Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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12 ottobre 2021

"La scomparsa della conversazione"

"La quasi totale scomparsa della conversazione (probabilmente il solo divertimento dei nostri antenati) ha fatto sì che lo scambio di idee sia diventato un genere particolare di spettacolo. Tre o quattro persone che sono ritenute qualificate, abilitate a esprimere idee, si radunano intorno a una tavola rotonda, e il pubblico, stupito e annoiato assiste al loro colloquio. Talvolta i conversatori appaiono sul video, talaltra sono presenti in carne ed ossa in una sala, di fronte a un certo numero di invitati. I conversatori esprimono le loro idee, le loro opinioni. C’è qui qualcosa di anacronistico perché anche le opinioni – materia prima di ogni conversazione non meramente utilitaria – hanno da tempo seguito la stessa sorte dell’arte del conversare: sono scomparse. Naturalmente non si dà scomparsa senza sostituzione dell’ente o dell’oggetto sparito; e in questo caso le opinioni, che sono giudizi di valore, indipendenti dalle fluttuazioni provvisorie del gusto e del costume, sono costituite da fiato di voce, da chiacchiere prive di consistenza ma dotate di una provvisoria efficacia. Coloro che reggono la vita pubblica (politici amministratori, uomini d’affari) non potrebbero impunemente mostrarsi a vuoto di idee generali, di opinioni; e quanto più il vuoto è reale tanto più essi sono tenuti a coprirlo col vento della loro verbosità. Non altrimenti potrebbero andare le cose, perché il linguaggio – veicolo di ogni opinione – è anch’esso in crisi. Una importante scuola filosofica si è sforzata di dimostrare che il linguaggio non afferra enti reali ma fantasmi. L’uomo, sostanzialmente, non sa nulla di sé, ma per vivere deve darsi significati del tutto provvisori. Il filosofo è consapevole della sua ignoranza, ma è necessario impedire che l’uomo della strada si renda conto dell’ignoranza dei clercs e dei filosofi.

Si riesce a impedirlo? Un tempo si riusciva, perché gli uomini di dottrina, col sussidio della religione o di qualche filosofia positiva, erano ancora uomini di opinione; e soprattutto perché gli uomini indotti erano tenuti fuori dal circolo del pensiero. Gli uomini autorizzati a pensare erano pochi; la bomba del pensiero era custodita da rari specialisti che non avevano alcun interesse a farla scoppiare. Oggi la bomba è scoppiata e anche l’analfabeta ha il sospetto che la sua ignoranza valga la più scaltrita dottrina.
Reso balbuziente il linguaggio – al quale si riconosce una utilità non più che pratica, di segno utilitario – si mostra inutile la conversazione, ridicola l’affermazione di opinioni che pretendano di cristallizzare in un senso o nell’altro il flusso della vita. Resta il problema della comunicazione, tutt’altro che insolubile sul piano della vita pratica. Si possono comunicare non idee, ma fatti e bisogni, con l’arte del segno, dell’allusione, con l’impiego di particolari cifrari; e a questo provvede la scienza delle comunicazioni visive. Un laureato in lettere che non avesse mai messo piede in un cinema non saprebbe comprendere i mille stenogrammi di cui è gremito un film moderno; mentre milioni di quasi analfabeti sono iniziati a quel tipo di linguaggio. Comunque, la sostituzione della parola con altro dalla parola, con differenti mezzi espressivi, rende sempre più affannosa la proliferazione dei mezzi visivi e magari acustici. Perché i pittori non dipingono più la figura umana e il paesaggio in cui vive l’uomo? Perché dietro l’uomo e dietro il suo reale habitat è pur sempre nascosta l’insidia della parola. Un’opera d’arte che si possa spiegare, tradurre in termini di linguaggio appartiene ancora al vecchio mondo che si alludeva di spiegare, di giustificare, di capire: è un’opera che non si muove, che nasce vecchia.
Così per la musica. Il tradizionale tonalismo era il prodotto di un’umanità ancora pensante e parlante; dietro il do maggiore c’era una concezione della vita che i filosofi e gli scienziati d’oggi respingono. Il passo da compiere era quello di dar corso legale alla dissonanza; e a questo si è arrivati in pochi anni. Non si era tenuto conto, tuttavia, di un fatto: che l’uomo aspira al caos ma non rinunzia al comfort, non rinunzia a un margine di sicurezza fisica. E a questo bisogno è stato facile provvedere imprigionando il caos musicale entro un sistema di regole fisse più o meno matematiche e in ogni caso arbitrarie. Oggi il disordine musicale non è più una minaccia, è un gioco di società. S’intende che un simile new deal musicale lascia inquieti e dissenzienti non pochi musicisti appartenenti all’ala sinistra del movimento modernista. Un giorno mi accadde di ascoltare una musica tutta fatti di sibili e di ruggiti, ma tale da permettere ancora qualche riferimento umano in virtù di un titolo che accennava a episodi della Resistenza. Il pubblico applaudì con moderata convinzione; ma un giovane e già stimato compositore straniero che assisteva al concerto dette in escandescenze e uscì dalla sala gridando: basta con questo umanesimo.
Dal suo punto di vista quello scalmanato aveva ragione: se l’uomo si vergogna di essere uomo è perfettamente logico che egli espunga dalle sue manifestazioni (non dico dal suo linguaggio, perché si tratta di ben altro) ogni riferimento alla sventurata condizione umana.
In realtà coloro che rifiutano davvero la condizione umana, fra gli artisti e i filosofi, sono pochi. Non mancano, fra questi ultra del mondo espressivo, i casi della rinunzia, del suicidio o della pazzia. Si tratta pur sempre di rispettabili e altamente comprensibili casi isolati. I più hanno compreso che la rinunzia, la protesta, il grido di chi non si rassegna e vuol morire sulla breccia sono, in se stessi, una eccellente materia di commercio. Sorge così la figura moderna di chi, tutto rifiutando e deplorando, prospera e impingua sulle macerie di un mondo che si suppone essere in disfacimento, ma che in verità gode di un benessere medio che non ha precedenti nella storia. Dimostrando che il linguaggio è una finzione priva di ogni contenuto e che l’uomo è sorto per caso dal nulla e che il nulla è la sua vera vocazione, il filosofo può conquistare cattedre e assurgere a reputazione mondiale. Distruggendo l’ipotesi stessa di ogni possibile arte, un artista di oggi può acquistare larga fama e vivere alle spalle del mondo borghese da lui detestato.
Il caso di chi vuol distruggere tutti e tutto ma non potrebbe vivere in un mondo diverso e trae buon partito dalla situazione ch’egli, spesso in buona fede, detesta, non si può, in ogni modo, generalizzare. Sono molti, ma non moltissimi, quelli che fanno mercato, e vantaggioso mercato, dell’equivoco in cui vivono. I più, la grande maggioranza, sono coloro che seguono passivamente la corrente e traducono in prodotto vendibile i gesti, gli atteggiamenti che sono nati da un autentico sentimento d’insoddisfazione e di protesta. Qui non c’è più equivoco, e non c’è nemmeno l’innegabile talento dei grandi mastri dell’equivoco. C’è la scaltrezza artigiana di chi segue – e a volte prevede e a volte addirittura determina – i bisogni della clientela.
Quale imbecille ha potuto affermare che manca nel mondo attuale ogni possibilità di comunicazione? Mai sono esistiti tanti mezzi di comunicare, né così facili né così irresistibili. L’importante è che fra questi mezzi sia sacrificata la parola, che ha il torto di non essere abbastanza polivalente e di pretendere a qualche durevole verità. L’industria della comunicazione sarebbe minata alla base se i mezzi espressivi pretendessero di avere qualche durata nel tempo. Quel che occorre non è il linguaggio, ma l’interiezione, l’accenno, il grido, il lampo, l’arabesco che nasce e muore nel giro di pochi istanti. Quel che abbisogna è ciò che si vede, si ascolta, si tocca per un attimo solo e poi viene bruciato e sostituito da un’altra analoga eccitazione.
In questa corsa verso il nulla la letteratura sembra alquanto sacrificata. Non rinunzia però ad aggiornarsi. I romanzieri descrivono ancora l’uomo ma lo riducono alla figura dei mannequins di De Chirico, ignorandone i pensieri e i sentimenti. Restano in coda gli scrittori tradizionali, che dell’uomo pretendono di non ignorare nulla. Battono una strada buona, ma sono quasi tutti mediocri, e per essi resta vero che la cattiva letteratura si fa coi buoni sentimenti. Eppure è proprio su quella strada che presto o tardi noi incontreremo ancora – di tanto in tanto – qualche scrittore leggibile.
Eugenio Montale,

E. Montale,  "La scomparsa della conversazione" in Nel nostro tempo, 1972, pp. 65-66 (già pubblicato in Auto da fè, 1962).
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