Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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31 agosto 2015

Vita (e morte?) di un “giornalismo difficile”


Vita (e morte?) di un “giornalismo difficile”

L’intera essenza del libro di Mimmo Càndito si esplicita già nel binomio titolo-sottotitolo; quest’ultimo in particolare costituisce un vero e proprio manifesto programmatico con il quale, consciamente o meno, l’autore sembra voler eliminare ab initio ogni possibile fraintendimento o ambiguità circa la struttura, la natura e la stessa ragion d’essere del suo raccontare. Fin dalle prime pagine però la storia rivela evidenti sintomi di autobiografia, quasi a voler fare da eco alle celeberrime parole di Plutarco οτε στορίας γράφομεν, λλ βίους, non scrivo storie ma vite.[1] I reporter di guerra  è un racconto di vite, è il racconto di una storia molto più che di Storia. Càndito non rivendica mai, infatti, dimostrando grande onestà intellettuale, il ruolo di giudice super partes poiché si rivela fin dal principio come ingranaggio della complessa macchina che si accinge a ritrarre. A tal proposito mi torna alla mente un commento di Wilamowitz che, ancora relativamente a Plutarco, scrisse “sarebbe ora di cercare Plutarco nelle Vite parallele invece di […] rimproverarlo per non essere stato uno storico, cosa che appunto non voleva essere.”[2] E lo stesso può essere detto di Mimmo Càndito che, non svestiti bensì mai indossati i panni dello storico, rimane felicemente stretto nel suo gilet da reporter per rivelare i segreti di un mestiere di cui teme la forzata estinzione. Il libro, denso di esperienza, dà voce a tutti coloro che, in centocinquant’anni o poco più di esistenza, hanno praticato quel rischioso e spesso scomodo mestiere di raccontare la guerra, confrontandosi con un mondo che cambia insieme ai suoi volti e alle sue armi. Càndito esplora con occhio attento l’eterno campo di battaglia, sul quale Verità e propaganda sono perpetuamente destinate a scontrarsi.  Quando un giornalista decide di scambiare la comodità della scrivania con i pericoli, le notti insonni e i digiuni dell’indagine sul campo, si rende presto conto che il nemico non è solo quello che spara. C’è un nemico più infido e strisciante, che con scaltrezza imbavaglia la stampa e gioca con l’opinione pubblica. “Quando si dichiara guerra” scriveva Arthur Ponsonby “la prima vittima è sempre la verità.”
La storia ricostruita in questo volume non ha dunque pretese storiografiche o metodologiche, come si può agevolmente evincere dalla struttura della narrazione. Gli eventi non trovano infatti un ordine cronologico bensì tematico, in un groviglio di nomi e lotte  che affascina l’Uomo, ma non Gibbons o Hobsbawn che ancorati al loro storicistico rigore arriccerebbero il naso e si allontanerebbero impettiti. Ma se non si ragiona di Storia, il volume di Càndito è davvero un’autentica gemma, ricchissima di testimonianze personali attinte direttamente dal vissuto, non solo professionale, di uno dei grandi reporter del nostro tempo.
Questo “giornalismo difficile” – difficile nella migliore delle ipotesi, impossibile nella peggiore - ha inizio molto prima di Hemingway (ma il citarlo era d’obbligo...) e continua con l’ “instant news” regalataci dalla Rete. Sicuramente “instant”, ma autenticamente “news”? Il libro restituisce, per quanto disseminata nelle sue pagine, la Storia del giornalismo di guerra, la cui fonte battesimale sembra essere stata la guerra di Crimea, di cui dà testimonianza l’inviato del Times William Russell. Era il 1854 e Russell poté narrare l’ultimo galoppo dei soldati inglesi, con il quale tramontava l’era delle sciabole e nasceva la guerra moderna. Ernie Pyle, che raccontò tra il buio e la polvere dei campi di battaglia la Seconda Guerra Mondiale e morì tragicamente in un’isola del Pacifico colpito da un cecchino, è solo uno dei tanti tasselli con i quali Càndito compone il proprio puzzle. C’è Luigi Barzini, che investe con i suoi scoop la stampa italiana quando nel nostro paese “i giornali sono ancora ben povere creature”, il suo omonimo figlio, il celebre Hemingway, che sa raccontare magistralmente le notizie vere e ancor meglio quelle false. E, in anni più recenti, Peter Arnett, voce e viso dell’Occidente durante la prima guerra del Golfo.
Nominati – e come poteva essere altrimenti? – anche se quasi di sfuggita due Grandi del giornalismo italiano: Indro Montanelli, penna elegante e pungente, e la  forse ancor più scomoda Oriana Fallaci.
Come si accennava poc’anzi, il conflitto, ineliminabile e apparso fin da subito, fra informazione e potere militare e politico che nel 1896 in Sudan fece esclamare al solitamente compassatissimo Lord Kitchener “toglietemi dai piedi quei rompiballe!” all’indirizzo dei reporter, si era in qualche misura sopito durante le due guerre mondiali: le esigenze di una lotta universalmente percepita come fra Bene e Male aveva fatto nascere un “giornalismo patriottico” che, senza rinnegare la verità, accettava di piegarsi alle esigenze della sicurezza; come insinua Càndito, creando grandi storie che, però, forse non erano vero giornalismo. Basti pensare all’eroico intervento di Hemingway in Normandia il 6 giugno del ’44: tutti attendono in silenzio, avvolti nelle loro uniformi e nella loro paura, tutti tranne il vecchio scrittore che con la morte ormai sembra essere in discreta confidenza. “Sotto questa furia i soldati, l’elmetto in testa, se ne stavano impacchettati spalla contro spalla in quell’atmosfera di tragico sconfortante e solitario cameratismo che hanno gli uomini che vanno in battaglia” scrive Hemingway come se avesse visto davvero quei giovani volti consunti dalla guerra. Tuttavia non li vide e quel 6 giugno non mise mai piede a terra in Normandia. “Anche se le sparava grosse quando si trattava di raccontare le proprie gesta militari”, rivela lo stesso Càndito nel suo volume, “le raccontava tanto bene che, alla fine, gli perdonavano di essere un ballista.” A ben vedere però non di patriottismo si può parlare in questo caso, bensì di vecchio e semplice egocentrismo.
Con il Vietnam, dove i comandi militari lasciarono la massima libertà ai reporter per far cessare le sempre più pressanti accuse di censura urlate da un’intera società sempre più mediatizzata e pesantemente condizionata dalla “guerra in salotto” portata dalla tv, la questione si fece dirompente. Terminato il conflitto, nel quale indubbiamente gli Stati Uniti si erano fatti trascinare controvoglia dalla sciagurata teoria del containment,  l’inevitabile “processo alla sconfitta” risultò in un verdetto inappellabile: la guerra era stata perduta sul terreno politico e mediatico e non militare (vero); e la maggior colpa ricadeva su un’informazione “disfattista” (falso). L’establishment politico-militare giurò a sé stesso che ciò non avrebbe dovuto ripetersi in futuro, mai più. La Verità doveva ormai scegliere tra il bavaglio e la sedia elettrica. Così, il ricco racconto che Càndito fa delle svariate “dirty wars” successive il Libano, la Somalia, la Bosnia, la prima Guerra del Golfo, l’Afghanistan... è la cronaca della crescita di una censura strisciante e vischiosa, ma non per questo meno efficace, di un filtro a maglie sempre più strette che tiene i giornalisti a distanza di sicurezza dalle cannonate e dalla verità. Il monito è chiaro: racconta la nostra storia o taci. La superiorità tecnologica degli eserciti occidentali dà vita alla battaglia in remoto, dove, almeno fino alle ultime fasi, sono solo occhi elettronici a vedere (e colpire) il nemico; oppure, come in Afghanistan contro i talebani, fa fare il lavoro sporco, sul terreno, ad “alleati” locali preceduti dalla mortale cortina di fuoco della stand-off battle delle bombe intelligenti. Perché un’altra lezione del Vietnam è ormai entrata nel DNA dei militari occidentali: per evitare il crollo del fronte interno, di opinioni pubbliche non più disposte a sopportare lo strazio di giovani vite falciate da guerre tanto remote quanto incomprensibili, non basta il bavaglio mediatico che evita di mostrare le stragi ma, queste stragi, le si deve proprio evitare: l’elettronica rende l’opzione-zero una realtà ottenibile, pazienza se al prezzo di qualche “danno collaterale”. Questo è il dilemma che Càndito pone, e si pone, in conclusione: in guerre sempre più combattute “in remoto”, dove il nemico neanche si vede se non “prima” (in filmati di repertorio) o “dopo” (cadavere) o, più spesso, per ragioni di buon gusto non si vede affatto; dove il requisito fondamentale è evitare o limitare al massimo le perdite fra gli our brave boys e, in ogni caso, non fare arrivare mai immagini sgradevoli nelle case degli spettatori; dove la verità, dunque, resta invisibile anche al reporter più abile e volenteroso, lontano dal fronte, accecato, manipolato dai briefing e tenuto a digiuno (oppure sommerso, che è lo stesso) di materiale accuratamente selezionato e “lavato”; in questo contesto, ha senso oggi tentare di fare informazione? O meglio si può ancora parlare di informazione o spettacolo ne diviene tragicamente il più calzante sinonimo?
L’avvento della tv appare, nelle pagine di Càndito, come il colpo di grazia inferto a una stampa che non può competere con la forza dirompente dell’immagine, con la sua immediata percezione. E che la guerra messa in scena dallo schermo sia vera o falsa poco importa, l’importante è che qualcosa si faccia vedere. “La storia dei corrispondenti di guerra oggi pare vicina al capolinea” conclude amaramente “vero e verosimile sono divenuti una cosa unica”. Il racconto di Mimmo Càndito potrebbe davvero essere una lapide al giornalismo di guerra, un sipario calato su una breve eppure intensissima stagione dell’informazione. Ma non muore ancora la speranza che qualcosa possa cambiare, che le coscienze non siano poi così assopite come spesso si finge di credere. In fondo nessuno avrebbe mai pensato che l’uomo potesse mettere piede sulla luna o che le glorie dell’impero romano, sprofondate nel buio del Medioevo, potessero poi rinascere dalle loro stesse ceneri. Insomma fin dagli albori della nostra storia siamo stati capaci di compiere l’impossibile, alzandoci, cadendo e di nuovo alzandoci. Che il sipario si riapra dunque.
G. Camilla Severino



[1] Plutarco, Vita di Alessandro, Milano, Rizzoli, 2010, p.32.
[2] U. von Wilamowitz, Der Glaube der Hellenen, 1931, II, p.490.



Mimmo Càndito
I reporter di guerra. Storia di un giornalismo 
difficile da Hemingway a internet
Baldini & Castoldi, Milano, 2000, pp. 617.

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30 agosto 2015

Il filo della civiltà



“E` il mondo della parola scritta, dove le cose accadono simultaneamente e tutto convive con tutto […] E` un giardino rigoglioso, una cucina in fermento, un parlamento di voci: venite a cucinare, a vivere, a scrivere!”, così Ewan Clayton conclude il suo saggio sulla storia della scrittura.
E` un invito talmente potente per chi abbia letto Il filo d'oro, che non si potrà di certo restare indifferenti. L'autore con una trattazione sistematica descrive l'evoluzione della parola scritta dal suo apparire e dalla sua prima codificazione in una sorta di alfabeto in Egitto già attorno al 1850 a.C., fino al suo utilizzo più recente sulle piattaforme digitali di ultima generazione.
Ewan Clayton riesce a intrattenerci piacevolmente, anche se si sta occupando di un argomento così complesso e lo fa, quasi inconsapevolmente, infarcendo la sua accurata disamina di tanti esempi concreti e anche di curiosi aneddoti che ci stupiscono e ci fanno sorridere. Questa capacità gli deriva sicuramente dall'essere a contatto da decenni con il mondo della scrittura, considerato in ogni sua sfaccettatura. Infatti l'autore ha vissuto per anni in un monastero benedettino nel Sussex e in seguito ha lavorato presso il PARC in California, il celebre centro di ricerca della Xerox, dove sono state ideate molte delle innovazioni che contraddistinguono gli attuali computer.  Viene quindi considerato uno dei più noti calligrafi viventi e si impegna quotidianamente nel tramandare le sue conoscenze insegnando presso l'Università del Sunderland.
Clayton sente la necessità di scrivere questo saggio nel momento stesso in cui comprende che in questi anni ci troviamo davvero di fronte a un “punto di svolta” nella storia della scrittura, con l'avvento degli ultimi ritrovati tecnologici che tentano di sostituire e di soppiantare i supporti tradizionali. Gli eventi che in passato hanno condotto a simili sconvolgimenti vengono individuati nel momento cruciale di passaggio dal rotolo di papiro al libro di pergamena e secoli dopo nell'invenzione gutenberghiana, che ha permesso la concreta circolazione delle idee e della cultura.
In mezzo a queste date di cesura la scrittura si è sviluppata secondo vari stili nelle diverse epoche e aree geografiche, ma mantenendo sempre un nucleo centrale costante e uniforme, che ci permette di dipanare questo “filo d'oro”, secondo la definizione della calligrafa Sheila Waters.
L'autore inizia a svolgere l'intricata matassa dall'analisi dei più antichi esperimenti di scrittura alfabetica, procede con i manufatti di Ercolano e Pompei e le iscrizioni romane, come quelle visibili sul celebre sepolcro degli Scipioni, fino ai primi codici realizzati con fogli di pergamena che fanno la loro comparsa tra I e II secolo d.C. Sarà però soltanto con Carlo Magno e con la diffusione della così detta “minuscola carolina”, che appariranno evidenti le caratteristiche originali degli odierni caratteri a stampa, contrapposte a quelle dell'artificioso stile gotico.
Nei secoli seguenti la scrittura continua la sua evoluzione grazie al grande risveglio del monachesimo e alla necessità del suo utilizzo come strumento legale. L'impatto di un movimento di pensiero quale l'Umanesimo è poi determinante, ma la vera svolta avviene con l'invenzione della stampa a caratteri mobili da parte di Gutenberg intorno al 1450. La diffusione di questa tecnica decreta anche il successo della Riforma Luterana almeno nell'Europa settentrionale, dove il potere della Chiesa di Roma e della censura ecclesiastica non riesce ad arginare quello che viene definito un vero e proprio contagio.
Alla fine del '600, con la nascita della diplomatica, i documenti storici richiamano sempre più l'attenzione degli studiosi e divengono motivo d'indagine accurata. I tassi di alfabetizzazione diffusa crescono in maniera costante e nell'800 aumenta la capacità di stampa grazie all'utilizzo del torchio a vapore di Koenig e delle rotative Hoe e Marinoni, così che si sviluppa una vera e propria industria del libro, del romanzo in particolare e le donne emergono come nuova categoria di lettrici.
Negli ultimi decenni gli studiosi di calligrafia evidenziano una crescente spersonalizzazione negli stili di scrittura, in parte dovuta all'introduzione dei nuovi supporti informatici. Allo stesso tempo però sottolineano come questi non siano riusciti a far venire meno il sistema di scrittura manuale e come, al contrario, questo sia ancora parte integrante della nostra società.
Il filo d'oro continuerà a svolgersi ancora per molto e molto tempo, a superare ogni genere di ostacolo, proprio come ha fatto sin dalle origini della nostra civiltà.
Maria Valacco


Ewan Clayton

Il filo d'oro. Storia della scrittura
Torino, Bollati & Boringhieri, 2014, 394 pp.
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28 agosto 2015

Beffe, leggende e inganni: ecco perché non possiamo farne a meno



Il lettore che cercasse un testo di approfondimento sull’uso nel campo dell’informazione delle cosiddette “bufale” (le notizie false o gonfiate ad arte), per comprenderne meglio le cause, i contesti e le conseguenze, probabilmente non trarrebbe grande giovamento da Bufale di Luca Damiani.
Questa Breve storia delle beffe mediatiche da Orson Welles a Luther Blissett, infatti, è principalmente ciò che il sottotitolo stesso ci anticipa, un’antologia piacevole e fin divertente di beffe e inganni veicolati dai mezzi di comunicazione, non necessariamente giornalistici.
Damiani specifica fin dall’introduzione le componenti essenziali di una bufala: l’utilizzo di un mezzo di comunicazione di massa, l’esistenza di uno scopo da raggiungere  - sia esso anche solo la gloria che deriva all’autore dalla scoperta della bufala stessa - e la predisposizione del pubblico di ogni tempo all’accettazione del falso, predisposizione la cui analisi è poi il fine ultimo dell’opera.
Nei primi due capitoli la raccolta va a pescare nella storia della letteratura, dell’arte, della scienza, per presentarci inganni più o meno celebri il cui scopo è a volte economico, a volte puramente ludico, più raramente politico e manipolatorio. Dal giovanissimo Michelangelo che vende come originale una propria copia di un’opera del Ghirlandaio alla Donazione di Costantino, da Henri Lemoine che millantava di saper produrre diamanti alla leggenda della morte di Paul McCartney. Questa è forse la bufala più complessa e sicuramente la più affascinante, nella sua totale mancanza di scopo e nella sua resistenza allo scorrere del tempo: è del 1969 la prima teoria e nel 1993 lo stesso Paul McCartney ironizzò sull’argomento producendo un album dal titolo Paul is live, mentre ancora nel 2011 venivano pubblicati in Italia ben due libri, Paul is dead? e Codice McCartney e l’ultimo articolo del Mirror è del marzo 2015.
Ancora, Damiani ci ricorda del panico scatenato nel 1938 da una realistica versione radiofonica della Guerra dei mondi e delle conseguenze drammatiche de I protocolli dei savi anziani di Sion, nonché delle celeberrime false teste di Modigliani “ritrovate” nell’Arno nel 1984.
E’ poi il terzo capitolo del libro a farci scoprire le beffe mediatiche che fin dall’inizio il lettore si aspettava, quelle che utilizzano, a scopi per lo più politici, i mezzi di comunicazione di massa. Jonathan Swift e Benjamin Franklin, con la prima diffusione dei giornali in epoca illuministica, ne furono gli antesignani, mentre fu l’Ottocento, con l’estensione del numero dei lettori e la necessità di incrementare le vendite, ad aprire le porte a tutto un filone di notizie sconvolgenti, filone che ha avuto successo fino all’epoca moderna (del 1947 la bufala degli alieni a Roswell, che ha fornito materiale parecchi decenni dopo persino per una serie televisiva). Il lettore dovrebbe porre particolare attenzione alla sezione sulla manipolazione fotografica che, se ai tempi di Lenin e dei suoi sottoposti caduti in disgrazia richiedeva grande perizia tecnica, oggi può essere esercitata da chiunque abbia a disposizione un computer e un minimo di esperienza in campo grafico. Damiani stesso sottolinea la diffusione di questo fenomeno nell’ultimo capitolo, dedicato alle bufale nel mondo di Internet, che si occupa diffusamente anche del Luther Blissett Project, pseudonimo di un gruppo di anonimi, autori di opere di ogni tipo e di beffe, nonché beffa nella sua stessa esistenza incorporea e dichiaratamente artificiosa.
Quale può essere lo scopo di un progetto come Luther Blissett? Secondo Damiani, dietro a quest’iniziativa c’è, in parte, la stessa esigenza che spinge l’umanità in ogni parte del mondo e in ogni epoca a credere almeno per un po’ alle bufale, quell’esigenza che all’inizio ci si proponeva di individuare: la creazione di miti e di credenze e la persistenza di un sano scetticismo e di una scintilla di dubbio che ci mettano in grado di sopportare con più leggerezza le brutture del reale.
Una tesi finale che, per quanto non supportata da alcuna pretesa di ricerca seria in senso scientifico, storico o filologico, risulta alla fine nel complesso credibile, soprattutto grazie alla gradevolezza della parte antologica, che sembra quasi ispirata al Calvino delle Lezioni americane per ricchezza, ironia ed elegante conduzione logica.
Selene Porchi


 Luca Damiani  
Bufale. Breve storia delle beffe mediatiche
da Orson Welles a Luther Blissett,  
Castelvecchi Editore, Roma, 2004, pp.173.

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20 agosto 2015

«Linus», quando la rivoluzione ha inizio da una nuvola parlante

«Linus» è stato, fin dalla sua prima pubblicazione, un corpo alieno trapiantato in mezzo alle innumerevoli carte esposte nelle edicole italiane. La rivista può essere vista come la rappresentazione cartacea di quello che la Olivetti Programma 101 simboleggiò per l’informatica: un segnale di straordinaria innovazione sociale ancor prima che editoriale. Proprio come il primo personal computer della storia, nato anch’esso in quegli anni di intenso mutamento sociale e culturale, anche «Linus» annuncia l’avvento sulla scena di una figura sociale fino ad allora sconosciuta nel panorama italiano: quella di un ceto urbano individualizzato ed emancipato, in prima linea nel processo di globalizzazione e pronto a dialogare con omologhe figure dei centri urbani europei e americani. Il linguaggio utilizzato dai Peanuts riuscì a congiungere giovani e adulti di tutto il mondo in maniera assolutamente pionieristica, preparando la società a quel tipo di scenario che oggi ci ha condotto alla rete e ai social network e anticipando, nel suo piccolo, quella necessità di relazioni morbose che cinquant’anni più tardi ritroveremo sulle bacheche di Facebook e Twitter.
Nella sua opera Paola Maria Farina ci racconta la storia di questa prestigiosa rivista, arrivata quest’anno al suo cinquantesimo compleanno, partendo dalla storia del fumetto negli Stati Uniti, dal successo delle sundaystrips al più recente boom delle graphic novel, per poi passare all’impatto che i balloons hanno avuto nel Bel Paese dai primi del ‘900 ad oggi. Il mensile, pensato per un’utenza adulta e colta, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare di una rivista a fumetti, portò in quegli anni una ventata di novità, incidendo fortemente sul costume e la cultura. L’intento fu quello di riconoscere al fumetto l’indubbio spessore culturale che essi meritavano, cercando di arrivare a quella fetta di lettori che fino a quel momento non ne avevano percepito il reale valore artistico. L’esplosione delle contestazioni portò a significativi cambiamenti e di conseguenza condusse «Linus» a scelte editoriali e commenti politicamente schierati. La rivista divenne in qualche modo militante e diventò un chiaro esempio di come, a prescindere dal tipo di pubblicazione, un buon utilizzo del mezzo possa condizionare il pubblico, indirizzandolo. Con il fallimento dei movimenti di quel periodo e il conseguente abbandono della militanza da parte della rivista, «Linus» vide chiudersi il suo periodo di maggior successo e i toni della rivista si ridimensionarono visibilmente. Successivamente all’affievolimento di questa sua anima battagliera, ebbe inizio una stagione di maggior pacatezza e autocritica, mantenuta anche nei decenni successivi.
Il percorso compiuto da Paola Maria Farina ha così permesso di mettere in luce quella serie di caratteristiche che hanno contribuito a rendere «Linus» un caso editoriale di indubbio successo, oltre che un punto di riferimento sul piano culturale e politico, evidenziando come fumetto e cultura possano tranquillamente andare a braccetto, riconoscendo ai balloons il meritato titolo di prodotto intellettuale.
Fabrizio Paolino


Paola Maria Farina
La rivista «Linus». Un caso editoriale lungo quasi mezzo secolo.
Cargeghe, Documenta, 2013, 149 pp.+ VIII


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19 agosto 2015

I blog italiani, tra individualità e collettività





C’è stato un tempo in cui il termine blog suonava nuovo anche agli internauti. Elisabetta Locatelli, giornalista e ricercatrice con dottorato in Culture della Comunicazione, parte dalle origini del fenomeno e ne segue levoluzione fino ad oggi per cercare di dare risposta ad ununica grande domanda: che cos’è un blog?
Il saggio si articola in due momenti: ricostruzione storica e interpretazione in chiave sociologica del materiale raccolto attraverso lesperienza sul campo. 
I primi capitoli ripercorrono la storia dei blog italiani suddividendola in quattro fasi: early blogger (dal 2001 al 2003), lera di Splinder (2003-2006), la diffusione presso un pubblico di massa tra il 2006 e il 2008 e lintegrazione/competizione con i social network iniziata nel 2008 ed attualmente in corso. Lapproccio diacronico è raro nei testi che si occupano di web, eppure è un piacevole tuffo nel passato per coloro che hanno vissuto levoluzione di internet in prima persona, e garantisce agli altri le nozioni necessarie per avvicinarsi a questo mondo dalle mille sfaccettature e in continua evoluzione. 
Forniti al lettore i dati oggettivi, la questione viene analizzata dal punto di vista sociologico. Queste pagine sono il cuore del saggio.
Oggetto della ricerca sono nello specifico i blog personali, blog redatti da un solo autore, non legati ad unattività professionale ma libero spazio di creatività”.
Gli aspetti più tecnici e tecnologici sono appena accennati: il blogger (e dunque lindividuo) è al centro della scena. Non a caso, più avanti, verrà citato il Social Shaping of Technology, paradigma interpretativo volto a collegare linnovazione tecnologica (in questo caso il blog) al contesto sociale.
Oltre allosservazione di un significativo campione di pagine web, sono le ventisei interviste ad altrettanti blogger italiani che hanno fornito ad Elisabetta Locatelli il materiale necessario ai suoi studi.
Proprio da queste interviste emerge con chiarezza il ruolo del blog, capace di favorire lapertura e lampliamento delle reti sociali anche al di fuori di internet. Per spiegare qual è il significato della loro attività on-line, uno dei blogger interpellati disegna un salotto, un altro un monitor di computer con un cuore in gabbia nel mezzo. Il blog viene definito come un grosso bar, un punto di ritrovo, una piazzetta virtuale. È uno spazio di relazione e comunicazione, dove il sé entra in contatto con la collettività.
Il testo non manca di difetti: occasionalmente il linguaggio diventa eccessivamente tecnico, meno accattivante, e alcune citazioni, non aggiungendo nulla allargomentazione, sembrano ridondanti. Ma poiché la complessa questione dei blog viene sempre più spesso ridotta ad un insieme di numeri e statistiche, laspetto interessante di The Blog Up sta proprio nellaver privilegiato la dimensione umana come punto di partenza per una ricerca di più ampio respiro che ha anche portato alla creazione di un blog dedicato.
Se poi il lettore è qualcuno che ha avuto modo di partecipare alla blogosfera in qualità di autore o di semplice fruitore, sarà inevitabile applicare il discorso alla propria esperienza personale, interrogandosi su quali siano le ragioni e il significato di un fenomeno a diffusione universale e dal valore contemporaneamente individuale. 
Noemi Gallo



Elisabetta Locatelli

The Blog Up. Storia sociale del blog in Italia

Franco Angeli, Milano, 2014, pp. 224.
*Link al blog The Blog Uphttp://theblogup.blogspot.it






03 agosto 2015

In libreria

Giancarlo Mazzuzza
Indro Montanelli. Uno straniero in patria
Cairo editore, Milano, 2015, 156 pp.

Descrizione
 
Il vocione profondo, gli occhi azzurri brillanti come se avessero, dentro, una luce propria, le mani che roteavano nell’aria, quasi a catturare l’attenzione dei presenti: sono trascorsi tanti anni dalla sua scomparsa, ma Indro Montanelli è vivo nei miei ricordi e nei miei pensieri. «Sono il peggiore dei direttori, eccettuati tutti gli altri» diceva di se stesso, o anche «Sono un direttore di bandiera: la mattina mi issano sul pennone e sventolo», ma per noi, che lo abbiamo avuto direttore al Giornale prima, e alla Voce poi, è stato davvero unico. Quasi un padre spirituale, sebbene non avesse mai voluto avere figli, perché diceva con quell’aria che era solo sua, tra il cinico e lo scherzoso, «non sai mai chi ti metti in casa». Giorno dopo giorno, fin quando sulla Voce calò il silenzio, proprio vent’anni fa, Indro ci ha ammaliato con i racconti, a volte anche romanzati, della sua vita di grande inviato, di testimone di un’epoca che è già ieri, ma che resta oggi grazie ai suoi scritti. I protagonisti del Novecento, affrescati da lui, ci venivano incontro, di nuovo vivi e pulsanti, grandiosi o miseri nella svelata umanità. Ho voluto, così, raccogliere quegli aneddoti che Montanelli ci regalava in redazione, forse per combattere la banalità della cronaca quotidiana quando diventa routine, o in quelle felici serate in certi ristoranti toscani, dove mangiavamo pappa al pomodoro condita con fantastiche storie. È il mio tardivo omaggio a un uomo indimenticabile che ha, comunque, cambiato le nostre vite. Spero solo che da lassù, nel paradiso dei giornalisti dove sicuramente si trova, non mi fulmini con un: «Oh, bischero, cosa hai scritto?». G.M.
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Archivio blog

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