Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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30 gennaio 2013

Una storia d'inchiostro


Il volume Storia del giornalismo americano firmato da Sofia Basso e Paolo Vercesi  è  fonte inesauribile di episodi e vicende stupefacenti intorno a quel mare magnum che è il giornalismo americano. Quello che subito si evince sin dalla presentazione e dall’introduzione è che non si potrebbe avere un’idea veramente chiara dell’intera storia della Nazione Stati Uniti d’America senza leggerla, filtrarla e “declinarla” attraverso le pagine dei suoi giornali, l’evoluzione della carta stampata e senza seguire inoltre le figure dei giornalisti: più o meno importanti, più o meno collusi con i poteri forti, più o meno “grandi firme” più o meno fanfaroni che siano. America e U.S.A. in particolare vogliono dire insomma Giornalismo. E’ come se gli autori ci volessero dire che in quella terra nuova si fosse operata una mutazione di tipo cultural-genetico, cioè la nascita di un homo giornalisticus, che si nutre della carta stampata e vive fra le pieghe delle pagine: egli non muove un dito senza prima vagliarlo sulle varie gazzette o quotidiani che riesce a trovare. Il libro è scandito in ordine cronologico: si parte dalle celeberrime tredici colonie e si arriva all’esplosione (o forse sarebbe meglio dire implosione) della stampa digitale. Il primo giornale americano a tutti gli effetti, nato per gemmazione da una pubblicazione precedente inglese, è il Pubblick Occurences, Both Forreign and Domestick e corre l’anno domini 1631. Questa è la data da cui si fa partire non l’analisi del libro, ma la storia dei giornali d’America. Gli autori, con una scelta certamente arbitraria ma che non si può dire errata o poco funzionale ai termini dell’idea generale che guida il loro lavoro, si concentrano sulle prime schermaglie di quei movimenti di protesta che poi sfoceranno nella rivoluzione d’indipendenza del 1776. Si può affermare che i giornali non solo accompagnarono le proteste nelle città della costa orientale ma “spinsero” letteralmente i coloni a rivoltarsi contro l’odioso padrone inglese. Sono i giornali, dai nomi come Massachussetes Spy o Common Sense (e già qui si ravvisano le linee guida del giornalismo d’oltreoceano: giornalismo d’investigazione e forte attenzione per le tematiche populistiche/popolari) a denunciare gli sbagli, le dimenticanze, l’eccessiva tassazione del regime di sua Maestà. Le riviste del nord-est, è proprio il caso di dire, “fanno” la rivoluzione.
Il ritmo del libro è incalzante, scritto in maniera cristallina, con uno stile anglosassone: pochi quindi i fronzoli, molti fatti, una miriade di date e concetti chiari. I grandi momenti della Costituente americana sono scanditi dagli appelli che i principali leader fanno su rivista. Uno su tutti Thomas Jefferson, forse il primo “grande uomo americano” ad aver compreso l’importanza della carta stampata. È di quegli anni il primo quotidiano americano, nato nel 1775 (un anno prima della rivoluzione), ad opera di Benjamin Towne, chiamato Pensylvania Evening Post. A grandi passi si susseguono i momenti cardini della storia statunitense e si può vedere come Lincoln (salito agli onori della cronaca recentemente per il biopic cinematografico) e Edgar Hoover prestarono grandissima attenzione al controllo dei media.
Ma il capitolo centrale, quello che maggiormente cattura l’interesse, è quello dedicato al giornalismo degli anni Cinquanta e Settanta. Queste due decadi sono prese come esempio di un modo di fare perfettamente speculare: da un lato l’America vincitrice della Seconda Guerra Mondiale, votata compattamente alla cosiddetta “caccia alle streghe”, ovvero un’opinione pubblica fermamente schierata su posizioni anticomuniste (con talvolta pericolosi eccessi ultraconservatori); dall’altro i ribollenti Stati Uniti dei 70’s con un giornalismo d’inchiesta feroce contro il potere come testimonia, caso unico nel suo genere, l’affaire Watergate (e della successiva coda con la mitologica intervista Frost/Nixon). La caccia alle streghe quindi come esempio di ferreo imbavagliamento dei media da parte del potere politico ed economico ma anche come emblema di un presidente democraticamente eletto che è costretto (unico caso per ora nella plurisecolare storia a stelle e strisce) a dimettersi a causa dell’impeachment: sono i due poli, opposti e diametralmente speculari, tra i quali si muove il giornalismo americano. Un tipo di giornalismo entrato biologicamente nella società, dove a tutt’ora il giornalista ha forte peso e notevole influenza sulla scacchiera nazionale e che non ha mai del tutto reciso i rapporti con i grandi poteri.
In chiusura vorrei ricordare come in una graphic novel degli anni’80, Watchmen, si immagina cosa sarebbe successo se, per una serie di vicende, i due giornalisti del Washington Post fossero stati assassinati prima di poter denunciare lo scandalo: Nixon avrebbe trionfato nuovamente alle elezioni, sarebbe riuscito a modificare la costituzione dando la possibilità di ricandidarsi per un numero imprecisato di volte alla presidenza. Il mondo, in quel 1985 alternativo e futuribile, sarebbe stato “a soli cinque minuti dall’Apocalisse nucleare”. Che dire, ben venga allora il giornalismo americano.
Valeria Spina
Sofia Basso e Pierluigi Vercesi
Storia del giornalismo americano
Milano, Mondadori, Milano, 2011, pp. 224.

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