Non c’è limite all’egoismo umano. Neppure a quello che si
serve della propaganda di guerra per fare soldi. Come ha scritto su "Repubblica"
del 7 febbraio Massimo Recalcati, “il culto pragmatico del denaro ha sostituito
il culto fanatico dell’ideale.”
Lo dimostra la notizia, riportata da "Il Venerdì di
Repubblica" del 27 febbraio, secondo cui in Russia il costruttore di fucili
d’assalto Kalashnikov, Aleksej Krivoruchko, l’anno scorso ha moltiplicato i
suoi profitti con la vendita delle temibili armi. Il che non solo la dice lunga
sulle bugie raccontate all’opinione pubblica in merito alla ricerca condivisa
dalle grandi potenze mondiali per il mantenimento di equilibri di pace, ma fa
chiaramente capire quanto il mercato delle armi sia in rapida espansione. Come se
non bastasse, la nuova strategia che la società russa aspira a costruire, è un
vero e proprio brand da diffondere
nel mondo. Come la Apple o la Coca-Cola. A Mosca, in una recente conferenza
stampa è stato presentato il nuovo logo dell’azienda: una K bianca (il colore
della resa) impressa su un quadrato rosso (il colore del sangue), circondata da
uno sfondo nero (il colore dei terroristi) con sottostante la parola
KALASHNIKOV. Il marchio apparirà non
solo sulle armi ma anche sugli accessori e l’abbigliamento di una nuova linea
di prodotti pensati per chi ama vivere all’aria aperta come cacciatori,
sportivi o… guerriglieri. Un modo come un altro per diffondere nel mondo la
filosofia del potere armato. Naturalmente a corredare l’operazione di
costruzione del marchio non poteva mancare uno slogan forte e facile da
ricordare. Così, il Kalashnikov viene ribattezzato con lo slogan “arma di pace”. Un ossimoro che fa venire i brividi. Un insulto per chi
nella pace crede o per essa ha perso la vita.
Ma c’è di più. Creare un marchio che associa il concetto di
guerra a quello di pace significa comunicare al mondo l’intenzione, più o meno
velata, di perseguire progetti espansionistici militari con la contemporanea costruzione
e fondazione di un immaginario
collettivo dove il valore della pace viene venduto
assieme a quello dell’uomo che deve essere
comunque armato.
Una spiccata propensione nel legittimare la guerra perpetua risulta quanto mai
evidente.
Si vede che l’evoluzione delle capacità cognitive umane
arriva a un punto di saturazione tale che comporta l’implosione delle stesse
capacità nell’assidua ricerca dell’autodistruzione.
Non che, in contrapposizione, si possa giustificare il
fanatismo della pace. Qualsiasi fanatismo è deleterio perché manca di
equilibrio. Piuttosto, è auspicabile il tentativo di riprendere quegli ideali
che molta della classe dirigente che ci governa cerca di mandare in soffitta.
Ideali, come pace e giustizia, ormai considerati vetusti,
sorpassati perché si oppongono alle
logiche dissennate del potere e del profitto. Ideali usati a piene mani solo
come paravento nei discorsi dei talk show, per nascondere la totale mancanza di
reali politiche sociali. Stili di vita e opinioni che necessitano
dell’espansione del concetto di libertà e tolleranza per crescere, al posto
dell’idea di armi e guerra. E mentre l’Isis diffonde sul web, anche in
italiano, il manifesto di un sedicente stato islamico dove l’oggetto della
religione sembra sia diventato il male, Mosca piange, attraverso la retorica di
stato, il dissidente Nemtsov. Nel frattempo il kalashnikov, simbolo
dell’assalto, della forza violenta, dell’imposizione coatta dei regimi
totalitari, rivitalizza i valori ideali di difesa della patria dal nemico comune del futuro combattente-consumatore.
La pace non è più una conquista della società civile, ma un’arma dura e
spigolosa, come la lettera K che ne rappresenta il marchio, per giustificare
guerre e genocidi nel mondo. Nell’immaginario collettivo del povero uomo comune, che crede ancora a
una soluzione dei conflitti non violenta, il culto di un ideale di pace appare ancora
molto lontano. Mentre il culto dell’unico dio professato è sempre più presente.
Un dio che porta in una mano fiumi di denaro e nell’altra il kalashnikov.
Anna Scavuzzo
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