Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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29 maggio 2011

La città nell'epoca della globalizzazione

Ciclo di lezioni organizzato dagli studenti dell’Università degli Studi di Genova coadiuvati dalla Prof. Laura Longoni, in risposta al bando “Attività culturali”. Si ringrazia l’Università degli Studi di Genova per il contributo.
Lunedì 6 Giugno 2011 gli studenti organizzano un seminario di studi dal tema "La città nell'epoca della globalizzazione".
Programma

INTERVENGONO:
ROBERTO BOBBIO (Docente di Urbanistica presso l'Università degli Studi di Genova)
Qualità urbana e welfare nella città contemporanea
GIULIANO CARLINI (Docente di Sociologia delle relazioni interculturali presso l'Università degli Studi di Genova)
Esperienze di confronto culturale nei quartieri genovesi
FRANCESCO GASTALDI (Docente di Analisi e rappresentazione del territorio presso l'Università Iuav di Venezia)
Grandi eventi e rigenerazione urbana a Genova
SONIA PAONE (Docente di Sociologia urbana e territoriale e pianificazione sociale presso l'Università degli Studi di Pisa)
La città dell'emergenza
AGOSTINO PETRILLO (Docente di Sociologia presso il Politecnico di Milano)
Polarizzazione e trasformazioni della stratificazione sociale nelle città

Il dibattito sarà moderato da LAURA LONGONI.
Il seminario si terrà lunedì 6 giugno 2011, h. 9,30 in Aula Mazzini, Facoltà di Scienze Politiche, Via Balbi 5 III piano.

*evento segnalato da Giacomo Solano.
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27 maggio 2011

In libreria

Robert Darnton
Il futuro del libro
Milano, Adelphi, 2011, 273 pp.
Descrizione
Nell’èra digitale il libro resisterà, andrà in crisi o addirittura rinascerà a nuova vita? Google Book Search rappresenta una minaccia per il mercato, un’opportunità per la democratizzazione della conoscenza, o un’incognita per entrambi? Internet sarà la nuova biblioteca di Alessandria o un’incar­nazione alienante e distopica della biblioteca di Babele? Nessuno meglio di Robert Darnton, insigne storico del libro e direttore di uno dei più importanti sistemi bibliotecari d’America, a Harvard, poteva affrontare simili interrogativi. Chi tuttavia si a­spetta l’ennesima, retriva difesa del libro tradizionale rischia di rimanere deluso: bibliofilo nel senso più puro del termine, ma per nulla intimorito dalle sfide dell’innova­zione, Darnton è convinto che il matrimonio fra libri e tecnologia possa essere felice. E per convincere anche noi innesca una serie di illuminanti cortocircuiti fra passato e futuro: spiega i rischi dell’euforia digitale leggendo un best seller fantascientifico del 1771; il funzionamento delle nostre scelte di lettura analizzando i commonplace books d’epoca Stuart; i meccanismi della produzione libraria pedinando un contrabbandiere settecentesco lungo l’itinerario Neu­châtel-Marsiglia-Montpellier. E racconta piccole e grandi verità, spesso scomode, sul mondo del libro: scopriamo così che le biblioteche di tutto il mondo distruggono un gran numero di volumi per (presunta) man­canza di spazio, che la pirateria editoriale è vecchia quanto l’invenzione di Gutenberg, e che l’e-book è ben lungi dall’at­tec­chire nell’ambiente accademico statunitense. Ma ciò che più preme a Darn­ton è la natura stessa della trasmissione del sapere, di cui il libro è stato, è, e presumibilmente sarà strumento principe: l’operazione Google Book Search deve insegnarci che il patrimonio della conoscenza è troppo prezioso per affidarne la continuità a un monopolio privato. Biblioteche, università e governi non possono davvero stare a guardare.



Robert Darnton
L'età dell'informazione
Milano, Adelphi, 2007, 249 pp.
Descrizione
George Washington aveva gravi problemi di denti – tant’è che a Mount Vernon sono conservate diverse dentiere: di legno, di avorio, di zanna di tricheco o di ippopotamo. A partire da una constatazione apparentemente marginale ed eterodossa, Robert Darnton, con la sua immensa erudizione e con il suo talento di narratore, ci porta all’interno di un mondo molto più complesso e contraddittorio di come l’abbia presentato la storiografia dell’Illuminismo, in particolare quella marxista. In questo libro egli affronta quattro temi strettamente connessi fra loro: i rapporti franco-americani, la vita nella Repubblica delle Lettere, le forme di comunicazione e i modi di pensare tipici del Settecento francese. E lo fa, come al solito, rivolgendosi non agli storici di professione, bensì «al comune lettore colto», che guida in luoghi del tutto inaspettati: nei bistrot di Parigi in cui venivano «intercettate» le conversazioni e le canzoni satiriche contro la Corte e il Governo o sotto il grande castagno all’ombra del quale i nouvellistes de bouche – i «gazzettini umani» – si scambiavano informazioni riservate sulle più controverse vicende di politica e di costume. Rispetto ai suoi libri precedenti c’è però una novità, e di un certo rilievo: questa volta Darnton intende «fornire una prospettiva storica» a quesiti quanto mai attuali in un’epoca, come la nostra, ossessionata dall’informazione.

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25 maggio 2011

In libreria

Marco Leone
La leggenda dei vicoli. Analisi documentaria di una rappresentazione sociale del centro antico di Genova , Milano, Franco Angeli, 2010, 176 pp.
Descrizione
Il volume analizza i processi di cambiamento dell’immagine del centro storico genovese nell’ambito delle trasformazioni urbanistiche, economiche e sociali del quartiere e della città. Fra le differenti rappresentazioni sociali di questa parte della città, l’attenzione si focalizza su quella connotata da un pregiudizio, negativo e folcloristico, che a lungo ha contraddistinto il quartiere: quello di una zona urbanisticamente degradata, porzione malfamata della città. Le origini e le peculiarità di tale rappresentazione sociale sono esaminate tramite analisi documentaria. [leggi tutto sul sito dell'editore].
Indice
Introduzione
La rappresentazione sociale di un quartiere (Centro storico e rappresentazioni sociali; Il lavoro di ricerca; Conclusioni)
Il centro storico (Prima del centro storico; Il quartiere; conclusioni)
"This area is off limits for allied troops" (Mala e criminalità; Interpreti principali, secondari e comprimari; Conclusioni)
La costruzione sociale di una rappresentazione del centro storico (La "Città bassa"; Dal noir al poliziesco; La canzone genovese; Quartieri pericolosi; Da centro cittadino a social problem; Dalla città bassa al centro antico; Conclusioni)
Miti e folclore del quartiere (L'angiporto genovese tra finzione e realtà; Via del Campo; Via Prè; Conclusioni)
Conclusioni (Un percorso di ricerca tra i carruggi; Declino e rappresentazione sociale del quartiere; Media e rappresentazioni sociali del quartiere; Quartiere, mondi illegali e rappresentazioni sociali; Riflessioni conclusive)
Metodologia (Il campione e le interviste; Le fonti documentarie secondarie)
Riferimenti bibliografici.
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24 maggio 2011

Quando la morte fa vendere...gli ideali

L'ultima spiaggia del giornalismo
"Vogliamo fare un giornale per la gente che ha bisogno o desiderio di conoscere i fatti e le notizie senza fronzoli retorici, senza inutili e diluite divagazioni: un giornale il quale risponda al quotidiano e borghese 'che c'è di nuovo' che ogni galantuomo ha l'abitudine di rivolgere ogni mattina al primo amico o conoscente che incontra...". Così veniva presentato, a firma "i redattori", il primo numero del Resto del Carlino. Era il 21 marzo 1885. Un vero e proprio "manifesto" per il nostro mestiere, come amava definirlo Giorgio Mottana, autentico maestro di giornalismo.
Sono trascorsi 125 anni. Molte (troppe) cose sono cambiate. In peggio. Soprattutto negli ultimi 10-15 anni anni. La notizia è ormai un optional, la fonte non è più il mattinale della questura o il brogliaccio del pronto soccorso ma l'utilizzo indiscriminato e scriteriato di facebook, il sensazionalismo una regola, l'approfondimento merce sempre più rara, la grafica un dogma, la foto a tutta pagina un obbligo più che una necessità, meglio se di veline e starlet in cerca di pubblicità e in compagna di calciatori più o meno famosi, la commistione tra cronaca e commento una consuetudine consolidata, inesistente o quasi la verifica delle fonti, l'accertamento "de visu" della notizia, il gossip il pane quotidiano. E una contraddizione con le regole del giornalismo asettico, equilibrato, al servizio del lettore stella polare del nostro mesiere: le redazioni militarizzate.
Che ne è del nostro mestiere? Dove va il giornalismo del Terzo Millennio? Cosa fanno i giornalisti, quelli veri, cresciuti a pane e cronaca, per fare riprendere fiato e credibilità, e di conseguenza lettori, ai loro giornali. Che ne è della grande tradizione dei giornali regionali che ha trovato in Piero Ottone, Michele Tito e Carlo Rognoni, alla guida del Secolo XIX, ancorché con stili e strategie diverse, la massima espressione e il massimo successo? E ancora: ha senso sfornare centinaia e centinaia di futuri disoccupati e coltivare illusioni o creare nuovi sfruttati attraverso presunte scuole di giornalismo, master, sanatorie per abusivi e free lance? Che si fa per porre fine allo sfruttamento degli abusivi, piaga di cui sono complici, al di là delle pesanti responsabilità degli editori-squalo, gli stessi giornalisti scansafatiche?
E' su questi temi, spinosissimi ormai, che i giornalisti dovranno mettersi in discussione, rimettere a punto le regole e i canoni della professione, tornare al rispetto della deontologia professionale, svincolarsi da lacci e lacciuoli, condizionamenti per paura o per comodo. E trovare risposte adeguate per evitare che la crisi della stampa, che è anche di credibilità, a tutti i livelli, diventi irreversibile.
Dalle edicole e dai lettori arrivano già pesanti sentenze: le vendite sono in picchiata, la disaffezione cresce, la credibilità è ai minimi storici al pari della fiducia. Per vendere ogni sistema è buono. A quando, dopo cassette, dvd, carte stradali, libri, carte da gioco, fumetti, penne biro e braccialetti della salute, l'ultima spiaggia dell'abbinamento giornale-kit per aspiranti suicidi?"
Luciano Angelini (Giornalista, già condirettore del "Secolo XIX")

L'articolo qui riprodotto, già pubblicato sul sito Uomini liberi di Savona (rubrica "L'opinione di Luciano Angelini"),  è stato redatto in occasione della polemica lanciata da Marcello Zinola, segretario dell'Associazione ligure dei Giornalisti Fnsi, con l'articolo Come uccidere due volte un sedicenne. Pietà l’è morta: chi la conserva, però, non se ne vergogni consultabile sul blog di Marco Preve "Trenette e mattoni"  http://preve.blogautore.repubblica.it/tag/marcello-zinola/.
Francesca Astengo

23 maggio 2011

Questa è la BBC!

Il sistema mediatico, come ben studiato nel libro di Hallin, delinea diversi modelli e sistemi a seconda del contesto analizzato, in particolare, il Regno Unito, rappresenta un mondo a sé stante, del tutto eccezionale, sia sul suo sistema politico- amministrativo, che vede una particolare commistione tra monarchia e parlamento, fondata su una “prassi”, e non su una costituzione scritta, nel suo sviluppo storico e, di conseguenza, realtà del tutto particolare anche in quello che è il suo sistema mediatico.
In particolare, il sistema radiotelevisivo pubblico, di cui la BBC è sua particolare ed esemplare rappresentante, è un’eccezione anche in quel modello mediatico liberale entro cui si colloca.
La BBC, diminutivo di British Broadcasting Corporation, nacque nel 1922, sotto la guida di John Reith e di alcuni suoi colleghi operatori della telecomunicazioni.  Nel 1932 inizia il servizio di trasmissioni televisive sperimentali, e, dal 1936, diventa il primo operatore al mondo a fornire un servizio regolare.
La BBC, sotto il motto “National Shall Speak Peace Into Nation”, si dichiara da subito libera da influenze commerciali e politiche, e manterrà negli anni, sempre questo obbiettivo, diventando, anche nel bel mezzo di discussioni sulla legittimità del suo continuo sviluppo statale, l’emittente più autorevole tra gli operatori mondiali, anche in ragione delle tradizionali e rigorose modalità di produzione dei dati giornalistici, codice etico e professionale, diventato simbolo e punto di riferimento per la categoria.
In particolare, sotto la guida di Lord Reith, l’emittente costruì quelle che oggi sono le sue solide basi odierne, anche se un po’ mutate per stare al passo coi i tempi: quelle che sono chiamate le basi o principi reithiani. I principi del primo direttore della BBC, erano una triade composta da quelli, che secondo lo stesso Reith, dovevano essere gli obbiettivi finali del servizio radiotelevisivo pubblico, cioè: Informare / Acculturare / Intrattenere.
Questa linea editoriale, basata su principi di libertà e eticità di informazione, sarà per molti anni la guida della BBC, e sarà ciò che l’ha resa la più autorevole fonte di informazione, anche quando doveva attraversare critiche, rinnovi, cambi e umori politici e storici, che hanno visto l’avvento di nuove tecnologie e la sempre più arrogante ed ingombrante figura, nel panorama mediatico e informativo, della tv commerciale.
Nel Regno Unito si è sempre dibattuto molto, a livello civile e non solo istituzionale, di quelli che devono essere gli obbiettivi e le funzioni di un servizio pubblico informativo, nonché si è discusso spesso su come e con quali mezzi, sarebbe stato più corretto raggiungere tali obbiettivi.
Il libro di Matthew Hibberd, professore emerito di Media e Giornalismo, presso l’Università di Stirling, in Scozia, racconta le origini della BBC, il suo sviluppo e tutti i dibattiti che negli anni ha dovuto affrontare negli anni, con tutte le diverse commissioni parlamentari che si sono susseguite. La BBC infatti, mantiene il suo ruolo pubblico grazie al rinnovo di un contratto decennale o pluri, chiamato Royal Charter, e, ad ogni rinnovo, la legittimità del suo servizio o più precisamente la legittimità del fatto che non fosse ancora troppo commerciale e poco incline al clientelismo, crea ciclicamente larghi confronti e scontri tra parti politiche e sociali. Allo stesso tempo, se la legittimità della commercialità e la legittimità del canone sono state più volte prese in considerazione nella discussione pubblica, poche e rare volte è stato criticato o messo in dubbio l’operato e il lavoro svolto dall’emittente, che, super parters, è sempre stata in grado di informare al meglio i cittadini inglesi, fornendo il miglior lavoro d’informazione possibile, svolgendo, oltretutto, un’ indiscusso ruolo di coesione sociale, specie ai suoi inizi e nell’immediato secondo dopo-guerra.
La BBC, inoltre, è stata l’emittente pubblica che più ha saputo mettersi in discussione, rinnovandosi in tecnologia e contenuti per essere sempre all’avanguardia, subendo solo un arresto parziale con l’era del digitale, che, tra crisi economico-finanziaria, nazionale e democratica, ha inciso negativamente sulla sua supremazia.
Con l’avvento del commerciale molti punti fermi della British Broadcasting Corporation sono stati messi in forse e a rischio, sopra a tutto, la recente discussione sulla possibilità di eliminare il canone a favore di un abbonamento volontario, eventualità che vedrebbe l’azienda perdere quasi la metà delle sue rimesse, a cui dovrebbe sopperire con pubblicità e “compromessi” politici che la vedrebbero soggetta a dipendenza economica, e, di conseguenza di dipendenza informativa che minerebbe la sua capacità professionale unica.
L’esempio inglese di servizio radiotelevisivo pubblico, tra luci e ombre, è sicuramente l’esempio più concreto e professionale di quello che dovrebbe essere un servizio statale in favore al cittadino, che, anche se spesso ce lo dimentichiamo, non è solo consumatore, ma anche lettore e soprattutto e/lettore, nel senso che è la pietra miliare della legittimizzazione politica che, nei paesi democratici, è il fondamento di tutta la struttura del sistema.
Debora Fugazzi
Matthew Hibberd
Il grande viaggio della BBC
Storia del servizio pubblico britannico dagli anni Venti all’era digitale

Roma, RAI-ERI, 2005, 409 pp.
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22 maggio 2011

Un anno in prima pagina

41 racconti, il meglio di un anno di giornalismo italiano (dall'estate 2009 a quella 2010), per rileggere l'Italia e la vita, far mente locale sull'anno appena trascorso e “riappacificarsi” con la stampa in generale. In tempi in cui, infatti, sempre più spesso ci si interroga sul modo di fare informazione nel nostro Paese, questa piccola raccolta appare un vero gioiellino. 187 pagine in cui grandi firme (e non solo) raccontano la cronaca, i casi che hanno scosso il 2010, affrontano i dibattiti del nostro tempo e descrivono mondi, con tanti stili giornalistici quante le sfaccettature del reale. Dal reportage al coccodrillo, dall'inchiesta alla rievocazione storica. Interessantissimi necrologi ad esempio per Mike Bongiorno, Ted Kennedy e Raimondo Vianello, firmati rispettivamente da Gian Antonio Stella, Vittorio Zucconi e Michele Serra. Grandi reportage invece quelli di Ezio Mauro e Ettore Mo; da una parte abbiamo un gommone nero che vaga per 21 giorni nel Mediterraneo senza benzina con 78 disperati a bordo. Un racconto troppo simile all’oggi per sembrare cronaca del passato e che riesce a far provare per un attimo la disperazione di chi, per tentare di non perdersi, ha già perso tutto. Dall'altra, invece, c'è un maestro di strada che ogni sabato mattina, scortato dai suoi due asinelli, porta la sua “Biblioburro” negli angoli più sperduti del Sud America. Vere narrazioni del e dal mondo, che hanno un sapore di romanzi condensati in poche pagine, così come il pezzo di Mimmo Candito che dalla città di Ciudad Juarez descrive l'inferno di una terra di nessuno che ingoia ragazze tra bordelli e fiumi di droga. Vite dimenticate, sparite nel nulla, che il vero giornalismo ha però il coraggio e il dovere di ricordare, per dare una voce proprio a chi non ne ha. Con Pietro del Re andiamo così anche a scoprire l'agghiacciante realtà dei bambini soldato nel Congo, che dopo aver imparato ad uccidere per gioco adesso combattono solo per un futuro normale. Oppure, grazie a Francesco Merlo, leggiamo della sconcertante catena di suicidi che scuote i corridoi di France Telecom, alla faccia del capitalismo felice. Tante storie, interrogativi e letture del mondo. Per quanto riguarda le cronache italiane, per citarne solo alcune, Travaglio si lancia in una difesa del crocifisso, Andrea Galli ci racconta la Milano del metadone, Gramellini ci regala un paio dei suoi Buongiorno... Ne escono fuori tanti esempi di altissimo giornalismo, di quello che ci si augurerebbe tutti i giorni.
Giulietta Testa






Un anno in prima pagina.
Il meglio di dodici mesi di giornalismo italiano

a cura di Nicola Graziani
Roma, Nutrimenti editore,  2010, 192 pp.

21 maggio 2011

La manomissione delle parole

Manomissione è una di quelle parole polisemiche che, grazie alla caratteristica di essere portatrici di più di un significato, sono dotate di una particolare ricchezza, cosa che permette di giocare con loro, esplorandone i diversi piani.

Manomettere, nel suo primo significato, vuol dire forzare, alterare, violare; nel diritto romano assume invece il significato di restituire la libertà a uno schiavo. In questo saggio, che Carofiglio per modestia preferisce chiamare “gioco di sconfinamenti, antologia anarchica, ricerca di senso”, i due volti della parola sono entrambi protagonisti, perché l’autore si propone di restituire alle parole, e ad alcune di esse in particolare, il loro significato perduto; il suo obiettivo è ripristinarne la pienezza dopo che, per troppo tempo, deliberatamente o inconsapevolmente, ne è stato fatto scempio, dopo che sono state svuotate, distorte, abusate, piegate al servizio del potere, che, in ogni epoca, compresa la nostra, tende a plasmare il linguaggio per i propri scopi. Il fenomeno non risparmia neppure le parole del diritto, un lingua oscura, “sacerdotale piuttosto che tecnica”.
La prima lettura di questo saggio mi ha richiamato alla mente l’osservazione di Umberto Eco contenuta nelle Postille a Il nome della rosa, in cui Eco sottolinea come i libri parlino sempre di altri libri, come in un gioco di specchi. Qui i libri citati, e “presi a prestito” per costruire e puntellare e un percorso di grande coerenza e complessità, sono tanti, e per una strana combinazione, molti sono testi in cui mi sono imbattuta in questi ultimi mesi, nel mio percorso di studi: Carofiglio cita la Retorica di Aristotele, a proposito del sentimento, oggi desueto, della vergogna; c’è Orwell, con la neolingua di 1984, che rimanda al pericolo dell’eliminazione delle parole importanti, insieme ai concetti a cui si riferiscono; poi troviamo due filosofi del linguaggio, Wittgenstein (“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”) e Austin (Come fare cose con le parole) che pongono l’accento su due concetti: che il sapere sulla lingua è un sapere sul mondo e che il dire è un fare; per finire, c’è Italo Calvino, con l’articolo Per ora sommersi dall’antilingua, che denunciava, nel 1965, la pervasività del burocratese, caratterizzato dal “terrore semantico”, ovvero dalla fuga davanti alla concretezza delle parole e dei significati. Molti altri i riferimenti, tratti da opere diverse tra loro nel tempo e nello spazio, tra gli altri: la Bibbia, Dante, Skakespeare, Primo Levi, Giorgio Scerbanenco, lo stesso Carofiglio di Ragionevoli dubbi, fino alla poesia in musica di Bob Dylan e Bob Marley. Le parole importanti, preziosi congegni che Carofiglio manomette, smonta e ci restituisce nuovamente funzionanti sono: Vergogna, Giustizia, Ribellione, Bellezza e Scelta. Tutte indissolubilmente legate fra loro. Sono le tante facce dell’essere Uomo.
Elisabetta Ferrando



Gianrico Carofiglio

La manomissione delle parole
Milano, Rizzoli, 2010, 198 pp.

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20 maggio 2011

La cultura non è un lusso

"Un segno dei tempi di intrinseca ricchezza che assume oggi un significato centrale è il riconoscimento del valore essenziale della cultura come fattore imprescindibile per un'esistenza autenticamente umana. Nel passato spesso la cultura veniva considerata un lusso, e vi sono luoghi dove questo passato ancora perdura. Vi erano e vi sono persone che vedono nella cultura la semplice conservazione di determinate tradizioni e che quindi ritengono di dover porre dei limiti al rinnovamento attraverso avvedute manovre di indirizzo. In tutti questi casi si pone la persona in funzione della cultura (invece che il contrario), oppure si abusa della cultura utilizzandola come arma contro la persona. A me pare che in realtà la cultura sia, al pari della maturità, un necessario completamento (compimento?) della personalità, senza il quale responsabilità individuale e democrazia non sarebbero nemmeno pensabili. Cultura è in ultima analisi capacità autonoma di valutare, comprensione di sé e del presente, senso delle cose e della storia, creatività umana, coraggio delle proprie idee e accettazione dei propri limiti. Se la cultura è un valore essenziale per l'umanità, allora a ciascuno dovrà essere data la possibilità di 'fare' cultura, e non di 'essere riempito' di cultura."
Alexander Langer

*A. Langer Segni dei tempi, 1967 (leggi il testo integrale sul sito della Fondazione Alexander Langer).
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In libreria

Confronti di culture.
Esperienze di progettazione condivisa nei quartieri genovesi
a cura di Giuliano Carlini e Martina Mongelli
Genova, ECIG, 2011, 136 pp.
collana Società e Sviluppo.
Descrizione
Le dinamiche sociali complesse ed  in divenire, le ripetute trasformazioni degli assetti urbani ed i fenomeni migratori, producono modifiche nelle relazioni interpersonali che si riflettono nelle condotte del quotidiano. La città è un luogo esposto alla conflitttalità, ma è anche la realtà in cui s'invera il valore creativo della mescolanza: il crescente individualismo e le diffuse solitudini induconpo ad individuare il "nemico" nell'altro, percepito come diverso per proveniuenza culturale, generazionale e di genere. Con uno sguardo esplorativo sui quartieri e sulla realtà locale, il presente volume racconta percorsi di confronto volti ad acquisire strumenti per conoscere ed apprezzare le diversità.

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19 maggio 2011

Libro o e-book? Il piacere della lettura oggi

Che faccia farebbero i vari Dante, Manzoni e Shakespeare, non ci è dato saperlo. Allibita? Senz'altro. Divertita? Probabile. E se osservassero meglio il giovane mentre “sfoglia” i loro capolavori per mezzo di un e-book, sicuramente inizierebbero a confabulare su quella strana lavagnetta metallica luminosa. Tablet, i-pad, pdf, libri virtuali, ecc : tutti termini che hanno poco a che fare con la letteratura, eppure quanto mai attuali. Vi immaginate se il buon Don Abbondio, prima di essere interrotto da Perpetua, “ruminasse” sull'identità di Carneade, stringendo tra le mani un e-book ? E se il capitano Achab, alla ricerca della temibile Moby Dick, aggiornasse il suo diario di bordo...virtuale? Ci chiederemmo se stessimo leggendo il racconto Herman Melville oppure uno di Isaac Asimov, prima di tutto. Dopodichè una domanda balenerebbe nella nostra mente: ma che fine hanno fatto i libri?
Ed è la questione che sta coinvolgendo un po' tutti i “puristi” della lettura, di fronte all'avanzata prepotente delle nuove tecnologie multimediali studiate per riprodurre, in via digitale, uno dei piaceri più intensi ed affascinanti della società umana.
Steve Jobs, fondatore della Apple, ci ha visto lungo. Prima con il telefono touch screen più famoso del mondo, ora con l'I-pad, ha sicuramente rivoluzionato il modo di concepire la lettura. Con una semplice ( ma molto costosa) “tavoletta” possiamo viaggiare su internet, redarre un documento, guardare un film e, appunto, “divorare” la nostra opera letteraria preferita. Una pacchia, non c'è che dire! Senza considerare i notevoli vantaggi che porta un oggetto così leggero e maneggevole: molto più spazio nelle nostre borse e multimedialità allo stato puro.
Tante scuole nel mondo hanno sposato con entusiasmo l'ascesa al successo dei Tablet, sostituendo i pesanti testi scolastici con questi luminosissimi schermi portatili. E se il Pierino di turno dimenticasse il dizionario a casa, la mamma rimedierebbe prontamente inviandoglielo via posta elettronica, oppure acquistandolo direttamente dall'apposito negozio virtuale.
Siete affascinati? Increduli? Ma è questa la realtà di oggi.
Ora, dopo questa mole di termini tecnici di chiara origine anglosassone, fate un semplicissimo gesto: andate dalla vostra libreria che gelosamente custodite, e osservatela bene.Un giorno potrebbe non esistere più, ridotta ad un semplice CD. Prendete un libro in mano, quello che preferite. E dopo averlo aperto, sfiorate le pagine, annusate l'odore che queste emanano: vi assicuro che accarezzare un freddo schermo non è la stessa cosa. Volete forse che il piacere di passare un pomeriggio in libreria, da Feltrinelli, alla Berio, non faccia parte più della vostra vita? Io non credo. E allora, come novelli Montag in Farenheit, dove il protagonista lotta con tutte le sue forse per difendere il diritto alla lettura, il diritto di poter leggere fisicamente un racconto, salvate i libri. Quelli elettronici sono comodi, leggeri, rapidi ed intuitivi...forse troppo. I tablet hanno invaso il mercato con prepotenza, ma non sono riusciti ad abbattere il muro che le pagine ingiallite hanno innalzato in più di due millenni: e mai lo faranno. La Magna Charta Libertatum, la Bibbia, la nostra Costituzione. L'uomo sancisce la sua realtà e la scolpisce nel marmo dei libri di carta. E non c'è batteria da ricaricare, perchè è la nostra storia che alimenta i nostri pensieri, i nostri sogni, le nostre speranze. Che trovano casa in un vero libro, oggi e sempre.
Francesco Colombo
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18 maggio 2011

In libreria

Robert Darnton
Il futuro del libro

Milano, Adelphi, 2011, 273 pp.
Descrizione
Nell’èra digitale il libro resisterà, andrà in crisi o addirittura rinascerà a nuova vita? Google Book Search rappresenta una minaccia per il mercato, un’opportunità per la democratizzazione della conoscenza, o un’incognita per entrambi? Internet sarà la nuova biblioteca di Alessandria o un’incar­nazione alienante e distopica della biblioteca di Babele? Nessuno meglio di Robert Darnton, insigne storico del libro e direttore di uno dei più importanti sistemi bibliotecari d’America, a Harvard, poteva affrontare simili interrogativi. Chi tuttavia si a­spetta l’ennesima, retriva difesa del libro tradizionale rischia di rimanere deluso: bibliofilo nel senso più puro del termine, ma per nulla intimorito dalle sfide dell’innova­zione, Darnton è convinto che il matrimonio fra libri e tecnologia possa essere felice. E per convincere anche noi innesca una serie di illuminanti cortocircuiti fra passato e futuro: spiega i rischi dell’euforia digitale leggendo un best seller fantascientifico del 1771; il funzionamento delle nostre scelte di lettura analizzando i commonplace books d’epoca Stuart; i meccanismi della produzione libraria pedinando un contrabbandiere settecentesco lungo l’itinerario Neu­châtel-Marsiglia-Montpellier. E racconta piccole e grandi verità, spesso scomode, sul mondo del libro: scopriamo così che le biblioteche di tutto il mondo distruggono un gran numero di volumi per (presunta) man­canza di spazio, che la pirateria editoriale è vecchia quanto l’invenzione di Gutenberg, e che l’e-book è ben lungi dall’at­tec­chire nell’ambiente accademico statunitense. Ma ciò che più preme a Darn­ton è la natura stessa della trasmissione del sapere, di cui il libro è stato, è, e presumibilmente sarà strumento principe: l’operazione Google Book Search deve insegnarci che il patrimonio della conoscenza è troppo prezioso per affidarne la continuità a un monopolio privato. Biblioteche, università e governi non possono davvero stare a guardare.
 Robert Darnton
L'età dell'informazione
Milano, Adelphi, 2007, 249 pp.
Descrizione
George Washington aveva gravi problemi di denti – tant’è che a Mount Vernon sono conservate diverse dentiere: di legno, di avorio, di zanna di tricheco o di ippopotamo. A partire da una constatazione apparentemente marginale ed eterodossa, Robert Darnton, con la sua immensa erudizione e con il suo talento di narratore, ci porta all’interno di un mondo molto più complesso e contraddittorio di come l’abbia presentato la storiografia dell’Illuminismo, in particolare quella marxista. In questo libro egli affronta quattro temi strettamente connessi fra loro: i rapporti franco-americani, la vita nella Repubblica delle Lettere, le forme di comunicazione e i modi di pensare tipici del Settecento francese. E lo fa, come al solito, rivolgendosi non agli storici di professione, bensì «al comune lettore colto», che guida in luoghi del tutto inaspettati: nei bistrot di Parigi in cui venivano «intercettate» le conversazioni e le canzoni satiriche contro la Corte e il Governo o sotto il grande castagno all’ombra del quale i nouvellistes de bouche – i «gazzettini umani» – si scambiavano informazioni riservate sulle più controverse vicende di politica e di costume. Rispetto ai suoi libri precedenti c’è però una novità, e di un certo rilievo: questa volta Darnton intende «fornire una prospettiva storica» a quesiti quanto mai attuali in un’epoca, come la nostra, ossessionata dall’informazione.

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Fare strada ai poveri, senza farsi strada

La dicotomia poveri=emarginati è sempre stata indissolubile, perché si sa, se sei povero “stoni” con la tranquillità sociale che tutti vogliamo avere, ma soprattutto vedere, che non vogliamo perdere, e di cui nessuno vuole fare a meno.
Il tema dell’emarginazione si lega così indissolubilmente con il tema dell’integrazione, elemento, sembrerebbe, ormai sempre più fondamentale nella odierna “mancata” cultura della convivenza che ci contraddistingue.
La mancata integrazione ci rimanda poi, alle classi più deboli, minoritarie ed “escluse” della società, e quindi, ai poveri, categoria sempre più diffusa, sia in numero che in tipologia, perché ormai, il povero, non è più solo “quello che non ha”, ma è anche colui, per assunto, che viene da un’area non democratica o comunque non appartenente al Nord del mondo, colui che non ha origini religiose cristiane, colui che ha un colore di pelle diversa o, peggio ancora, quello che ha la famosa “provenienza etnica” differente dalla nostra.
Praticamente quasi tutto il resto del globo, se non appartenente al nostro mondo valoriale, è stracarico di poveri.
Ma cosa succede quando l’altra parte del mondo si “scontra” con il nostro? Succede che lo stereotipo di condensa in stigma, che a sua volta sfocia inesorabile nel pregiudizio, e da quest’ultimo, si arriva a quelli che ultimamente, almeno in Italia, sono stati bruttissimi episodi di razzismo politico, culturale e sociale.
Mai come in questo momento definizioni e termini che riguardano questo mondo sono stati utilizzati in maniera impropria da attori sociali e politici di qualsiasi tipo e natura, un ennesimo modo per girare voti certi e incerti, a proprio vantaggio, ma mai come adesso, questi temi sono fondamentali nello svolgere sociale e questo loro uso selvaggio va contrastato.
Importanti sono quindi gli studi che timidamente in Italia si stanno facendo avanti, così come le ormai numerose pubblicazioni che sfatano “miti” del cosiddetto “noi e l’altro” .
Tra questi lavori recentemente si sono aggiunte due nuove opere, presentate entrambe al Palazzo Comunale di Genova, qualche giorno fa: Gli Ultimi di Pino Petruzzelli e Non chiamarmi Gagiò di Giancarlo Muià.
Entrambi addetti ai lavori del settore, hanno voluto, nelle due loro opere, rappresentare, anche se in modo diverso, come i poveri in età moderna siano sempre più una rappresentazione politica, utilizzata sì, ma non concretizzata in attori sociali in grado di accedere davvero, con voce propria, ai palazzi del potere o della televisione: quindi doppiamente esclusi.
Così il povero, diventa sempre più una rappresentazione simbolica, non pratica, e di conseguenza diventa sempre più un’entità astratta, ma la povertà e l’emarginazione non sono entità fantasmi, bensì una dura realtà frutto di processi economici e sociali che non possono essere ignorati.
Entrambi i libri, sia quello di Petruzzelli che quello di Muià, vogliono essere testimonianza di due realtà, quella rom e quella sinti, ben concrete, realtà che culturalmente sono lontane dal nostro quotidiano ma non per questo frutto di storie “leggendarie”.
Due lavori che hanno visto una nascita contrastata, piena di ostacoli e di “volta spalle”, perché raccontare storie e intervistare chi vive fuori dal “coro”, fuori dall’abitudine a cui siamo avezzi, spesso provoca una reazione a valanga di distanze personali, ma anche pubbliche, da parte di chi non vuole aprire gli occhi per vedere che il mondo globale non è solo beni di lusso per tutti, ma anche incontri con modelli sociali e culturali profondamente diversi dal nostro.
Durante l’incontro Silvio Ferrari ha raccontato che una volta, quando era un bambino, aveva chiesto a sua madre chi fossero gli zingari, ed ella, aveva risposto “Gli zingari sono quelli allegri quando piove”…a questa affermazione Ferrari chiese “Perché?” e la risposta datagli fu “Perché sanno che dopo la pioggia arriva il sole”…una filosofia di vita che, noi “stanziali” e occidentali, dovremmo ben imparare.
Debora Fugazzi


*Giancarlo Muià, Non chiamarmi "Gagiò”. 25 anni tra rom e sinti, Genova,  edizioni Liberodiscrivere, 2011, 138 pp.
liink alla scheda del libro sul sito dell'editore.
*Pino Petruzzelli , Gli ultimi, Milano, Chiarelettere, 2011, 201 pp. (Prefazione di don Andrea Gallo) 
link alla presentazione del libro e dell'autore sul sito dell'editore.


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17 maggio 2011

Dall'inchiostro al megapixel: ecco come cresce l'informazione

Quale futuro attende gli “imperi di carta” ? Che influenza avranno le nuove tecnologie sul mondo dell'informazione? Queste sono le domande sulle quali gli autori riflettono, osservando la trasformazione della notizia. Dunque  News, ma anche comunicazione, giornaliTVInternet: parole chiave che costituiscono l'asse portante dell informazion mondiale.
Pur utilizzando talvolta toni leggermente “catastrofici”, i due autori analizzano in maniera dettagliata ed esaustiva come i mezzi di comunicazione di massa si stiano trasformando in base alle esigenze dell'utente. O è forse il contrario? Quale sia la causa, e quale sia l'effetto, non è facile da stabilire.
Sicuramente la scelta di Gaggi e Bardazzi di riportare gli argomenti separandoli distintamente è molto azzeccata: infatti permette al lettore di seguire in maniera gradevole la trattazione, toccando argomenti decisamente delicati in materia di comunicazione.
La rinuncia al privato. Sacrificando la nostra sfera personale, siamo in grado di essere perfettamente (o quasi) interconnessi: tutto già suggerito da Habermas nella sua Storia e Critica dell'Opinione Pubblica.
La Rete è cresciuta in maniera impensabile: se le prime comunicazioni via web sono avvenute circa trent'anni fa , con 4 soli dispositivi connessi tra loro, attualmente possiamo leggere post pubblicati su Facebook o Twitter da 500 milioni di utenti
Gli Stati Uniti sono senza alcun dubbio gli attori principali di questa evoluzione. Se da un lato possiamo assistere alla crisi degli imperi di carta, testimoni i crolli che stanno colpendo le più antiche e potenti testate a stelle e strisce, dall'altro i giganti della Silicon Valley ( Google, Apple, Yahoo! ecc.. ) lanciano vere e proprie crociate tecno/informatiche.
Il rapporto esistente tra Google e l'informazione è di difficile valutazione, poiché l'azienda di Larrey Page e Sergey Brin si trova in una posizione di ambiguità: il famoso algoritmo fornisce milioni di risultati immediati che soddisfano sempre (o quasi) le esigenze del navigatore web. Come potrebbe mai ribattere la carta stampata? Infatti gli stessi giornali, consapevoli o arresi di fronte allo strapotere del motore di ricerca più ricco del mondo, hanno dovuto lasciare strada. Ma si è rivelato un sorpasso molto costoso! “Tutto gratis” era l'imperativo del Web: niente di più fuorviante.
Dietro a motori di ricerca e siti, si apre uno scenario devastante stracolmo di pubblicità che, data la gittata che Internet ha verso ogni angolo del globo, assume aspetti anche preoccupanti: non stupiamoci dunque se riceviamo mail, oppure leggiamo fastidiosi banner pubblicitari personalizzati in base ai nostri gusti, in quanto siamo (a nostra insaputa) monitorati continuamente da spyware che registrano ogni nostra scelta formulata via web.
Così come ci si è accorti che neppure la televisione pubblica, a costo zero, possa effettivamente fornire un servizio di qualità ( e “Mister Sky” Rupert Murdoch ne è il testimone), anche l'informazione via web necessita dunque di fondi per poter essere efficiente e in un qual modo sopperire alla graduale morte dei giornali. Alcuni studiosi profetizzano che le prossime generazioni, nate in una realtà digitale, considereranno i quotidiani prodotti d'élite, nonchè acquistabili a prezzi ben più salati di quelli attuali.
Quindi, se nel lettore sorgesse la domanda su quale futuro attenda i “divoratori di notizie” di domani, non avrà una risposta chiara. Ma non perchè Gaggi e Bardazzi abbiano mancato il loro obiettivo, quanto alla continua, imprevedibile evoluzione che accompagna l'era di vetro.
Sicuramente non importa se, un giorno, la Notizia sarà presentata tramite un I-pad o sfogliando le suggestive pagine di un antico libro: finché all'uomo sarà data la possibilità di informarsi ed informare, ci sarà sempre una maniera per poter divulgare il proprio pensiero.
Francesco Colombo


Massimo Gaggi - Marco Bardazzi
L'ultima notizia. Dalla crisi degli imperi di carta al paradosso dell'era di vetro

Milano, Rizzoli ,2010, 280 pp.
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16 maggio 2011

Costruire nuove interazioni mediali

Comunicazione media cittadinanza. Appare così il titolo in copertina: nessun segno di punteggiatura a differenziare le tre parole, solo un “a capo” a dividerle. Una scelta grafica poco chiara, che d’impatto può indurre a fraintendere, o meglio, non comprendere il vero significato del testo. A prima vista, potrebbe far pensare, infatti, a un nuovo concetto di comunicazione, intesa come “media cittadinanza” o ancora alla comunicazione come strumento che “media” la cittadinanza stessa.
Solo a una riflessione più attenta e con l’ausilio del sottotitolo, si comprende in realtà l’inesistente relazione sintattica tra i vocaboli e di conseguenza la precisa volontà dell’autrice di analizzarli in maniera autonoma e svincolata, sebbene legati concettualmente da un fil rouge ben preciso.
Il testo di Giselda Antonelli, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Facoltà di Scienze sociali dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara, attraverso l’analisi precisa e fortemente documentata di argomenti specifici quali la comunicazione interculturale, la media education e la cittadinanza europea propone una riflessione su come la comunicazione, i media e il significato di cittadinanza siano mutati ed evoluti nel corso del tempo.
Partendo dalla constatazione di uno smarrimento di competenze da parte della società odierna, all’interno della percezione pubblica, a favore di un’enfatizzazione dell’individualismo, la Antonelli pone l’attenzione iniziale proprio sul nuovo tipo di rapporto che è venuto a instaurarsi tra il soggetto e la società stessa.
Evidente ormai che gli uomini non possano vivere senza socializzare e quindi comunicare, il primo capitolo offre una riflessione sulla centralità delle relazioni e della ricerca altrui per forgiare la nostra identità. Partendo dalla crisi, intesa non come declino o smarrimento, ma nel senso più strettamente etimologico del termine come cambiamento e occasione di riflessione per ricominciare, viene sottolineata la stretta necessità di aggiornare i contenuti e i valori comuni, a partire dall’ambiente educativo e scolastico.
Soffermandosi poi su alcune forme particolarmente espressive di comunicazione e media, dal writing alla multitasking generation e sul rapporto tra old e new media in grado allo stesso tempo di connettere realtà molto lontane, si passa ad evidenziare nella seconda parte, come la dimensione dell’incontro con l’altro si declini attualmente in termini di interculturalità.
Attraverso una descrizione dei fattori, degli strumenti e al contempo degli ostacoli della comunicazione interculturale l’autrice mette in luce l’esigenza attuale di affacciarsi a nuove culture senza incorrere nell’errore di ghettizzarle cadendo in quell’insieme di stereotipi e pregiudizi esclusivamente dannosi, in quanto mera “barriera precostituita”.
Ma ulteriore prospettiva con cui studiare la comunicazione interculturale riguarda il ruolo assunto dai mass media. Poiché i mezzi d’informazione incidono vertiginosamente sulla formazione dell’opinione pubblica e quindi dei giudizi e delle percezioni ad essi associate, è fondamentale una loro rappresentazione dell’altro reale e non appunto deformata, promuovendo l’accesso all’industria dei media a tutte le diversità culturali.
Si giunge così alla quarta parte del saggio, dove la Media education diventa protagonista. Essa, sostiene la Antonelli, deve “contribuire all’educazione al pensiero diverso, all’autonomia e al senso critico” soprattutto tra i giovani dove i media sono una costante quotidiana. Fondamentale dunque guidare le nuove generazioni a un uso consapevole, autonomo e critico dei linguaggi mediali portandoli a concepire la media education come nuova forma di cittadinanza nella società della conoscenza.
Non bisogna però sottovalutare gli aspetti negativi legati a questa evoluzione, è quanto si premura di sottolineare l’autrice. Il processo interculturale comunicativo ha infatti anche creato nuove forme di diseguaglianza socioculturale, attribuibili principalmente a una scarsa diffusione, in molte parti del mondo, di una vera cultura mediale, sui cui è urgente investire.
Infine un rapido viaggio tra le radici e la storia della parola cittadinanza, contestualizzata nell’ottica della modernità, esaminata sotto diverse prospettive sociologiche e tema centrale di numerosi dibattiti contemporanei, (in particolare a partire dalla ratificazione del Trattato di Maastricht) traghetta la panoramica della Antonelli su questi tre nuovi percorsi di partecipazione, verso la speranza di una società capace di ridisegnare modalità inedite di interazione.


Carolina Piola

Giselda Antonelli
Comunicazione Media Cittadinanza
Milano, Franco Angeli, 2009, 172 pp.
*link all'Indice del libro
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Impossibile resistere alla voce di corridoio


Ne siamo circondati. Si diffondono e ci contagiano in maniera pandemica, tanto che è impossibile non aver mai avuto a che fare con una di queste piccole pulci. Sono i gossip, i rumors, le voci. Molte parole per definire le notizie false e infondate. “Ho sentito”, “si dice che”, “voci di corridoio dicono”, iniziano tutte con le stesse introduzioni, le stesse formule, come le fiabe.
Cass R. Sunstein, nel suo saggio Voci, gossip e false dicerie, mette in guardia il lettore e spiega il fenomeno, ammiccando spesso alla psicologia cognitiva e proponendo il tema in modo piacevole, tanto che il libro può essere letto in un paio d'ore. Facendo spesso riferimento a eventi ben conosciuti e all'attualità l'autore esamina i processi che sono dietro alla proliferazione del gossip, aiutandoci a capire come è facile cascare nella voce senza nemmeno rendersene conto.
Le paure e le speranze sono inneschi eccezionali, i quali alimentano i dubbi, le paure, le speranze della gente nei confronti del governo, dei gruppi terroristici, di particolari personalità o anche, molto banalmente, del vicino di casa.
Sunstein sostiene che le voci infondate non sempre nascono con l'intento di recar danno, ma spesso vengono diffuse semplicemente per supportare una causa o per promuovere quello che è ipoteticamente il bene pubblico. Ovviamente la maggior parte di queste notiziole nasce con l'intento di calunniare e di danneggiare, soprattutto per quanto concerne la sfera politica ed economica di un paese. E le persone ci cascano, sempre.
Quante volte si crede incondizionatamente a un rumors solo perché veniva dipinto male un personaggio che già non si apprezzava precedentemente? E spesso, per far cadere questa voce, ci si è sentiti sia presi in giro sia seccati proprio perché era una falsità e non un'informazione veritiera.
Il problema che sorge quando ci si trova davanti a fenomeni del genere consiste nell'entrata in gioco di una molteplicità di fattori come le conoscenze che si possiedono, le emozioni, le nostre convinzioni. Questi aggirano le nostre informazioni e le nostre capacità di raziocinio e innescano in noi meccanismi nei quali è davvero facile cadere.
L'autore espone alcune di queste “trappole”, tra cui le cascate sociali, le quali consistono nell'assecondare e attuare affermazioni e comportamenti di un leader, o la polarizzazione dei gruppi, che si manifesta quando più persone con le stesse idee si incontrano e approdano a idee più estreme.
La paura di non essere al passo coi tempi, di essere considerati ignoranti o non accettati fa sì che spesso si cada in questi spiacevoli fattoidi.
Sunstein analizza soprattutto i nostri tempi, cioè l'era di internet, in cui è ancora più facile cascare in questo tipo di voci, celate dietro a un post di un blog o da un video su YouTube, tanto più che ci si sente attirati da i numeri delle visualizzazioni o dal consiglio di un amico.
Alla luce di quanto viene chiarito nel saggio si arriva a comprendere il vero danno che può derivare da un'eccessiva proliferazione di rumors: un pericolosissimo effetto censura (chilling effect), il quale minaccia la libertà d'espressione e la democrazia stessa. Una buona informazione, equilibrata e sostanzialmente obiettiva, potrebbe contrastare questo dilagare delle voci di corridoio. Le correzioni e le rettifiche, per quanto tempestive, invece potrebbero rafforzare la forza della diceria, attirare ancora di più, anche perché nella mente scatterebbe improvvisamente la diffidenza per chi corregge, a causa delle convinzioni pregresse.
Un interessante saggio su un fenomeno così diffuso e incontrollabile, e che, allo stesso tempo, fa riflettere sulla funzione dei fautori dell'informazione. Propone una tesi assolutamente condivisibile ma non pone davvero una base per arginare la crescente mole di rumors, forse perché non esiste una soluzione davvero efficace. Infatti il citato chilling effect, a mio avviso, oltre a essere una soppressione barbara, non sembrerebbe essere così efficace, considerando l'impossibilità, almeno per quanto concerne il web, di risalire al propagatore della diceria.
Dario Veglia


Cass R. Sunstein
Voci, gossip e false dicerie.
Come si diffondono, perché ci crediamo, come possiamo difenderci
Milano, Feltrinelli, 2010, 105 pp.

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15 maggio 2011

Accendere un libro, leggere radio e tv

Enrico Menduini, professore ordinario del DAMS all'Università Roma Tre, partendo dall'esplicazione di concetti inerenti la comunicazione post-moderna, i media e il loro rapporto sempre più complesso con la società di massa, intraprende un percorso brioso e vivace che ripercorre, senza mai cadere in noiosi tecnicismi, la storia degli strumenti d'informazione, dalla televisione (con la quale siamo cresciuti), ai più recenti ritrovati multimediali che stanno rivoluzionando il concetto di informazione.
Nella prima parte del suo saggio, l'ex consigliere d'amministrazione Rai prende in considerazione i media elettronici, il cinema, la televisione e la radio esplicandone storia, funzionamento ed applicazioni: riusciamo così, pagina dopo pagina, a farci una concreta idea di come funzionino gli apparati che "non si vedono" ma che rendono possibile ogni giorno la messa in onda di trasmissioni radio - televisive o internet.
Ai linguaggi della radio è interamente dedicata la seconda parte, dove ogni capitolo sposta l'attenzione sui vari aspetti della radiofonia: una breve storia della radio che ci ricorda , quando non esisteva ancora la TV, l'importanza che ha rivestito in alcuni momenti salienti del passato (uno su tutti Radio Londra durante la seconda guerra mondiale), la pratica di come si "faccia " nella pratica la radio, interessante per capire per esempio, la facilità con cui, ipoteticamente ognuno di noi potrebbe, con poche accortezze, installare un'emittente radio a bassissimo costo tra le proprie mura domestiche e, infine, il capitolo sui generi radiofonici sottolinea aspetti come il target radiofonico, descrive i generi musicali che vanno per la maggiore tra le diverse utenze, apre una finestra sulle nuove tecniche di fruizione radio che stanno raccogliendo sempre più consenso come la radio fruibile con internet e ora anche attraverso il digitale terrestre.
La terza parte, relativa ai linguaggi della televisione, è senz'altro quella che da maggior soddisfazione a chi sia interessato a comprendere i suoi meccanismi ma che non ha mai avuto la possibilità di vederseli sviscerare davanti agli occhi: la sensazione che si ha leggendo questo capitolo è di essere seduto accanto ad un regista che ti spiega passo passo ogni aspetto, anche quello che sembrerebbe più marginale della grande macchina che sta dietro al piccolo schermo, ma che marginale non è. Ecco così svelati i trucchi dell'inquadratura che ci fanno sembrare enorme uno studio televisivo che in realtà è grande quanto il nostro salotto, oppure quali leggi psicologiche vogliono che nel caso di una trasmissione che preveda l'intervento del pubblico tramite telefonata, compaia al centro dello studio un grosso telefono rosso che stia a legittimare lo squillo del telefono che in realtà non c'è. Interessanti i capitoli dedicati alle "ondate" (virtuosistico il termine, riferibile tanto al temine "onda" attinente alla sfera della TV quanto al significato più comune del termine) della tv nella sua storia italiana: ad ogni "onda" corrisponde un periodo storico in cui hanno vissuto programmi conoscitivi (l'autore ricorda, a ragione, che mamma Rai ha insegnato l'italiano ai suoi primissimi figli nati in un'Italia analfabeta e devastata dalla recente guerra), i primi talk show, i contenitori pomeridiani, i quiz, i concetti quali sportainment, edutainment, infotainment,  usando dei neo-inglesismi che magari non sono felicissimi ma che rendono l'idea della contaminazione che, dagli anni '80 dello scorso secolo, ha visto le componenti di sport, educazione e informazione amalgamarsi all'intrattenimento, spalmando quest'ultimo ad ogni ora del palinsesto in modo inversamente proporzionale a quanto accadeva invece ai primordi della TV, quando ogni aspetto era ben separato da un altro e a presentare i diversi momenti appariva una signorina dall'aspetto familiare. E poi, l'evoluzione della tv degli ultimi vent'anni, la fiction, il reality show, e le nuove forme di fruizione: la pay tv, pay per vie, il digitale terrestre con la felice conseguenza di poter veramente scegliere cosa vedere perché l'offerta è (quasi) adeguata ad ogni domanda.
Insomma un libro che va letto per più d'una ragione: per acquisire consapevolezza sui funzionamenti (a volte anche subdoli) dei media, per poterli smascherare, per ripassare la storia della nostra televisione, che è, per molti aspetti, lo specchio della nostra storia italiana e per farsi un'idea delle futuribili evoluzioni del rapporto tra consumatori e mass-media. Ruoli che cambiano con le nuove tecnologie offerte da internet, ma con un filo di nostalgia, è bello ogni tanto leggere dei tempi in cui a presentare i diversi programmi era una signorina gentile con un sorriso familiare.
Davide Oliveri

Enrico Menduini
I linguaggi della radio e della televisione: teorie, tecniche, formati

Roma-Bari, Laterza 2008, pp. 233.
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14 maggio 2011

"L'Italia vive giornate decisive..."

"L'Italia vive giornate decisive per la sua maturità civile. La coscienza del paese insorge risolutamente contro l'ignominiosa realtà, che si puntella della vigliaccheria altrui e della violenza propria. Moltissimi uomini di fede, che hanno dormito a lungo, si rivegliano finalmente, e chiedono conto a se stessi, prima che agli altri, delle condizioni in cui versa lo Stato italiano dopo oltre due anni di avventura fascista. E, se non andiamo errati, anche per moltissimi - a proposito dei quali non è il caso di incomodare la buona fede - che hanno considerato quella avventura dal punto di vista di un'arcigna difesa conservatrice, è giunta l'ora di fare, un po' sul serio, i conti con la propria coscienza, ed anche con il proprio interesse. Quello a cui assistiamo in questi giorni è la crisi della concezione cinica, bassamente utilitaria e pseudomachiavellica della vita dello Stato. Vi è stata, nel nostro paese, una così detta classe dirigente la quale ha mostrato di credere che sia possibile mantenere in vita uno Stato, ed in ordine una società, fuori delle leggi della morale: oppure che vi sia una morale che va bene quando si tratta di difendere certi interessi contro certi pericoli, ma va malissimo, invece, quando si tratta di infrenare certi egoismi, e di porre un limite al più feroce tornaconto individuale nell'interesse generale della società, che è rappresentato dalla legge. Vi sono stati e vi sono in Italia taluni «benpensanti» abbastanza sciocchi e canaglie per credere che sia possibile tenere in piedi un codice penale che serva a mandare in galera il delinquente ordinario - sovente misero naufrago di una lotta sociale piena di asprezze e di dolore - per far presentare le armi al delinquente privilegiato che uccide in nome della Patria e dello Stato: e che uccide bestemmiando sinistramente. Vi sono stati e vi sono tra noi uomini politici abbastanza ciechi ed inetti, per credere che sia possibile ottenere da milioni di uomini l'accettazione di limiti e di vincoli che hanno il loro fondamento nella legge morale e nel senso della solidarietà sociale, per poi erigere su questo fondamento, la negazione di ogni legge morale e sociale, a totale beneficio di una ristretta categoria di profittatori cinici e violenti, decisi a far vivere l'immoralità propria sulla moralità altrui. Tutto questo, e molte altre cose ancora, rappresentano un monumento di stupidità e di iniquità che ha disonorato la nostra vita pubblica al conspetto del mondo. Occorreranno molti anni e molte prove per lavarci da questa macchia; occorrerà una lunga e tenace pazienza per rieducare una generazione deviata ed illusa; occorrerà una risoluta energia fondata sulla nobiltà di purissime idealità etiche ed umane, per ridare al popolo la fiducia nella moralità dello Stato, per disperdere dinanzi ai suoi occhi la suggestione dell'incubo infame, per persuaderlo che tutta l'organizzazione dello Stato e della società umana non è un'imboscata vergognosa e selvaggia preparata alla grande maggioranza degli uomini, per indurli, attraverso le illusioni della moralità, a servire l'arbitrio, l'egoismo ed anche il delitto di una piccola aristocrazia criminosa, asserragliata sui fastigi della vita sociale.
Oggi questo monumento di stupidità e di iniquità crolla; e noi viviamo nella polvere delle sue macerie. Tutto è da rifare. Tutto è da fondare su solidissime basi. Bisogna parlare chiaro ed onesto al popolo; bisogna dargli certezze salutari, non ombre insidiose; bisogna prenderlo sotto braccio con mano ferma ed amica, e richiamarlo fuori della selva funesta dell'inganno, della menzogna e del delitto, sul terreno solido su cui la vita umana si è svolta da secoli; e sul quale soltanto la società può vivere, e la cultura e lo spirito possono svolgersi nel loro indefinito progresso.
Noi crediamo in quei valori fondamentali che giustificano la morale sociale, e che assicurano una funzione allo Stato: ma proclamiamo altresì che ogni ulteriore esitazione nel restaurare l'impero di quei valori e di quella funzione al cospetto del popolo italiano può rappresentare un tradimento di fronte all'avvenire del nostro paese. Nessuno sia tanto sciocco da illudersi che quando un popolo ha aperto gli occhi - come li ha aperti il popolo nostro - sull'orrenda verità, la truffa peccaminosa possa durare più a lungo. Malvagia e sciagurata illusione! Essa sarebbe foriera, nella nostra terra, di assai funesti risvegli. Quando un popolo si sveglia e vede chiaro, in questioni di tanta gravità; quando esso vede chiaro che è stato truffato ignominiosamente nella fiducia con la quale considerò Io Stato e `e leggi come cosa sacra, non vi sono che due possibilità: o inchinarsi o essere spazzati.
Tutto ciò va detto con assoluta chiarezza in tempo debito. Noi non crediamo nella possibilità di mantenere in piedi una società ordinata, e tanto meno uno Stato retto in questo o in quel modo, quando al governo venga concessa franchigia, oppure vengano concesse speciali facilitazioni - per il compimento del delitto e per la sua impunità. Se vi è qualcuno che si senta di sostenere una diversa tesi, noi teniamo a differenziarci da costui senza limite di conseguenze. Qui tocchiamo il fondo della vita umana: le reazioni che ne derivano sono imperative e sacrosante. E la rivolta morale del popolo che scaturisce da una zona così profonda ed immortale della coscienza umana, rappresenta la suprema legge di fronte alla quale è necessario inchinarsi - ed ubbidire".
Giovanni Amendola
*G. Amendola, Discorso alla Camera dei deputati, 10 Gennaio 1924.



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12 maggio 2011

Clap-Act

L'articolo 1 della Costituzione individua il valore fondante della Repubblica nel lavoro: " L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro".
In risposta al quesito di una lettrice "perchè il lavoro è il cardine della Costituzione", Corrado Augias ricorda su Repubblica del 5 maggio scorso che Giuseppe Saragat commentò così la scelta dell'Assemblea Costituente: "che cosa vuol dire questo articolo 1 della Costituzione? Vuol dire che essa mette l'accento sul fatto che la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di ricchezza, ma sull'attività produttiva di quella ricchezza. E' il rovesciamento delle vecchie concezioni".
Il fatto è, che dopo una breve stagione di buoni propositi, un'altra di mobilitazioni e di tensioni, questo rovesciamento non si è mai attuato. Viviamo in una società dove il conflitto di classe è vivo e vegeto, subdolamente nascosto dietro le scuse tardive di una Confindustria che per solidarietà di categoria applaude un uomo condannato per strage, applaude perchè se dovesse prevalere questo atteggiamento garantista in tema di sicurezza sul lavoro si allontanerebbero gli investimenti stranieri!
Domani la presidente Emma Marcegaglia incontrerà i parenti delle vittime del rogo della Thyssen, e noi assisteremo al consueto imbroglio di chi piega la vita umana alle esigenze della produzione e del profitto, di chi la trasforma in merce di scambio, di chi la morte la fabbrica in serie...pensiamoci su, una volta rientrati a casa.
Simona Tarzia

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11 maggio 2011

In libreria

Neogiornalismo. Tra crisi e rete, come cambia il sistema dell'informazione
a cura di Mario Morcellini (Prefazione di Sergio Zavoli)


Mondadori Università, 2011, XXII-250 p.
Descrizione
Parte I. Scenario: la crisi del giornalismo in Italia
Parte II. Analisi: le dimensioni della crisi
Parte III. Spiragli: il neogiornalismo nella società della comunicazione
L’eterna emergenza che caratterizza la professione giornalistica in termini di mission e soprattutto di reputazione costringe a dichiarare lo stato di crisi. È una prova di sensibilità la circostanza che studiosi e giornalisti siano impegnati in una riflessione anche autocritica. L’informazione ha perso credibilità ma soprattutto declina vistosamente, in quanto agenzia di mediazione, ed è difficile non annotare che ciò avviene a fronte di un mix sempre più sciatto tra giornalismo e spazi dell’intrattenimento e del talk show, senza aver mai davvero valutato l’interazione tra giornalismo e linguaggio televisivo e, dunque, in una condizione in cui l’arrivo prepotente di Internet finisce per sottolineare le difficoltà di una vera integrazione tra narrazione giornalistica e nuovi media. Occorre studiare tutte le vie d’uscita dalla crisi. Le promesse della Rete e il rinnovamento connesso alla formazione sono chance per un giornalismo che troppo spesso fa di tutto per legittimare l’etichetta della «casta». Sullo sfondo, il passaggio al futuro del giornalismo partecipativo, la riscoperta dell’inchiesta e la possibilità che dietro la crisi si realizzi un’identità nuova: il Neogiornalismo.
*link all' Indice del libro.
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10 maggio 2011

Lettera ad un ciclista in fuga

Caro Wouter,
eri uno scalatore e una discesa t'ha portato via. A ventisei anni lasci una moglie che porta in grembo una parte di te, lasci la tua passione, il ciclismo, che era anche il tuo lavoro. Lasci uno strazio penetrante che, ancora una triste volta, fa riflettere sulla fragilità umana. Il ciclismo, sport silenzioso, individualista, strumento naturale per raggiungere Dio attraverso lacrime e sangue, è anche questo, è anche accettare l'idea che una minima distrazione sui pedali può significare la fine. A te, che non dovevi neanche presenziare al nostro giro ma che sei stato chiamato all'ultimo, dal destino, a sostituire un altro corridore, a te, che non eri famoso al grande pubblico, ma solo per il fatto di vivere il sacrificio che il ciclismo richiede ti sei meritato gloria imperitura, mi permetto di porgere questo mio pensiero, da ciclista come te, che ha sofferto qualche anno fa la scomparsa di un compagno di squadra, mancato anche lui mentre stringeva il manubrio di una bici, che mi batteva sempre sul traguardo.
Davide O.
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09 maggio 2011

Per ricordare

Croma blindate, chili di tritolo, vetri in frantumi, colpi di pistola, pozze di sangue e flash di fotografi...sono 27 i magistrati uccisi barbaramente in Italia dal 1969 al 1994, insieme alle loro ombre: gli agenti delle scorte. Nomi dei quali si è perso il ricordo, se escludiamo qualche piazza o aula di giustizia.
Paride Leporace, direttore di frontiera de "il Quotidiano della Basilicata", ne traccia la carriera e la morte seguendo il ritmo incalzante di un destino ineluttabile, con una prosa coinvolgente che sa lasciare l'amaro in bocca. Vite spezzate da un sistema di potere che fa rima con connivenza, che è l'anagramma di "terrorismo", una metafora di Stato dove lo Stato è assente o, peggio, complice. Vicende scomode che finalmente riaffiorano colmando uno scandaloso vuoto di sapere, ulteriore oltraggio senza clamore e (apparentemente) senza violenza.
In chiusura di questo mio intervento ritengo fondamentale citare un'esternazione di Silvio Berlusconi, datata 4 settembre 2003:   "Questi giudici sono matti! Per prima cosa, perchè lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perchè sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana".
Simona Tarzia

Paride Leporace
Toghe rosso sangue

Roma, Newton Compton Editori s.r.l., 2009, 314 p.
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Archivio blog

Copyright

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