Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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30 giugno 2015

Buonanotte, signor Lenin





“Il desolante funerale del comunismo in un racconto lieve ma stordente”



La cronaca di un decadimento di portata mondiale spesso nasce per caso. E ancora più spesso nasce dalla narrazione di un evento più effimero, impalpabile, dal racconto di un viaggio, e solo in seguito la grande cronaca si plasma, giusto il tempo di comprendere il fermento di cosa stia effettivamente accadendo e di mostrarlo in tutta la propria importanza.
Ed è proprio così che un pilastro del giornalismo italiano come Tiziano Terzani è arrivato a raccontare, in una coinvolgente modalità da “diario di bordo”, uno degli eventi più significativi e desolanti degli ultimi quarant'anni: il pesante e scuro sipario che è calato sopra le ceneri del comunismo.
Una spedizione che doveva durare due settimane, silenziosa e tranquilla come le acque del fiume Amur, confine naturale tra “i due grandi comunismi”, la Cina da una sponda e la Russia dall'altra, che si è trasformata in un viaggio di due mesi attraverso la Siberia, l'Asia Centrale e il Caucaso, attraversando terre e incontrando popoli così “lontani” a noi occidentali, come il Kazakhstan, la Kirghisia, la Turkmenia, il Tagikistan, l'Uzbekistan, l'Armenia, sino ad arrivare al cuore pulsante del “buon vecchio” comunismo: Mosca. E lì, nella Krasnaya Ploshad, si è detto finalmente “addio” al Padre della Rivoluzione, Lenin.
Terzani ha vissuto il golpe, o meglio il putsch, che destituiva Gorbaciëv -anche se solo per una manciata di giorni- e il giornalista aveva già annusato, nell'aria, l'odore acre di una morte lenta e dolorosa, che come un veleno parte dal cuore e, più vasto è il corpo, più lentamente arriva in tutti i capillari. Una morte e uno sgretolamento che lasciano, al loro passaggio, aria tesa e popoli in fermento. Dai neonazionalismi delle Repubbliche Sovietiche, con i propri popoli privati dalla loro lingua, religione, alfabeto e cultura dal comunismo, che nel '91 vogliono riappropriarsi di ciò che era loro, sino alla vibrante e fremente azione dell'Islam che, come un liquido che si espande in un contenitore fattosi all'improvviso più largo, cerca di acquistare spazio e potenza in una terra smarrita e senza più punti di riferimento.
Terzani racconta così una Russia fuori dal tempo e dallo spazio, partendo proprio da quegli arti più lontani e poco irrorati dal flusso, sanguigno e potente, di informazioni sul contraddittorio e vertiginoso cambio di rotta della superpotenza sovietica: da un socialismo decadente, grigio e dedito al sacrificio sino al capitalismo sfrenato, a colpi di scarpe da ginnastica made in china e materie prime vendute al miglior offerente estero.
Era il 1991 e i primi pc portatili facevano capolino tra i professionisti, ed è impressionante fare un paragone con l'immensa potenzialità di comunicazione di oggi, a nemmeno trent'anni di distanza, mentre si legge dei vari telex, delle attese infinite ai centralini per una chiamata internazionale, del mestiere di giornalista che ha subito trasformazioni brusche e radicali in un tempo, a mio parere, troppo stretto, che non gli ha permesso di adattarsi a dovere, di risistemarsi nello spazio-tempo di oggi. Uno spazio-tempo che, infatti, Terzani deciderà poi di non indossare, di non rincorrere, perché troppo lontano dalla sua idea di giornalismo come racconto profondo e aderente ai fatti di realtà lontane e complesse, con il tentativo di scoprirle e ri-scoprirle, renderle più maneggevoli e comprensibili a chi avrebbe poi letto i suoi pezzi sul giornale, a casa o al bar, dall'altra parte del mondo.
 Il racconto di Terzani culla il lettore, in un viaggio a tappe, un perfetto esempio di quello che oggi chiameremmo “Slow Journalism”, in un volume che racchiude un corposo e denso reportage di tutta l'Unione Sovietica. L'autore, inoltre, ha quel modo di raccontare di chi è abituato alle “stamberie” dell'umanità, senza condannarle ma guardandole con la curiosità di un bambino, lo spirito critico di un uomo saggio e la leggerezza di chi nel mondo sa muoversi, senza turbare troppo gli equilibri se non strettamente necessario. È il classico “giornalismo di pace” di cui oggi si è nostalgici, ed è sempre più raro da trovare. Un giornalismo che si lascia andare a qualche critica, sì, ma sempre ponderata e supportata da dati e fatti oggettivi, una critica che sappia andare oltre al binomio noi/loro, buoni/cattivi, occidente/oriente, ma che sappia leggere bene tra le pieghe infinite dell'umanità per poterle spiegare al meglio.
Questo è ciò che più affascina e colpisce dell'autore e del libro: un'immagine nitida, chiara e senza filtri di una realtà, senza fronzoli né esagerazioni, oltre alla scrittura magistrale di Terzani.
Un libro come “Buonanotte, signor Lenin”, insegna la storia, sì, ma fa di più: insegna, con calma e dedizione, a comprenderla. E' sempre più facile, oggi, leggere qualche riga riguardo un avvenimento internazionale e avere subito il commento pronto, la critica facile, la presa di posizione netta. Tutto va così veloce che non esiste il tempo per fermarsi a riflettere ed effettivamente capire quali risvolti, sociali, politici e culturali, portino a determinati eventi, determinate reazioni. Non esiste il tempo e forse nemmeno la voglia. Leggere la storia, riassunta a colpi di tweet o di flash news in tempo reale, senza comprenderla, è quasi inutile e soprattutto incredibilmente pericoloso. La storia è uno dei cimeli più preziosi che giornalisti e scrittori (quando non oppressi totalmente dai vari regimi) ci hanno lasciato, per comprenderla e comprenderci. Eppure oggi è sempre più difficile non solo saperlo fare, ma anche provare a farlo.
In quest'ottica il viaggio dell'autore attraversa e prova a districare anche le radici profonde dell'Islam, proprio lì, nel cuore dell'Asia Centrale, in quelle terre dove le donne passano ancora davanti al Corano più antico del mondo per riuscire a essere fertili. Samarcanda, oltre ad essere un nome profondamente evocativo, è una delle culle di quell'islamismo asiatico che ha storia millenaria, e Terzani racconta la spinta espansionistica della cultura e della religione islamica nel momento in cui le salde braccia del comunismo hanno allentato la propria presa, in un momento di smarrimento totale: l'attimo giusto per proporsi come “rimpiazzo”. Nell'Asia Centrale la fine del regime sovietico non ha significato affatto l'inizio di un processo di democratizzazione, ma anzi l'islamizzazione della società. La riscoperta della religione va di pari passo con la riscoperta dell'identità nazionale, questa la tesi dell'autore, e si riferisce a tutta l'Asia Centrale che, lentamente, si sta risvegliando con un sentimento nazionale -e culturale- più forte. Ovunque, tutto si ricostruisce sulle ceneri, meste e deprimenti, di quello che una delle più potenti dittature del Novecento ha lasciato dietro di sé: statue di Lenin che vengono fatte sparire nella notte in ogni città, intere nazioni, che dipendevano totalmente dall'Unione Sovietica per la lavorazione delle materie prime, senza lampadine, sapone, benzina, una babele di popoli che si avviano verso l'uscita di un totalitarismo che ha regnato per ben settant'anni, con almeno un'intera generazione nata e cresciuta sotto il comunismo. Liberarsi di un'identità così ben radicata non sarà affatto facile.
Insomma, un vecchio e grinzoso impero che si sgretola le cui ceneri rischiano di rimanere schiacciate tra due superpotenze che già da tempo si guardano in cagnesco, agli “antipodi” del globo: il capitalismo da una parte e la deriva fondamentalista dell'Islam dall'altra.
Ancora oggi, a venticinque anni di distanza, la battaglia rimane più che aperta.
Alessandra Arpi


Tiziano Terzani
Buonanotta, Signor Lenin
 Longanesi, Milano, 1992 

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20 giugno 2015

Lo stato del villaggio globale

A una lettura distratta Il mito del villaggio globale di Luciano Ardesi (Edizioni associate) può apparire un’opera anacronistica, ormai fuori dal tempo. Il libro ha infatti il “difetto” di essere stato scritto nel 1992. Una vita fa.
La prima parte si riferisce alle innovazioni tecnologiche dell’epoca, ed è soprattutto qui che si ha la sensazione di leggere un papiro dell’antico Egitto. L’autore cita tra le innovazioni più recenti i compact-disc, supporti in grado di superare la necessità del cartaceo e di integrare diverse forme della comunicazione: orale, scritta e visiva. Possibilità di cui parla con sincero entusiasmo, ma che fanno sorridere il lettore del 2015, per cui i CD fanno ormai parte della preistoria tecnologica. Terminato il primo capitolo è forte la tentazione di interrogarsi sull’utilità di questa lettura oggi. Non aiuta lo stile di scrittura dell’autore, asciutto e a tratti persino piatto. È evidente la volontà di offrire un quadro quanto più preciso del tema affrontato, ma la conseguenza è che alcuni capitoli assomigliano ad elenchi, a tutto svantaggio del coinvolgimento di chi legge. Basta però addentrarsi nelle pagine successive per trovare facilmente diversi spunti di riflessione anche sull’oggi. Spunti che aprono problematiche non risolte nemmeno a più di 20 anni di distanza.
Come si può intuire dal titolo, il filo rosso che lega gli 8 capitoli in cui si dividono le 319 pagine del libro è la critica al “mito” del villaggio globale. Pensatori visionari come Marshall McLuhan (1939-1980) credono ciecamente nella forza emancipatrice dei nuovi mezzi di comunicazione, destinati a connettere i popoli, scavalcare le frontiere e regalare al mondo una democrazia globale. È a questa visione ingenua del futuro che l’autore si oppone, pur riconoscendo le buone intenzioni e l’approccio positivo verso le nuove tecnologie dei “globalisti”. Luciano Ardesi sottolinea più volte come l’uso delle tecnologie non sia conseguenza automatica del progresso scientifico, ma frutto anche di precise scelte politiche. Solo realizzando la democrazia, insomma, è possibile garantire la libertà di informazione e comunicazione, e non viceversa. La disparità nel accesso alle infrastrutture non è dunque sufficiente per spiegare lo squilibrio tra nord e sud nel mondo nel campo della circolazione delle informazioni, pur essendo un elemento di assoluta importanza. Nel secondo dopoguerra il dibattito sulla libertà di informazione era animato dalle diverse necessità dei “3 mondi”. Il mondo occidentale con gli Stati Uniti in testa spingeva per l’assoluta libertà di informazione. Sull’altro fronte della guerra fredda, l’Unione Sovietica sosteneva invece la necessità di far conciliare l’informazione con gli interessi dello stato, quindi di un forte controllo pubblico sui media. I paesi cosiddetti del “terzo mondo” infine contrastavano il concetto di free flow statunitense da un altro punto di vista. L’attenzione di molti di questi paesi era rivolta alla propria identità culturale, minacciata dall’”imperialismo culturale” dell’occidente. Se in alcuni casi questa battaglia è stata un pretesto per difendere regimi illiberali, altre volte il timore di un nuovo colonialismo (fondato, questa volta, sull’egemonia culturale) si è rivelato fondato. I rapporti si sono infatti regolati esclusivamente sui rapporti di forza, e tra nord e sud non è difficile indovinare chi abbia avuto la meglio. Quando Ardesi scriveva queste cose il Muro di Berlino era crollato da 3 anni, e alle speranze seguite alla fine della guerra fredda si affiancavano timidamente i timori di un futuro monopolare, dominato culturalmente dagli Stati Uniti e dall’occidente.
Cosa possiamo dire al riguardo noi, 23 anni dopo? Il crollo del muro di Berlino ha davvero abbattuto tutte le frontiere della comunicazione o abbiamo piuttosto assistito all’imporsi di una sola narrazione del mondo? Un esempio recente credo sia utile per rispondere a questa domanda. Il 7 gennaio 2015 il gruppo terroristico Boko Haram devasta il villaggio di Baga, nel nord della Nigeria. Il gruppo punta alla creazione di un califfato tra Camerun, Nigeria e Chad e successivamente giurerà fedeltà ad al-Baghdadi, leader del più noto Is. L’attacco di Baga è il più sanguinoso della storia di Boko Haram, la BBC parla di 2 mila vittime. I media occidentali hanno però le telecamere puntate a Parigi, dove nelle stesse ore i fratelli Chouachi sterminano la redazione di Charlie Hebdo. Non è però questo il punto, quanto il fatto che gli stessi media nigeriani dedichino più spazio alla strage di Parigi rispetto a quanto accaduto all’interno dei propri confini. In questo tipo di scelta, le motivazioni tecniche si intrecciano con quelle politiche. Baga è infatti poco raggiungibile dai mezzi di comunicazione ed estremamente pericoloso. Mancano quindi le immagini della strage, oltre che una ricostruzione precisa dei fatti, al punto che nemmeno il numero delle vittime è accertato con precisione. Inoltre l’allora presidente Goodluck Jonathan, proveniente dal sud cattolico e accusato di aver abbandonato il nord ai terroristi, teme per le imminenti elezioni presidenziali, che dopo esser state rinviate dal 14 febbraio al 28 marzo lo vedranno effettivamente uscire sconfitto dall’ex dittatore Buhari, musulmano del nord che promette il pugno di ferro contro Boko Haram. Il fatto che in quei giorni i nigeriani abbiano sentito parlare più di Charlie Hebdo che di Boko Haram è indicativo della portata della vittoria della narrazione occidentale, e dimostra la falla della teoria globalista per cui la libertà di comunicazione possa imporsi a prescindere dai contesti nazionali e locali. Inoltre l’ottimismo di questa visione è oggi fortemente minato da alcune conseguenze indesiderate della libertà di informazione offerta da internet, un media che nel 1992 non esisteva, e che quindi non appare nell’analisi di Ardesi. La rete, infatti, non è portatrice solo di messaggi di pace, tolleranza e fratellanza tra i popoli. Al contrario oggi è molto facile imbattersi in siti razzisti, nazisti, fascisti, antisemiti più o meno mascherati, oltre che nella propaganda jihadista di gruppi come lo Stato Islamico. È l’ovvia conseguenza della neutralità di uno strumento che, in quanto neutrale, riflette la natura dei propri utilizzatori. Un assunto che nella sua banalità è stato ed è tuttora ignorato dai tecno-ottimisti più incalliti, che vedono nella rete una forza emancipatrice.
Luca Lottero

Luciano Ardesi
Il mito del villaggio globale. La comunicazione nord-sud
Edizioni associate, Roma, 1992, 364 pp.

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12 giugno 2015

Cosmopoliti digitali



L’immenso potere di internet e delle nuove tecnologie, in grado di far nascere nella mente delle persone l’idea di vivere, di addentrarsi, in un mondo sempre più connesso, o meglio interconnesso, al punto da farlo apparire fin troppo piccolo. Questa l’idea che l’autore, Ethan Zuckerman, direttore del “Center for Civic Media” al MIT nonché uno tra i maggiori studiosi della cultura digitale, nel suo libo Rewire, Cosmopoliti digitali nell’era della globalità, cerca di eliminare dal pensiero della gente. Un’idea infondata quella di un mondo che si sta dirigendo verso una dimensione sempre più cosmopolita perché, come spiega Zuckerman, la tendenza umana porta gli individui ad interessarsi di ciò che li circonda e di conseguenza, come le relazioni offline, anche quelle online, si realizzeranno con quelle realtà con le quali si hanno più cose in comune. Otto capitoli, 256 pagine, divise in tre sezioni dai titolo “sconnetiti”, “ricollegati” e “aperti al mondo”, che bene distinguono, e fanno comprendere, il pensiero dell’autore sulla possibilità e sull’effettivo grado di interconnessione con gli altri. E’ sulla seconda parte, su “ricollegati”, che si sofferma l’attenzione di Zuckerman e in cui inserisce quella che può essere definita la parola chiave di tutta la sua analisi: la serendipità. Ma andiamo con ordine: in un mondo a “portata di tastiera”, tutti i nuovi elementi social ma non solo, proposti dai network non possono che portare gli utenti, come minimo, a sentirsi interconnessi.
Un’interconnessione capace di far sentire voci, di dare voce, ad ogni angolo della terra: con internet chiunque e ovunque si trovi infatti, con l’ausilio di una connessione, potrà conoscere quello che sta accadendo dall’altra parte del mondo, rispetto alla sua posizione, quasi in real time. Una possibilità che ha del meraviglioso, un’informazione costante proveniente da tutto il mondo, che però si scontra con un grosso problema: quello della traducibilità. Un problema che lo stesso autore ha potuto riscontrare ed analizzare in prima persona nel progetto di Global Voice, un blog realizzato da cittadini- reporter volontari che segue, riassume e riporta i più importanti avvenimenti di cui si discute nella blogosfera, di cui Ethan Zuckerman è cofondatore. Se è vero che per superare questo ostacolo sono nati software come Google Translate, forse il più famoso ed utilizzato nel mondo del web, è pur vero che questi programmi, questi insieme di codici pronti a generare frasi non tengono conto del contesto del discorso e a volte, forse, stravolgendo completamente il senso del messaggio invece che essere un aiuto creano un danno. Sono proprio i cittadini-reporter, che nel libro vengono definiti e visti come “figure-ponte” quelle su cui fare riferimento, quelle alle quali affidarsi per sentirsi davvero interconnessi. Ma ecco che in un mondo online, connesso, entra in gioco il concetto della serendipità quello che letteralmente potrebbe essere definito come un’inattesa, una piacevole scoperta venuta per caso. Ma è davvero così? Quello che è certo è che oggi, l’utilizzo di questo termine, è spesso abusato e frainteso: casualità e sagacia arrivate per caso, dopo una serie di collegamenti che però, non erano ne pensati ne tantomeno ricercati. Quindi nel mondo di oggi, nel mondo che piace definire interconnesso il concetto di serendipità è davvero importante e non si può non tenere in considerazione ma ancora più fondamentale risulta essere la sua programmazione, la sua ricerca.
Ma nonostante la disillusione sulla possibilità, almeno per ora, di ritrovarsi a vivere in un mondo più cosmopolita perché interconnesso, il futuro appartiene davvero a chi è connesso. I media tradizionali, che ormai hanno alle spalle circa una decina d’anni, si trovano adesso al centro di grandi cambiamenti e profonde trasformazioni, spetta a loro la scelta di adeguarsi o meno a questo cambiamento.
Un cambiamento che per tutti coloro che si auspicano un tipo di informazione più rappresentativa, più globale e stupefacente è visto come una grande opportunità. Anche i moderni social network, sono in continua evoluzione, si adattano a continui cambiamenti con aggiornamenti quasi giornalieri o comunque al massimo settimanali. E’ quindi errata la convinzione per la quale internet consentirà “l’apertura delle porte” verso un mondo interconnesso ma, d’altro canto non ha senso, sulla base di questo concetto, liquidare tutte le aspettative, le prospettive, le ambizioni positive proposte da tecnologici ottimisti per il semplice fatto che il futuro ancora non si è concretizzato. Se si vuole davvero raggiungere l’obiettivo di di un mondo in cui punti di vista differenti possono portare a soluzioni innovative, non resta che costruirlo, gli strumenti che si hanno disposizione oggi, le società con le quali si ci confronta, offrono questa opportunità e questa, non può andare sprecata
Diletta Barilla

 

Ethan Zuckerman
REWIRE
Cosmopoliti digitali nell’era della globalità
Egea, Milano, 2014





11 giugno 2015

In libreria

Marina Brancato
Terremotossessivo. Antropologia e giornalismo nella 
rappresentazione televisiva del sisma in Abruzzo
Mephite editore, Avellino, 2014, pp. 108.
 Descrizione
 Un terremoto è un evento naturale e culturale. Momento decisivo per la storia di una collettività perché mette in discussione le sicurezze ontologiche su cui si fonda la quotidianità di ciascuno. Il terremoto in Abruzzo ha sicuramente rappresentato un trauma collettivo che è stato vissuto, oltre che in maniera diretta, anche in maniera mediale e mediata. Una delle questioni che il sisma del 6 aprile 2009 ha sollevato è quella dell'informazione televisiva, del modo di fare informazione televisiva. Partendo da queste premesse, l'obiettivo del saggio è quello di riflettere sul legame di similarità tra l'antropologia culturale e il giornalismo. Le interviste, le storie di vita, la registrazione degli eventi, vengono effettuate e ricostruite dai giornalisti con le procedure del metodo etnografico, che è il metodo classico dell'antropologia del Novecento. Ma è possibile trattare il giornalismo televisivo come una scrittura etnografica, sia pure molto particolare? Il libro tenta di dare una risposta osservando le modalità in cui i giornalisti forniscono un servizio informativo e conoscitivo.

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10 giugno 2015

News Management

Nell’era dell’interdipendenza informativa e della comunicazione interattiva e globale, il libro di Claudio Fracassi Sotto la notizia niente rimane, nonostante siano passati anni dalla sua prima pubblicazione (1994), un saggio sull’apparato informativo di grande attualità, nonché una indispensabile lettura non solo per tutti gli operatori della comunicazione, ma per tutti i lettori che vogliano armarsi delle conoscenze necessarie per saper trattare con maturità il bombardamento informativo quotidiano.
Fracassi ci mette di fronte a una grande verità: davanti ai meccanismi dell’informazione siamo ancora dei consumatori passivi e impreparati. Non sappiamo districarci nella selva dei messaggi mediatici che sempre più frequentemente trasmettono una informazione contaminata dalla pubblicità, o confezionata dalla spettacolarizzazione, da un sensazionalismo formale che spesso nasconde e perde i suoi contenuti.
Il messaggio e il compito che Fracassi ci vuole consegnare, come diritto e dovere di tutti i cittadini di informare ed essere informati, è la conquista della consapevolezza delle distinzioni. Saper distinguere lo spettacolo, l’intrattenimento, dalla comunicazione giornalistica, nonché i meccanismi della comunicazione giornalistica dalla realtà degli eventi, si rivela di grande importanza dal momento che, come spiega brillantemente l’autore, l’informazione non è solo la base della democrazia e la fonte dell’opinione pubblica, ma è anche il background delle strutture del pensiero, dei temi sociali, dei valori di riferimento e delle esperienze che formeranno la nostra coscienza e conoscenza sociale e individuale.
Fracassi esamina l’apparato informativo mettendone in luce le sue zone d’ombra e seguendo il doppio binario dell’analisi filosofica/ontologica – indagando la natura delle notizie -  e dell’analisi storica, soffermandosi su quelle guerre e avvenimenti politici in cui la versione mediatica si sia rivelata distorta rispetto alla realtà, e spesso così manipolata da aver perso qualsiasi riferimento alla realtà. L’autore passa così in rassegna tutto il processo vitale del prodotto-notizia, dalla fonte al consumatore. E si tratta di una vera e propria catena di montaggio dove il professionista della comunicazione opera sotto vari vincoli: il fatto diventa notizia dopo rigidi passaggi di selezione e filtraggio secondo una struttura che Fracassi descrive metaforicamente attraverso il passaggio di vari cancelli, controllati dai cosiddetti gatekeepers, i guardiani che stanno a monte del sistema informativo. È in questa fase di scelte e passaggi - che rendono la notizia per sua natura parziale rispetto alla realtà - che spesso si formano pericolosi livellamenti e complicità tra la fonte dell’informazione e il giornalista, e dove si insidiano quei meccanismi di autocensura, di censura e di propaganda che abbiamo riscontrato nel passato ma che persistono anche oggi.
Fracassi dimostra come questa necessaria catena di intermediazioni tra il fatto e la notizia sia spesso appiattita. Tutt’oggi è sempre più la fonte ad assumere un ruolo predominante, e questo sta portando a una omologazione dei quotidiani, che per l’appunto si abbeverano alle identiche fonti (istituzionali, politiche, agenzie di stampa, ecc.). Questo perché le strutture del potere hanno adottato già dalla seconda metà del XX secolo un nuovo strumento per interferire con l’informazione: il news management.
Il news management è il centro in cui si raccoglie tutta l’analisi di Fracassi. L’autore spiega come esso si proponga non di nascondere i fatti, ma di riprodurli. Fabbricare l’informazione per dare l’illusione all’opinione pubblica di essere sempre informata, attraverso la creazione a tavolino degli pseudo eventi, ovvero dei fatti che per la loro stessa rilevanza mediatica sono destinati a diventare notizie, come ad esempio la maggior parte dei summit. Fracassi ripercorre le radici culturali e tecnologiche di questo fenomeno, che deriva dalla necessità di vendere la guerra attraverso le immagini, di darne una rappresentazione che si identifichi con la missione politica dei poteri forti.
Non mancano nel libro gli esempi di guerre o attacchi armati preparati mediaticamente, a partire dalla seconda metà del XX secolo. L’autore ripercorre la strategia comunicativa delle cosiddette tele-guerre, dove a ogni operazione militare è collegato un messaggio mediatico che vuole ricompattare il fronte interno dell’opinione pubblica.
Se a partire dalla guerra del Vietnam la comunicazione televisiva si dimostrò un’arma di primaria importanza sulle sorti belliche, con la guerra del Golfo e la seconda guerra d’Iraq nella primavera del 2003, come ci dimostra Fracassi, si fece un passo ulteriore: furono infatti dei conflitti programmati in funzione della loro rappresentazione mediatica. Fracassi ricorda le tecniche della potente agenzia Hill & Knowlton, che hanno generato veri e propri inganni informativi durante la Guerra del Golfo, tra false testimonianze e false scenografie girate a Hollywood delle “prime immagini dell’invasione del Kuwait”.
Il news management e il ruolo delle agenzie pubblicitarie nella politica e nell’informazione è cresciuto insieme all’importanza dell’immagine televisiva e dei nuovi media nella società contemporanea. L’autore passa in rassegna le tecniche utilizzate attraverso i media dalle personalità politiche per la creazione della propria immagine (e quindi del proprio consenso): dalle “chiacchierate davanti al caminetto” via radio di Roosevelt, “alla frase del giorno” e alle “photo-opportunities” escogitate da Michael Deaver per Reagan, fino all’impacchettamento di tutti quegli pseudo eventi televisivi che formano i mattoni di una nuova ingegneria politica delle coscienze.
Dalle analisi di Fracassi emerge dunque una profonda contraddizione: si ha l’impressione di essere informati su tutto, ma spesso il nostro bagaglio informativo non supera l’impacchettamento strategico e assordante che arricchisce superficialmente le notizie, ma che non completa la nostra conoscenza sui fatti.
Infine Fracassi ci pone davanti a una scommessa: riuscirà l’Internet a far rientrare nel circuito informativo tutte quelle realtà remote ancora oggi caratterizzate dalla sottoinformazione, o perpetuerà un sistema comunicativo a senso unico e che propone il sistema occidentale come unico riferimento dello sviluppo globale?
Una lettura interessante e ricca di spunti di riflessione, che dovrebbe interessare non solo gli operatori della comunicazione, ma tutti i cittadini, tutti i lettori, tutti gli elettori, ancora troppo spesso indifesi davanti ai meccanismi dell’informazione. Perché è giusto chiedersi – e Fracassi lo fa - che fine farà la nostra conoscenza della realtà se il bagliore del packaging delle notizie prenderà il posto di una onesta e pluralistica informazione.
 Ilaria Abbo

 Claudio Fracassi,
Sotto la notizia niente 
Editori Riuniti, Roma, 2007 (1a edizione 1994).

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08 giugno 2015

Giornalista in erba






Un bambino, che senza sapere ancora come, immagina tutto il suo futuro. Lo hanno notato tutti, oggi, a Casa Repubblica, durante la riunione di redazione con il direttore Ezio Mauro. Composto e preciso. Affogato tra la confusione del folto pubblico. Una piccola tracolla sulla maglietta con la grande scritta Jungle. Armato di taccuino e penna. Pronto a prendere appunti. Sorriso dolce e grandi occhi scuri, molto attenti. Pieni di luce. Quella dei grandi sogni. È Guglielmo Nicolini, di Genova. Dieci anni e le idee già molto chiare. Educato ma disinvolto quanto basta per attaccare bottone con degli sconosciuti. “Voglio fare il giornalista. Anzi, il direttore!” così ha sentenziato di fronte a un pubblico di adulti, disarmati davanti alla sua grande determinazione. “E perché proprio il giornalista?” gli è stato chiesto. La risposta ha lasciato senza parole. “Perché è importante informare bene le persone, senza distorcere le notizie come fanno i politici.” E ancora: “mi piacerebbe dare delle belle notizie perché fanno bene all’anima”. Non solo. La giovane promessa del giornalismo, approfittando della presenza di Marina Milan, docente universitaria e storica del giornalismo, si è subito  informato sulla sede e le materie del corso universitario. Un aspirante giornalista davvero particolare. A scuola ha già fondato e diretto un piccolo giornale. È dotato di mail e recapito telefonico. Ora gli manca solo un microfono, la giacca e la cravatta per partire con la prima intervistai. Non resta che augurargli buona fortuna e una fulminante carriera da direttore.
Bravo Guglielmo, continua a farci sognare.  

 Anna Scavuzzo

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