“Il corrispondente di guerra tipo è di solito una persona modesta, cordiale, disposta a collaborare, adatta per viverci assieme”.
Con questa definizione di Ryszard Kapuscinski si apre il
libro “Inviato di guerra 2.0: dal
calamaio allo smartphone”I casi delle “social netwar” in Egitto e Libia, pubblicato
nel 2014 dalla casa editrice Prospettiva Editrice, e scritto dall’autore
Emanuele Ballacci, nato a Roma nel 1984, appassionato di lettere e curioso del
mondo. Egli s’interessa alla scrittura del giornalismo sin da bambino. Dopo uno
stage presso l’agenzia giornalistica 9Colonne,
nel 2012 consegue la laurea magistrale in Editoria multimediale e nuove
professioni dell’informazione presso l’Università La Sapienza di Roma.
Il
tema centrale sul quale egli sviluppa il libro è il giornalismo di guerra:
partendo dai cambiamenti che lo hanno caratterizzato nel corso del ‘900, egli
prende in esame tutte le sue sfaccettature cominciando dalla figura
dell’inviato di guerra della quale parlerà per buona parte del libro. Il suo
lavoro, infatti, ha l’intento di chiarire e identificare questa figura,
ripercorrendone la storia, passata e presente, fino ai giorni nostri. Le fasi
storiche vanno a braccetto con i vari modelli del reporter, che si sono succeduti
nel corso del tempo, il quale, inizialmente, non era ritenuto un vero e proprio
lavoro ma uno stile di vita. La paternità del mestiere viene assegnata a
William Howard Russell, giovane giornalista irlandese che seguì la guerra di
Crimea.
Furono
le grandi guerre a ridimensionare la figura dell’inviato in particolare con la
guerra del Vietnam che diede vita alla cosiddetta sindrome del Vietnam, ossia la convinzione che le sorti del
conflitto fossero state decise dall’impatto delle immagini televisive
sull’opinione pubblica (condizionandole negativamente).
Proprio
per questo motivo la guerra del Golfo ha visto un rigido controllo
dell’informazione (news management)
da una parte, mentre dall’altra i giornalisti embedded, giornalisti al seguito delle truppe. Questi radicali cambiamenti rappresentarono
le novità che decretarono un sostanziale mutamento nel modo di intendere e
raccontare i conflitti.
In
seguito, con l’avvento dei blog e dei social
media, la professione di inviato di guerra si trasformò ulteriormente. La
prima guerra definita come “la prima di Internet” è stato il conflitto in
Kosovo. Essa, infatti, ha sancito la distinzione tra vecchie e nuove guerre: il
reporter si è lentamente trasformato da narratore di eventi lontani a
selezionatore del flusso virtuale di notizie in Rete. Significativa è stata la
svolta apportata successivamente dall’introduzione del web 2.0: da quel momento blog e social
media hanno lanciato una nuova rivoluzione tecnologica senza precedenti. Il
blog si è imposto rapidamente nel panorama giornalistico grazie alla facilità
di utilizzo, trovando la sua consacrazione nella guerra di Afghanistan e Iraq.
L’avvento di social media come Facebook, Twitter e Youtube, segnerà infine la strada verso nuovi orizzonti: inediti
strumenti sia per cercare e diffondere notizie sia per stabilire nuove
relazioni con pubblico e fonti. L’esempio lampante di questo nuovo modo di fare
giornalismo di guerra, nel nostro presente, risponde al nome di primavera araba. In particolare, i casi
presi in esame da Emanuele Ballacci sono quelli dell’Egitto e della Libia.
L’elemento principale che viene sottolineato dall’autore è la pervasività e
l’ubiquità dei social network nella
nascita e nello svolgimento dei moti rivoluzionari. Facebook nel caso egiziano e Twitter
in quello libico sono stati i principali artefici dell’esplosione delle
rivolte, poiché hanno permesso alle persone (in particolare ai giovani), di
unirsi intorno ad un unico obiettivo, dando vita a una sorta di alleanza panarabistica moderna.
Quale
sarà, quindi, la prossima fermata del giornalismo di guerra? Quali saranno i
suoi sviluppi? Secondo l’autore la risposta è ignota. Come scrive anche Tiziano
Terzani “Il senso della ricerca sta nel
cammino fatto e non nella meta; il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e
non l’arrivare”. Dal calamaio al telegrafo, dal telegrafo alle nuove
tecnologie fino ad arrivare all’avvento di Internet: il mestiere del reporter è
sempre stato un’eterna sfida in continua evoluzione ma sempre viva.
Il
messaggio dell’autore è chiaro e conciso: le nuove tecnologie non stanno
distruggendo il mondo della comunicazione (come molti pensano) ma lo stanno
semplicemente “aggiornando”. Ormai tutti tramite un computer e una connessione
a Internet possono essere giornalisti grazie ai nuovi mezzi multimediali ma i
veri giornalisti sono quelli che, nel mondo odierno, fanno ancora la
differenza. La comunicazione va sempre di pari passo con i cambiamenti che
popolano il nostro mondo e la società, ma non bisogna vederlo come un fattore
negativo: anzi, al contrario, bisogna accettarlo perché, come tutte le cose, ha
sia elementi positivi, sia negativi. Le nuove tecnologie hanno cambiato molto
questo mestiere, lo hanno al contempo facilitato e complicato perché permettono
di essere molto più veloci nei contatti, nell’acquisire notizie, nel
trasmetterle, permettono anche di produrre molto di più ed è questo in parte il
neo: al giornale si tende a pretendere questa eccessiva produzione in poco
tempo che troppo spesso sconfina nella superficialità. I vantaggi però sono
enormi a partire dai collegamenti come telefoni cellulari o satellitari,
Internet e l’invio di servizi in FTP. Il
Citizen Journalism non viene più
vistocome una minaccia ma come un cambiamento positivo che creerà in futuro
nuove professioni perché, nonostante tutto ciò, le regole di un giornalismo
corretto rimangono le stesse: la ricerca, la verifica, l’inquadramento del
problema, la correttezza del racconto. I citizen
journalist possono, perciò, diventare una fonte ma solo chi sa fare il
mestiere e ne conosce e rispetta le regole potrà spiegare cosa succede. Il
mestiere, così, si va riconfigurando. Sta a noi scegliere come vedere il
bicchiere. Sta a noi essere ottimisti. In un mondo senza confini come questo
dove tutti vengono investiti da una massa di informazione indistinta c’è
bisogno di un giornalismo puntuale e serio.
A
mio parere l’opera presenta una visuale molto ampia e accurata della figura del
giornalista di guerra e, più in generale, del giornalismo estero. La
professione ci viene presentata nelle sue molteplici “facce”grazie, anche, alle
interviste finali di alcuni giornalisti che hanno esposto la propria opinione
in merito a questo tema così delicato ma, al tempo stesso, così importante.
Micaela Zitti
Emanuele
Ballacci
Inviato
di guerra 2.0: dal calamaio allo smartphone
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