Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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01 febbraio 2018

John Steinbeck alla guerra

Se c'è una cosa che si può certamente affermare su John Steinbeck, tra gli autori più prolifici della cosiddetta lost generation americana, è che non sia mai stato un narratore scontato. Lo si può intuire soltanto pensando ad una delle sue ultime opere, Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri, uscita postuma nel 1976, così diversa per contenuti e stile dallo Steinbeck lucido, ottimista ed ermetico che tutti conoscevano. Ebbene, anche questa raccolta di lettere che il letterato americano raccolse per il quotidiano "Newsday" come inviato sul campo durante il lungo conflitto vietnamita, dal dicembre 1966 al maggio 1967, presentano un aspetto tutt'altro che banale. L'impressione però è che questa volta lo stesso autore / narratore fosse particolarmente confuso riguardo alla guerra in Vietnam, un conflitto unico nella storia per geografia e andamento, come lo stesso Steinbeck non mancò di notare a pochi giorni dal suo sbarco nel Sud Est asiatico. Se infatti nei primi dispacci, e per gran parte dell'intera opera, lo scrittore, pur nella sua analisi estremamente lucida, fa tutto il possibile per supportare e giustificare l'intervento militare statunitense (a differenza della quasi totalità della letteratura a lui contemporanea e/o futura), nelle ultime lettere, ed in particolare dopo il ritorno in patria, Steinbeck sembra nutrire profondi dubbi sulla bontà di un conflitto tanto lungo quanto dispendioso. D'altronde, come nota l'autore, a differenza del secondo conflitto mondiale (di cui Steinbeck fu giornalista inviato in Europa), la guerra del Vietnam è una guerra senza confini ed eserciti precisi, "una guerra di sensi, senza fronti e senza retrovie", dove il discrimine tra libertà e occupazione, tra omicidio e missione militare, è davvero più labile che ma. In un racconto tanto indecifrabile sia per lo stesso narratore che per i lettori, pochi aspetti mantengono una propria persistenza e continuità: la critica spietata di Steinbeck per i metodi e per le subdole strategie attuati dai Vietcong alle spese della popolazione rurale del Sud (con buona pace delle tante critiche che spesso hanno bollato Steinbeck come un "simpatizzante dei rossi"), tuttavia non fomentate da una pura contrapposizione ideologica (vedasi la brillante critica alla diplomazia americana nell'insistere a definire Taiwan "la vera Cina" pur di non riconoscere Mao), ma al limite velate da quel patriottismo quasi connaturato che nasce sul campo di battaglia (a tale proposito, vedasi la spietata denuncia all'uso da parte dei comunisti di bambini nelle missioni di guerra, salvo poi proporre subito dopo allo stesso Vietnam di fare lo stesso a parti invertite). Un'altra costante del racconto è la curiosità mostrata da Steinbeck in ogni pagina di questa nuova avventura ("Non guarirò mai da questa curiosità esagitata. Mi sento ancora come quando da bambino andavo da Salinas a San Francisco, addirittura a cento miglia di distanza!"), una curiosità ancor più ammirabile se consideriamo che quando Steinbeck scrisse le lettere aveva sulle spalle già 64 anni di vita, di cui sei mesi in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, decine di romanzi pluri-premiati, e perfino un Nobel per la letteratura. L'atteggiamento mostrato dall'autore, che tanto gradevolmente traspare dalla sue parole, è a mio parere un vero e proprio manifesto del giornalismo. Una cronaca lucida, sincera, ma allo stesso tempo appassionata, che non manca di aneddoti personali e talvolta ridicoli, alternati a riflessioni geopolitiche assolutamente non scontate. A tratti lo Steineck giornalista di guerra appare tale e quale a quello conosciuto nel 1943, incanalato tra il New Deal rooseveltiano e il nazionalismo, esaltato dalla descrizione delle armi e dei mezzi militari, critico verso il pacifismo ipocrita e fine a se stesso, abile nel definire in modo spietato e incorruttibile il "nemico". In altri tratti invece prevale lo Steinbeck romanziere, quello difensore dei contadini vietnamiti e thailandesi (così simili per certi versi agli okies, protagonisti di Furore), e capace di regalare al pubblico del Newsday personaggi che sembrano davvero resuscitati dalle pagine di un romanzo, come il Venerabile Giac, il maestro di judo pacifista che insegna la quiete interiore ai bambini di Saigon, o il generale di polizia thailandese che non riesce a capire come Playboy sia diventato "la bibbia dei giovani americani". In particolare nelle ultime lettere, dedicate alla sua permanenza in Laos ed in Giappone prima del rimpatrio, l'autore riesce davvero a fondere questi due mestieri, il giornalista ed il romanziere, in un connubio di entusiasmo, capacità comprensiva, esperienza e persino romanticismo, che per un poco fanno vedere anche gli aspetti più umani di un conflitto definito disumano da tutta la critica del tempo, da Bob Dylan a Norman Mailer, passando per John Lennon e Noam Chomsky. A prescindere dall'aspetto contenutistico, l'opera, uscita postuma (Steinbeck morirà nel 1968, appena un anno dopo l'esperienza vietnamita), può essere vista come un lascito testuale del romanziere. La storia ci ha consegnato tanti John Steinbeck: lo Steinbeck sognatore californiano, lo Steinbeck socialista dopo la crisi di Wall Street, lo Steinbeck pacifista, lo Steinbeck ospite di Roosevelt alla Casa Bianca, inviato di guerra, nazionalista, comunista e anti-comunista. In fin dei conti John Steinbeck ebbe la grande capacità di vedere e interpretare la realtà dei suoi tempi, una realtà mai univoca e che quindi mai può essere letta in bianco e nero. Proprio per questo motivo mi piacerebbe chiudere questa scheda di lettura con la piccola digressione che l'autore si concede nella lettera del 3 febbraio 1967, dove scrive la sua interpretazione sull'effettivo valore della guerra:
"Per me tutte le guerre sono cattive. Non esistono buone guerre e non credo che esista un soldato pronto a darmi torto. Però non riesco a capire quelli che credono di essere innocenti solo perché distolgono lo sguardo e girano le spalle: quelli che distolgono lo sguardo hanno forse scoperto che una guerra è buona e una è cattiva? Masterson, il soldato semplice di marina che guada le paludi pullulanti di sanguisughe, la famiglia di contadini delle risaie che si rintana terrorizzata nella sua capanna minata all'estremità di un sentiero pieno di trappole esplosive, io che ho visto questa guerra da vicino: tutti saremmo d'accordo nel dire che è tutto cattivo. Ma tutto il male va eliminato in una volta sola, altrimenti continuerà ad esistere come è sempre esistito".
Francesco Massardo


John Steinbeck
Vietnam in guerra: dispacci dal fronte
a cura di T.E. Barden
Libreria editrice goriziana, Gorizia, 2017.
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