Lo spunto è l’articolo di Sergio Romano I terroristi che
sono tra noi, pubblicato su "Corriere della sera" di
sabato 27 settembre 2014, dove si illustrano le due differenti battaglie da
combattere nella guerra contro lo Stato islamico: una militare e l’altra
culturale. Credo ne esista una terza, molto meno evidente, quella
dell’informazione di tipo sensazionalistico.
La violenza appare un corollario secondario. L’indignazione
uno spiacevole intralcio piuttosto che una necessità. Così lo spettacolo della
morte entra nelle nostre case con i tg della sera, tra un piatto di spaghetti e
un bicchiere di vino, senza creare grossi imbarazzi o problemi di digestione.
Lo stesso scenario si ripropone la mattina successiva con i titoli-slogan delle
prime pagine dei quotidiani, tra il profumo rassicurante della brioche e del
cappuccino.
La guerra con il suo orrore si mescola alle nostre faccende
quotidiane senza alcuna sensazione di rigetto. Dai tg, dal web, da ogni forma
di stampa emerge il dramma delle violenze perpetuate contro innocenti. Panorami
che sembrano lontani. Ma vicina è la stessa violenza, più subdola e silenziosa,
che pervade la nostra vita, costretta ad interagire con scenari cosparsi di
paure, sospetti, vigliaccherie, nemici immaginari. E poiché l’uomo si abitua a
tutto, finisce col diventare assuefatto e indifferente anche quando non
dovrebbe. Anche davanti alla decapitazione, allo stupro, al genocidio. Pare un
ossimoro pensare che la nostra giornata sia scandita dal fiato pesante della
morte. Le nostre attività “da vivi” scorrono tra il sangue delle macellazioni
dell’Isis, nella tranquilla indifferenza di chi pensa che tanto si tratta di
una guerra che non ci tocca. Ma come
può l’orrore, sbattuto nelle case all’ora dei pasti, prevalere sull’indignazione
umana? Come ci si può abituare a certe notizie? E come può l’informazione
soccombere al diktat dell’audience o delle vendite?
Anche l’informazione è un’arma, molto potente e pericolosa,
che ferisce attraverso la visione dei bombardamenti o il frame del video di una
decapitazione. Un’arma che può rivelarsi inconsciamente letale mentre i nostri
bambini assistono indifesi al rito del naufragio di centinaia di “nemici
clandestini” o ai morti ammazzati dalla mafia.
Un video o un titolo di giornale che bruciano il pensiero
critico di milioni di persone, che manipolano scelte e volontà di un pubblico
incapace di rifiutarne la visione o la lettura.
A questo è ridotta oggi l’informazione?
Il problema non è solo etico e sociale ma comunicativo. Da
una parte è doveroso informare, mentre dall’altra è auspicabile maggiore
attenzione, tatto e sensibilità da parte dei media nel proporre certe notizie.
Tra il prigioniero di guerra che viene decapitato e il giovane che guarda e
riguarda, con curiosità morbosa, il video della decapitazione sul web che
differenza c’è? Nessuna: entrambi sono morti. Uno fisicamente e l’altro emotivamente. Perché non si può e non si deve accettare di vivere accompagnati dal fantasma della morte e della violenza come se fosse una cosa “normale”.
Forse, in tale contesto, una giusta informazione può trovare una buona occasione per curare la patologia del sensazionalismo, del titolo spot, facendo in modo che la morte passi attraverso la vita e non il contrario.
Anna Scavuzzo
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