l’ultimo mezzo secolo di storia – formano il racconto perfetto del regno dell’approssimazione mediatica, dove l’arte della verità fluttua pericolosamente nella corrente delle passioni umane, tra cialtroneria e bassezze, cinismo e solitudine.
*segnalato da C.S.

cfr. la recensione di Gabriele Romagnoli, Il romanzo del quarto potere. Rachman e il mondo dei giornalisti-imperfezionisti, "la Repubblica", 17 febbraio 2011, p.57 [leggi tutto].
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17 febbraio 2011

In libreria

Stefano Pivato
Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento
Bologna, Il Mulino, 2011, 192 p.
Scheda
Se, come nel film "Ritorno al futuro", fossimo proiettati all'indietro di due secoli saremmo certamente assordati dal silenzio. Ma fino a quando la nostra società è stata pervasa dal silenzio? E da quando il rumore ha iniziato ad accompagnare le nostre attività quotidiane cambiando un paesaggio sonoro immutato da secoli? La rivoluzione industriale prima e quella tecnologica poi hanno introdotto il rumore come uno dei segni più evidenti del "progresso che avanza". Così, fra Otto e Novecento, il fracasso delle industrie, il rombo delle automobili e degli aeroplani, il frastuono della musica, quello della politica di massa nonché il rumore delle guerre hanno invaso l'orizzonte, diventando una sorta di religione laica della modernità. Con la complicità, invero, di un "uomo rumoroso" il quale, a partire dagli anni del boom economico, costituisce un tipo antropologico che non solo sopporta ma si adatta al rumore e ne fomenta l'espansione. Fino a trasformarlo in uno dei caratteri distintivi dell'epoca contemporanea.

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16 febbraio 2011

In libreria

Edoardo Tortarolo (a cura di)
La censura nel secolo dei Lumi. Una visione internazionale
Torino, Utet, 2011, 288 p.
Scheda
L'odierna discussione sulla libertà di stampa riprende un lungo dibattito il cui svolgimento ha attraversato la storia europea dall'invenzione della stampa a caratteri mobili. Che ogni uomo e donna abbia diritto a esprimersi liberamente rappresenta un principio entrato relativamente tardi nell'orizzonte della cultura europea. La profondità storica e la complessità delle riflessioni e delle situazioni politiche, legislative e sociali non sono tuttavia sufficientemente presenti quando si tenta di affrontare il tema dello spazio di non interferenza nel quale possono muoversi gli autori di libri, direttori di giornali e - dall'inizio del ventesimo secolo - responsabili dei mezzi di comunicazione di massa. I saggi raccolti in questo volume presentano un'ampia panoramica europea dei contesti nei quali sono stati elaborati argomenti pro e contro la libertà di stampa e hanno effettivamente operato le istituzioni di controllo nel corso del Settecento. La presenza della libertà di stampa nelle dichiarazioni dei diritti formulate in occasione delle rivoluzione americana e francese aggiunge un elemento di grande interesse a questo quadro complessivo. Svariando dalla Francia all'Italia, dalla Spagna ai paesi scandinavi, i saggi esplorano una tematica comune che dal Settecento a oggi ha profondamente influito sul livello della cultura politica e offrono elementi in grado di sostenere l'elaborazione di una nozione ampia e condivisa di che cosa si intenda per libertà di esprimersi e comunicare.
*segnalato da Gloria Sormani

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15 febbraio 2011

La rivoluzione lunga


Raymond Williams, critico inglese del Novecento, definisce la rivoluzione portata dalla stampa "rivoluzione lunga", in quanto l'adattamento a questo nuovo medium fu molto graduale, pertanto si pone una domanda: «Se una rivoluzione non avviene rapidamente, può essere vista comunque come una rivoluzione?».
Da questa domanda si può partire per presentare il libro di Briggs e Burke, Storia sociale di media, pubblicato dal Mulino in una nuova edizione.
Gli autori fanno un lungo excursus di tutte le invenzioni nel campo dei media e ve ne aggiungono altre, che hanno contribuito a sviluppare il campo della comunicazione. Accanto a radio, televisioni, giornali e internet troviamo la storia della ferrovia, della macchina a vapore, delle poste, delle navi, del telegrafo e di come queste abbiano favorito la nascita dei mezzi di comunicazione.
L'assunto del libro è contestualizzare storicamente la nascita dei media che hanno cambiato il modo di vivere e di pensare del mondo intero.  Si pone l'accento sul fatto che i media possano convivere tra di loro, nonostante l'avvento di mezzi di comunicazione più nuovi: la stampa è nata nel Quattrocento, ma continua a vivere, nonstante siano nate prima la radio, poi la televisione ed inseguito internet.
I giornali hanno saputo sopravvivere, adeguandosi all'arrivo della "concorrenza", rimodernandosi ed adattandosi alle esigenze del pubblico.
Gli autori distinguono anche i luoghi nei quali la storia della comunicazione si sviluppa. Si inizia con le piazze mediovali, si passa ai salotti borghesi, ai caffé letterari, al dopolavoro ferroviari, i cinema, le televisioni, fino ai forum su internet. Briggs e Burke fanno il giro del mondo per far comprendere al lettore l'evoluzione del media. Analizzano principalmente gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma non mancano di citare anche altri paesi, tra i quali la Svezia, il Giappone, i Paesi Bassi e l'Olanda. Danno poco spazio all'Italia: nel capitolo sulla radio non citano quasi per niente l'utilizzo che ne fa Mussolini durante il periodo fascista. Tralasciano, quindi, un esempio chiarissimo dell'uso della radio per fare propaganda.
L'analisi di tutti i media è vista sotto molti punti: iniziano sempre con l'invenzione del pro dotto, descrivendone prima l'inventore, poi il funzionamento con termini tecnici (spesso fin troppo tecnici), raccontano la sua evoluzione e le sue implicazioni storico sociali.
Danno ampio spazio a tutte le correnti di pensiero, senza mai stroncarle, spesso però dilungandosi in particolari superflui alla funzionalità del libro.
Nel quinto capitolo, si indica un paradigma che raggruppa i mass media moderni, definendo in tre parole la loro mission: informare, istruire e intrattenere.
Queste sono le qualità di cui si avvalgono radio, televisione, stampa, cinema e internet. Tutti questi media cercano un canale informativo, per poter rendere partecipe il pubblico di cosa accade nel mondo oppure raccontare avvenimenti del passato. Telegiornali, dossier, documentari, articoli specifici sono le armi per informare gli utenti.
La funzione istruttiva consente un'alfabetizzazione del fruitore, che sia dall'apprendere l'abc per leggere e scrivere oppure per imparare ad usare una nuova tecnologia.
L'intrattenimento è visto come il trait d'union di tutti i media, che fin dall'inizio della loro storia hanno avuto una componente ludica.
Gli autori dipanano la storia del video games, come precursore dei moderni personal computer e come gli stessi giochi abbiano avvicinato le persone all'utilizzo del computer e poi di internet.
Anche radio, televisione e cinema sono fondati principalmente sull'intrattenimento. Si è partiti con un pubblico che doveva adattarsi ai programmi o film trasmessi, fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui sono i media che devono parcellizzarsi per adattarsi ad un determinato tipo di pubblico.
Briggs e Burke raccontano la storia della comunicazione sotto molti punti di vista, integrando la descrizione di alcune invezioni tecnologiche, che hanno favorito lo sviluppo dei media.
Spiegano come l'utilizzo dei media abbia contribuito alla nascita e alla formazione di una sfera pubblica.
Al contrario di molti libri sulla comunicazione, non demonizzano i mass media, ma ne forniscono una storia approfondita, contestualizzandola nei vari periodi storici, in maniera neutrale.
Giorgia Bertagna




Asa Briggs, Peter Burke
Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet
Bologna, Il Mulino, 2010,  540 p.
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14 febbraio 2011

La comunicazione in Cina: stampa, tv e Web


La Cina e i suoi mezzi di comunicazione sono analizzati nella loro storia e nella loro attualità. La Cina odierna non è solo Cctv (China central television), non è solo il Renmin ribao (Quotidiano del popolo). Questo volume presenta gli atti del convegno Media in Cina oggi che si è svolto al Polo di Mediazione Interculturale e Comunicazione di Sesto San Giovanni dell’Università di Milano, il 29 aprile 2009.
I protagonisti del’analisi sono la televisione, la stampa cartacea e Internet, illustrati con chiarezza e precisione dai docenti e dai ricercatori cinesi e italiani. L’entrata della Cina nella Omc (Organizzazione mondiale del commercio) nel 2001, ha contribuito ad accelerare l’economia mondiale, in costante rapporto con il sistema mediatico.
Un paese che vanta il più grande bacino di telespettatori, pari al 35% mondiale, il settore televisivo cinese è di proprietà statale e del partito comunista, secondo un modello di ripartizione in livelli amministrativi, da quello nazionale e provinciale, al cittadino. Negli ultimi dieci anni, hanno acquisito spazio nei media cinesi anche le emittenti straniere, oltre alle maggiori testate estere. Un processo in continuo fermento e rinnovamento per la comunicazione cartacea, televisiva e telematica, un traguardo per un popolo che fino agli anni Novanta non era libero di potere acquistare giornali e riviste che non fossero venduti negli uffici postali governativi, un retaggio dei libri autorizzati alla lettura di massa in vigore ancora negli anni Settanta, durante la Rivoluzione culturale.
Come si ricorda Alessandra C. Lavagnino, nel capitolo Informazione e stampa nella Cina delle riforme,  la diffusione delle informazioni era controllata e centralizzata - ancora oggi, anche se in misura minore - il tutto verso un’ottica positiva, secondo l’idea che «solo una buona notizia è una notizia, una cattiva notizia non è una notizia».
Internet è presente nelle relazioni presentate in questa pubblicazione. Uno strumento e un fenomeno che coinvolge soprattutto i giovani, i principali fruitori, circa 175 milioni di individui. Il linguaggio cinese per comunicare sul web si mescola alla lingua inglese, per esempio “CU” ovvero “see you”, oppure “DND” significa “do not disturb”. Diffuso è l’utilizzo di simboli paralinguistici, i cosiddetti smiles o faccine i quali esprimono uno stato d’animo che in cinese si chiamano rénwù liănpŭ 人物脸谱 (letteralmente “trucco dei personaggi”, nell’ambito delle opere teatrali tradizionali). Ne deriva un nuovo registro linguistico, il Chinese Internet Language che presenta interferenze tra codice scritto e orale, termini appartenenti a varietà locali, una lingua più sintetica che talvolta sostituisce i classici ideogrammi, un esempio di conformismo e avvicinamento al modello occidentale.
Un’apertura, una libertà di comunicare verso il mondo del www. Esiste un equivalente cinese di Youtube, il sito internet più conosciuto e discusso, una piattaforma di condivisione di video caricati dagli utenti di tutto il mondo, il suo gemello si chiama Youku. La Cina degli ultimi anni, si distingue per la volontà di emancipazione, contro la chiusura che l’ha sempre caratterizzata, infatti sono ancora molto frenati lo sviluppo della stampa e quello della tv, in quanto influenzati dall’idea di essere mezzi portavoce dello stato e del partito. Non si possono dimenticare delle eccezioni, come i dushibao 都市报, testate metropolitane che hanno tra le loro missioni la cronaca locale, le ingiustizie, gli scandali o il semplice intrattenimento.
Questi sono solo alcuni esempi dei temi affrontati, in un testo che riunisce in modo organico il panorama dei mezzi di comunicazione cinesi, in una ricostruzione storica, dalle origini agli ultimi sviluppi.
Il libro non è un insieme di statistiche e date che segnano l’evoluzione dell’informazione e del semplice intrattenimento, ma è la ricostruzione, lo studio e il racconto di una realtà e delle diverse possibilità di raccontarla al lettore grazie alle testimonianze, gli esempi e la presenza della terminologia, anche attraverso la grafica degli ideogrammi cinesi, con questi si ha una visione più completa e dettagliata di quanto illustrato. Non è solo per gli studiosi e gli esperti del settore ma semplicemente per chi voglia conoscere e approfondire il ruolo dei media in un paese così lontano e affascinante.
Anna Maria Dall'Aglio

Emma Lupano  (a cura di)   
Media in Cina oggi. Testimonianze e orientamenti. 
Milano, FrancoAngeli, 2010, 192 p.
*Link all'Indice del libro sul sito dell'editore Franco Angeli.
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13 febbraio 2011

Dal giornale al blog: quando l’evoluzione porta alla dispersione


La crisi del giornalismo classico, la subordinazione dell’informazione allo spettacolo, l’assenza di introiti pubblicitari, l’avvento delle integrated newsroom, il citizen journalism, il dilagante fenomeno dei blog. Sono queste alcune delle tematiche affrontate da Paolo Costa all’interno del proprio testo, La notizia smarrita.Modelli di giornalismo in trasformazione e cultura digitale.
In una società come quella odierna, contraddistinta da una costante evoluzione tecnologica, è credenza comune che lo straripante impatto dei nuovi media, in primis il web, rappresentino la causa primaria della crisi del giornalismo su carta stampata. In realtà, il problema, come sottolinea Costa, risiede altrove, in quello che è un processo di cannibalizzazione ad opera della televisione. Un dominio incontrastato del mezzo televisivo che sviluppa un tipo di informazione diversa, l’infotainment, in cui le notizie si fondono con l’intrattenimento, in un inscindibile continuum. La notizia finisce così per essere inghiottita dalle logiche televisive che subordinano l’informazione alla spettacolarizzazione. Il piccolo schermo crea una realtà verosimile che, secondo Costa, viene assorbita pedissequamente dal singolo, presa per buona nella propria totalità. Questo comportamento errato dell’individuo porta ad una omogeneizzazione del pensiero, spesso costruita su basi aleatorie e superficiali, tipiche del mezzo televisivo.
Un processo in cui la notizia tende a perdere la propria importanza, ad eclissarsi, a divenire mero contorno alla programmazione, all’interno di un sistema che rivela, in maniera sempre più forte, la propria dipendenza dal guadagno, dal ricavo pubblicitario e dall’audience.
Si sviluppa così una crisi del giornalismo su carta stampata che trova nel costante calo delle inserzioni pubblicitarie una delle sue più drammatiche conseguenze. I dati presentati da Costa sono sintomatici di una crisi che sembra ormai essere giunta ad un punto di non ritorno. Un fenomeno che ha condotto, e sta conducendo, ad una vera e propria gara per la sopravvivenza mediatica, nella quale va avanti il più forte, il più ricco. Un processo di selezione naturale che ha pesanti ripercussioni sulla struttura stessa dei media. Ad avere la peggio sono inevitabilmente i giornalisti, che spesso finiscono a lavorare in condizioni di precariato, con contratti a termine o collaborazioni occasionali, che li rendono vulnerabili, li pongono in una situazione nella quale risultano facilmente manipolabili, giacché, proprio a causa del proprio status lavorativo, rischiano di finire assoggettati alle logiche di potere.
In questo contesto di crisi profonda per il giornalismo tradizionale si è giunti alla creazione delle integrated newsroom, redazioni unificate nelle quali la notizia viene elaborata contemporaneamente su più media. Un fenomeno spesso criticato, perché subordina la qualità del prodotto alla tempestività. All’interno di questa logica risulta più importante arrivare per primi, con la possibilità di fare uno scoop, piuttosto che arrivare bene al lettore, col rischio di essere superati dai propri competitor. Il lavoro di copy editing scompare gradualmente o, perlomeno, viene posposto all’interno di un processo che mira principalmente a catturare il lettore e, soltanto in secondo luogo, alla qualità dei contenuti.
All’interno di questo panorama frammentato emerge una nuova realtà che, come sottolinea lo stesso Costa, porta ad una riconfigurazione del concetto stesso di giornalista: è il caso del citizen journalism, la nuova frontiera dell’informazione. Un giornalismo che si pone come verità alternativa. Il lettore diventa soggetto attivo nel processo di confezionamento della notizia. La sua visione, pura ed estranea dalle logiche insite al mondo giornalistico, lo rende più attendibile rispetto al giornalista professionista, offrendo così una visione della realtà esente da distorsioni o manipolazioni. Il cittadino diventa così protagonista nel processo di gatekeeping. In realtà, Costa evidenzia come si realizzi proprio il meccanismo inverso, in quanto il citizen journalist, a causa della mancanza d’esperienza, tende inevitabilmente a seguire l’istinto nel processo di selezione delle notizie e, quindi, a non agire in maniera obiettiva.
In questo percorso evolutivo la tappa finale, l’estrema sintesi, è rappresentata dal mondo dei blog, pseudo-realtà che portano ad un ripensamento non soltanto del concetto di giornalista ma anche, e soprattutto, del concetto stesso di notizia. In questo continuo ipertesto, in cui le realtà si rivelano continuamente comunicanti tra loro, quello che emerge è il carattere frammentario della notizia, spesso decontestualizzata e inattendibile. L’assenza di questi due elementi porta ad una distorsione della notizia e fa perdere all’individuo le proprie, ormai residue, certezze di fronte all’immensità del mondo virtuale.
La riflessione di Costa si snoda in maniera semplice e chiara. Emerge, soprattutto, il problema della cattiva informazione, legata alla manipolazione delle notizie, all’alterazione dei contenuti che, spesso, vengono filtrati per seguire le logiche di potere politico-economiche.
La soluzione sta nell’andare oltre la superficie, nel cercare di documentarsi il più possibile e nel riuscire a discernere, con spirito critico, il vero dal falso. Soltanto attraverso un’analisi critica dei contenuti si può arrivare ad una buona interpretazione della realtà, al fine di ritrovare la notizia smarrita.
Giovanni Larosa

Paolo Costa
La notizia smarrita
Modelli di giornalismo in trasformazione e cultura digitale

Torino, Giappichelli Editore, 2010, 224 p.

*link al blog Grande Globo di Paolo Costa, autore del libro.

http://www.paolocosta.net/
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12 febbraio 2011

La retorica della verità


La retorica della verità è l’articolo di Anna Maria Lorusso pubblicato da Alfabeta2 il 7 febbraio 2011. Un’analisi ficcante del linguaggio mediatico (televisivo) dominante. L’autrice è vigile osservatore e sottile ascoltatore.

"Molte volte nel corso dell’anno appena terminato abbiamo letto del pericolo che corre l’informazione, tra tentativi di legge-bavaglio, ritorni censori, dossieraggi e la solita, insoluta, questione del conflitto di interessi. Poco si parla, però, a nostro avviso, di un problema dell’informazione meno evidente ma ugualmente grave e che meriterebbe analoga attenzione: il diffondersi di tentazioni veritative e assolutistiche: monologiche. Cerchiamo di spiegarci.
È ovvio che in un panorama mediatico polifonico, plurale e libero ogni soggetto autorizzato a parlare dovrebbe essere garantito nel suo diritto di parola. Tuttavia, ci pare che sarebbe altrettanto essenziale che ogni soggetto autorizzato a parlare si limitasse a farsi portavoce del proprio punto di vista, del suo credo e dei suoi valori, senza volontà di prevaricazione dogmatica. Più volte invece ci siamo trovati in questa situazione, e troppo spesso forse senza accorgercene neanche. Il “monologismo” si sta facendo sistematico, abitudine diffusa, stile informativo, forse cifra epocale. Non dobbiamo pensare solo allo stile inquisitorio del Giornale o alle urla sguaiate e pre-politiche di Beppe Grillo. Forse dobbiamo anche riflettere su chi, da una parte e dall’altra dell’arena politica, predica il ritorno ai fatti o presenta le proprie inchieste come Verità, e non come indagini (soggettive, interessate, parziali, seppur – auspicabilmente – corrette).

Serpeggia, insomma, secondo noi, e senza troppe dissimulazioni, una tendenza all’assolutizzazione del proprio discorso, tanto a destra quanto a sinistra, che non fa bene né all’informazione né alla democrazia, né alla coscienza critica del paese.
Per intenderci, chiameremo questa patologia “retorica della verità” e cercheremo nelle prossime righe di chiarirne alcuni tratti caratteristici.
Anzitutto, all’interno della retorica della verità, la posta in gioco non è il proprio argomento (che è pur sempre una forma di opinione), ma la definizione di unìoggettività non controversa. Il discorso deve arrivare a una conclusione non discutibile. Ai fatti. Alle cose come sono, come sono andate veramente. Che è un altro modo per dire: alla Verità.
Non a caso sembra ritornato in auge il genere-inchiesta, da D’Avanzo su Repubblica a Report – con inchieste sempre meno connotate come reportages, racconti del proprio percorso di scoperta, e sempre più qualificate invece come percorsi di disvelamento, di messa in evidenza della autentica realtà delle cose, o come discorsi fondativi, che aspirano a ridefinire da zero i termini della questione.

All’interno di questa prospettiva, in secondo luogo, spesso non ci sono possibilità e sfumature, ma solo necessità e valori manichei; ci sono per lo più affermazioni dichiarative, enunciati constativi e assertivi (fatti di verbi all’indicativo presente dell’eternità, di schemi sintattici semplici che danno l’impressione dell’evidenza chiara e distinta che si manifesta) spesso con verbi deontici: spiegano quel che si deve, si dovrebbe, si sarebbe dovuto fare, dire, pensare (assumendo un criterio di dover essere e dover fare indiscutibile).
Inoltre, e soprattutto, le argomentazioni sono spesso paralogistiche, basate cioè non su forme di ragionamento e deduzione corrette ma su ragionamenti fallaci: premesse che non giustificano conclusioni generalizzabili (ma ad esempio conclusioni solo parziali – ed è tutta un’altra cosa), false premesse (non verificate), auctoritates che non sono effettivamente tali (che non sono, per esempio, dati scientifici, pareri di esperti autorevoli, studi che hanno già passato il vaglio della comunità scientifica) ma che sono solo la riformulazione delle proprie affermazioni.
Una delle strategie tipiche della retorica della verità, infatti, è proprio la costruzione di referenze interne, ovvero la costruzione discorsiva (dunque all’interno del proprio dire) di un piano di riferimento e sostegno argomentativo, che non è fatto in realtà da “prove”, auctoritates, ma da pseudo-verità costruite dal proprio stesso discorso e riutilizzate in fasi successive dell’argomentazione come garanzie di quel che si va dicendo, in un evidente circolo vizioso di autoconferma. Un po’ come quando si usano i risultati dei sondaggi come prove di qualcosa, facendo finta di non sapere che i sondaggi non scoprono verità ma costruiscono dati.
In prospettiva semiotica, questo tipo di retorica è una delle possibili strategie veridittive che il discorso informativo ha a disposizione, uno dei possibili modi che il discorso può assumere per costruire discorsivamente la verità. L’idea di fondo è che i discorsi non ci mettono mai di fronte alla Verità ma di fronte alla costruzione delle loro verità. Le parole, i testi (anche quando hanno le migliori intenzioni) non riflettono, non rispecchiano il vero oggettivo, perché ormai da secoli anche la filosofia è concorde nel non attribuire alla verità lo statuto di evidenza; ma costruiscono una certa verità, e cercano di convincercene. In gioco, nel discorso informativo, dovrebbe essere la credibilità, l’attendibilità di chi parla e la fiducia che quel che dice (e come lo si dice) ispira, non la correttezza, la giustezza – perché quasi mai abbiamo effettivi criteri di giudizio per valutare la corrispondenza del detto ai fatti, mentre sempre abbiamo o dovremmo avere criterio e strumenti critici per discernere ciò che è ben argomentato da ciò che non lo è, ciò che è più manipolatorio da ciò che è più aperto e chiaro, ciò che è più convincente da ciò che lascia più spazio ai dubbi.
A questo – all’esercizio critico di discernimento su quel che si dice, sulla attendibilità delle fonti, sulla trasparenza del proprio punto di vista – il nostro sistema mediatico e in generale il dibattito che gli sta intorno ci prepara molto poco, mentre l’attenzione resta completamente assorbita dalle voci urlate di chi da una parte e dall’altra (sul Giornale come sul Fatto quotidiano, al Tg1 come ad Annozero) vuole imporre una verità unica, monolitica, incontestabile.

Attenzione: il punto non è fornire e garantire sempre il contraddittorio, l’ossessione di mettere insieme portavoce di pareri opposti per tacitare la buona coscienza che vuole la neutralità. La nostra sensibilità vorrebbe proprio che il contraddittorio non avesse diritto di esistenza, che la neutralizzazione delle opinioni che il contraddittorio produce non trovasse terreno, perché siamo convinti che proprio la neutralità sia una chimera – la chimera di chi vuole predicare l’evidenza della verità, nascondendo la propria argomentazione, ammantando le proprie inchieste di oggettivismo, di neutralità, di scientificità, come se un parere soggettivo ma autorevole, una ricerca personale ma documentata, non potessero, per ciò stesso, meritare attenzione e rispetto.
Il problema è diventato particolarmente palese con il caso (virtuoso) di Vieni via con me e dei discussi inviti in trasmissione di Fazio e Saviano: la vedova Welby, Beppino Englaro, entrambi “rappresentanti” di una stessa posizione. La sedicente neutralità voleva che fosse invitata una voce contraria, che creasse l’agognato dibattito. Per fortuna Fazio e Saviano hanno rifiutato questa logica rivendicando rispetto per la parzialità di un racconto e di un’esperienza che certo è di parte, è personale, ma non per questo deve indurre la contraddizione.

Il timore che stiamo iniziando ad avvertire è che si stia confondendo la libertà di informazione con il diritto di neutralizzazione delle opinioni, e che si stia scambiando il valore della onestà informativa con quello della rassicurazione veritativa.
C’è qualcosa di populistico nella retorica della verità che sta prendendo piede – che, inutile dirlo, fa sistema con vari altri virus della nostra epoca".
Anna Maria Lorusso



La libreria


*Segnalato da Alberto Cavallo -AC LibOn.it

Il ruolo sociale dei giornali


Quello della carta stampata è un vecchio mondo che muore. Non perché i giornali come istituzione siano destinati necessariamente ad estinguersi. Questo il tema principale del libro di Enrico Pedemonte, trattato dall’autore con un pizzico di pessimismo. Non manca però qualche spiraglio di luce che incoraggia il dibattito su un tema fondamentale per il futuro, non solo della stampa, ma della democrazia.
Enrico Pedemonte, corrispondente da New York per "L’Espresso" dal 2002 al 2008, non scrive questo libro-inchiesta per azzardare previsioni sul futuro dei giornali, il suo scopo è tentare di interpretare ciò che sta avvenendo nel mondo della carta stampata e indicare alcuni possibili percorsi per fronteggiare il drastico calo delle vendite, la cui causa principale viene individuata nella perdita di centralità sociale delle vecchie testate, centralità che sta migrando verso il web. L’autore infatti imputa alla rete la responsabilità principale del progressivo calo dei lettori dei quotidiani ma si interroga su quali siano i siti internet che stanno rispondendo ai bisogni delle comunità. Secondo le statistiche gli italiani trascorrono in media 29 ore al mese in rete e dedicano soltanto 53 minuti all’informazione online. A rubare lettori ai giornali cartacei non sarebbero dunque le news gratuite disponibili sul web ma i social network, i siti di compravendita sul modello di Craigslist oppure siti come Wikipedia.
Pedemonte va oltre al puro aspetto economico della questione, sottolineando l’importanza che il giornalismo riveste per la sopravvivenza della democrazia, in quanto assolve due funzioni basilari: in prima istanza è strumento di controllo del potere (giornalismo investigativo) ed in seconda istanza è un servizio pubblico e crocevia di relazioni sociali (giornalismo locale). L’autore delinea così il paradosso alla base del giornalismo contemporaneo: storicamente il giornalismo investigativo, molto costoso, veniva finanziato grazie al lavoro dell’esperto di gossip o del cronista sportivo, sezioni che stanno perdendo la loro storica funzione sociale a causa del sopraggiungere di siti specializzati nei vari settori. Il modello di giornale generalista, che vive sulla pubblicità e sulle piccole inserzioni, è destinato a cedere il passo alle nuove forme ipertestuali del web. La pubblicità migra verso i siti specializzati che possono offrire agli inserzionisti nicchie scelte di pubblico. Vengono così a mancare le premesse economiche che hanno sostenuto fino a oggi il giornalismo di qualità.
Pedemonte fonda le sue analisi più sui dati americani e britannici che su quelli italiani. Alla base c’è una motivazione oggettiva, dato che ciò che sta avvenendo nei paesi di cultura anglosassone funge da anticipazione di quello che avverrà altrove; l’altra ragione è personale, in quanto l’autore ha vissuto sei anni a New York, assistendo in diretta all’esplosione della crisi dei media tradizionali. Inoltre il caso italiano è poco rappresentativo perché presenta molte anomalie: i principali gruppi editoriali hanno palesi conflitti di interessi in altri settori economici, il presidente del consiglio è proprietario di tre emittenti televisive ed è l’uomo più ricco del paese e infine il servizio pubblico televisivo è dalla sua nascita in mano a gruppi politici e di potere. Ma non è finita. In Italia negli ultimi nove anni le vendite dei giornali sono calate del 20 per cento. Ciò non ha suscitato alcun dibattito. Al contrario, negli Stati Uniti, a fronte di un minor calo delle vendite (14 per cento) è scaturito un grande dibattito, sia nel mondo editoriale che nella società civile, che ha portato le più importanti testate giornalistiche del paese a sviluppare ciò che viene definito ipergiornale, strumento che non fornisce solo notizie ma qualunque cosa sia utile alla vita dei cittadini, con lo scopo di diventare centro pulsante della comunità. Ingrediente fondamentale di questo giornale online è la partecipazione dei lettori alla sua costruzione, su modello Wikipedia.
In conclusione, lo sviluppo della rete impone cambiamenti radicali che rendono necessaria la nascita di un vivace dibattito collettivo, che porti la società civile a riappropriarsi dell’informazione. Il grande merito del libro è quello di aver richiamato l’attenzione su un tema poco discusso nel nostro paese, ma che è di centrale importanza per il futuro del buon giornalismo e della democrazia.
Caterina Parolin

Enrico Pedemonte
Morte e resurrezione dei giornali, chi li uccide chi li salverà
Milano, Garzanti editore, 2010, 237 p.
 
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11 febbraio 2011

Un nuovo inizio ...

Per capire gli straordinari eventi dell'Egitto e in tutta l'area sud medierranea forse dovremmo ricordare il discorso che nel giugno 2009 Barak Obama pronunciò all'Università del Cairo di fronte ad un pubblico di giovani studenti (particolare non secondario). Erano parole inedite e potenti, ben proiettate verso un futuro tutto da costruire in un percorso di reciproca consapevolezza.


"[....] Sono qui consapevole che questo cambiamento non potrà avvenire nell'arco di una sola notte. Nessun discorso o proclama potrà mai sradicare completamente una diffidenza pluriennale. Né io sarò in grado, nel tempo che ho a disposizione, di porre rimedio e dare soluzione a tutte le complesse questioni che ci hanno condotti a questo punto. Sono però convinto che per poter andare avanti dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel tempo per ascoltarci, per imparare l'uno dall'altro, per rispettarci, per cercare un terreno comune di intesa. Il Sacro Corano dice: "Siate consapevoli di Dio e dite sempre la verità". Questo è quanto cercherò di fare: dire la verità nel miglior modo possibile, con un atteggiamento umile per l'importante compito che devo affrontare, fermamente convinto che gli interessi che condividiamo in quanto appartenenti a un unico genere umano siano molto più potenti ed efficaci delle forze che ci allontanano in direzioni opposte.[....]"  - Barak Obama

*Link al testo integrale del discorso di B. Obama, Con l'Islam un nuovo inizio, pubblicato sul sito di "Repubblica", 4 giugno 2009.

10 febbraio 2011

Egitto: Obama ha ignorato gli allarmi

Sorpresi dalla rivolta in Egitto, il presidente Obama e la Casa Bianca non hanno esitato a scaricare le responsabilità sull'operato della CIA che non avrebbe mai lanciato allarmi evidenti al riguardo. In realtà non sono mancati avvisi chiari e ripetuti che qualcosa di pericoloso per la stabilità dell'Egitto potesse accadere, tali avvisi provenivano dal Working Group on Egypy, creato un anno fa con lo scopo di mettere in luce il crollo del regime di Mubarak e chiedere un cambio di politica da parte dell'amministrazione USA. Il vice direttore della pagina degli Editoriali del Washington Post scrive "The group draws on considerably more expertise on Egypt than exists within the White House" ricordandone l'autorevolezza dei membri.
La prima comunicazione fu una lettera al Segretario di Stato, Hilary Clinton, in data 7 Aprile 2010 riguardante cambiamenti sostanziali di leadership nel prossimo futuro e l'opportunità di sostenere una riforma democratica.
Una seconda lettera diretta al Segretario di Stato, inviata nel Maggio 2010, incoraggiava atti diplomatici efficaci e rapidi da parte del governo americano
per garantire la riforma democratica. A questa lettera non seguirono risposte.
Nel Giugno 2010 una nuova comunicazione del gruppo appare come op-ed sul Washington Post ed è di natura molto critica sull'operato del governo accusandolo di restare muto e passivo, e di ripetere gli errori di amministrazioni della Cold War-era quando supportavano dittatori di destra.
Lunedì notte una lettera aperta a Obama e Clinton contiene preoccupazione sul processo in corso che, secondo gli esperti, ha molti degli attributi di uno "smokescreen", senza significativi cambiamenti dal punto di vista politico e con il rischio di preservare lo stato di regime, ricorda inoltre che la transizione deve iniziare ora e l'Egitto non puo tornare indietro a uno stato precedente i disordini.
Luca Saltarelli
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In libreria

Mariachiara Fugazza, Karoline Rorig (a cura di)
La prima donna d'Italia.
Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo

Milano, Franco Angeli, 2010, 256 p. (prima ristampa nel 2011).
Scheda
La personalità poliedrica e la vita movimentata hanno fatto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso (1808-1871) una delle figure più suggestive dell'età risorgimentale. Di lei si ricordano le importanti relazioni intrattenute nel famoso salotto parigino, gli esperimenti sociali a Locate, l'impegno nel 1848-1849, il soggiorno in Turchia, il rientro in Europa e gli ultimi anni nell'Italia unita. Ma la principessa non è solo la protagonista delle vicende evocate nelle numerose biografie. Altrettanto significativa è la sua passione per la scrittura, che si tradusse in un'ampia produzione giornalistica e saggistica. Nell'intento di approfondirne i contenuti il volume ripercorre, dopo un inquadramento generale, alcuni temi chiave dell'opera dell'aristocratica lombarda: il nesso tra storiografia e politica, gli studi sul dogma cattolico e su Vico, le principali esperienze giornalistiche e il capitolo poco noto dei rapporti con la "Rivista europea". Al centro dell'attenzione anche i lavori sulle condizioni dei contadini della Bassa Lombardia, quelli legati agli avvenimenti quarantotteschi, i saggi della vecchiaia e le memorie e le immagini della Belgiojoso conservate al castello di Masino.
*link all'Indice del libro sul sito dell'editore.
Il libro è disponibile anche in formato e-book.
 
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09 febbraio 2011

... Noi che abbiamo visto Genova ...

"[....] "Cotesto accadde a chi visitò Genova non cercando altro in essa che le memorie del suo passato, cosa che, come per Genova, accade per ogni altra città. Ma le sensazioni sono ben diverse quando il viaggiatore, invece di non far altro che passare guardando intorno intorno, si fermi, e, lasciato in disparte il passato, si metta a considerare le condizioni attuali di Genova: allora un senso prima di meraviglia, come di chi trovi qualche cosa di molto piacevole là dove non si aspettava, e poi un senso di affettuosa stima prende l'animo, e questa stima e questo affetto crescono, grandeggiano e si rassodano in ragione del tempo che in Genova si passa. È vezzo volgare dir male dei Genovesi, chiamarli uomini diversi, gretti, avari, speculatori, alieni da ogni colore intellettuale, municipali, egoisti, rivoluzionari. Eh! buon Dio! I Genovesi hanno certo, come tutti gli uomini di questo mondo i loro difetti; ma credete, sarebbe una gran fortuna per la patria nostra, se tutti i cittadini delle tante città non avessero altri difetti se non quelli dei Genovesi. I difetti dei Genovesi sono il vanto, e, direi quasi, la esagerazione dei loro pregi, ma sempre i difetti si vanno dileguando e i pregi crescono. Una delle prime cose che grandemente ammira nei Genovesi chi incomincia a fare con essi più intima conoscenza, è l'amore per la famiglia, il pensiero delle cose domestiche, l'affetto alla casa. Quanti uomini si fanno, senza mai trovarsi una risposta, questa domanda tanto significativa: — Dove passare le mie serate? Questa domanda pel Genovese non esiste: il Genovese si ammoglia giovanissimo, e la sera, che è di tutta la giornata il solo tempo del suo riposo, la passa in famiglia, presso la moglie che ricama, con una bambina sui ginocchi che comincia i distinguere le lettere dell'alfabeto sull'abbecedario, e un figliuolo accosto più grandicello che armeggia contro le frazioni decimali. La sera è pel Genovese il solo tempo del riposo, perchè tutta la giornata è per esso consacrata al lavoro! L'abito del lavoro! L'amor del lavoro! Ecco una grande, una feconda, una somma virtù dei Genovesi! Il Genovese non è postulante, non è importuno col Governo, cerca intorno a sè le sorgenti della propria sussistenza e le trova, e quando son troppo scarse, mette in un paio di casse il suo bagaglio e s'imbarca tranquillamente per l'America, d'onde in breve, nel maggior numero dei casi, torna abbastanza ricco per dar opera a nuove imprese. Centomila liguri campano in America, preparando là alla madre patria, se questa ne saprà trarre profitto, una ricchissima sorgente di ricchezza e di forza. Genova pei suoi edifizi è la città più leggiadramente costrutta d'Italia, e una ventina di quei suoi grandi palazzi contengono tante ricchezze artistiche quali non si trovano altrove. Nessuna città italiana più di Genova ha dato sviluppo alle scuole del popolo, elementari, serali, domenicali. Genova, coi soli mezzi forniti da privati cittadini, mantiene una scuola di musica, una scuola di disegno, una scuola di scultura, tutte frequentatissime. Quella striscia di terreno dominata dal monte e bagnata dal mare che si chiama Liguria, alberga la gente più operosa di tutta Italia. Qui gli esempi d'uomini nati in povertà e segnalatisi per ricchezza, dottrina, valore letterario od artistico, traffici condotti con intelligenza, ardite navigazioni, onore fatto alla patria in lontane contrade, abbondano più che in ogni altra nazione. Ed è molto desiderabile che taluno fra i tanti Liguri che con amore coltivano le lettere e le patrie istorie, si accinga a raccogliere così fatti esempi e divulgarli in Italia a comune vantaggio."
Michele Lessona, 1869

* La citazione è tratta dal volume di Michele Lessona, Volere é potere, pubblicato nel 1869, pp. 380-383 . Il libro è scritto con lo stile di un vero e proprio reportage attraverso tutta l'Italia; l'autore passa in rassegna le città dell'Italia appena unificata descrivendo le caratteristiche e gli stili di vita della popolazione con sicura efficacia.
* link al testo completo edizione elettronica del 2008 Progetto Manunzio.
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Archivio blog

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