Non tutte le notizie di atrocità hanno lo stesso peso
nell’economia della notiziabilità. Ne è un triste esempio molto recente l’uccisione il 21 marzo
2015 di una donna di soli 27 anni a Kabul, in Afghanistan. Farkhunda, così si
chiamava, soffriva da 16 anni di problemi mentali ed è stata accusata di aver
bruciato il Corano, libro sacro dell’islam. Quindi, massacrata con inaudita
violenza, buttata nel fiume dopo essere stata bruciata ancora viva.
Solo il "Corriere della
Sera" decide di dare la notizia. Silenzio stampa di tutti gli altri
principali quotidiani. Forse perché la morte è avvenuta in Afghanistan, lontano
dall’attenzione puntata sull’attentato di Tunisi. O forse perché riguardava una
povera donna disabile, corpo considerato purtroppo da molti inutile e
invisibile in questo mondo. O perché il portavoce del ministro degli Interni
afgano, pur confermando la notizia, parla di “evento molto sfortunato.”
Certo è che una giovane donna è morta nel modo più atroce e
vergognoso possibile e la notizia non viene considerata rilevante dalla maggior
parte dei giornali e delle televisioni.
Per analogia, se pensiamo all’eco mediatica che ha suscitato
l’uccisione del pilota giordano arso vivo dall’Isis, non si capisce come mai questo
orrore più recente non sia stato considerato altrettanto meritevole di enfasi.
Eppure entrambe le persone sono vittime del fanatismo
islamico. Entrambe sono state arse vive. Entrambe sono state riprese da
orribili video che mostrano la loro lenta morte. Ma non sono entrambe
ugualmente notiziabili. Perché? Esiste una “pubblicità della morte” secondo cui
alcuni morti hanno più dignità di altri? C’è il morto che sbattuto in prima
pagina, con bella foto annessa, fa vendere molti giornali. E c’è il morto che
non interessa, anzi annoia.
Molti, come Farkhunda, non raggiungono nemmeno gli onori del
ricordo o dello sdegno pubblico tra le cronache dei giornali. Non meritano
neppure questo rispetto.
La cosiddetta notiziabilità non è data dal fatto cruento,
come molti credono. E nemmeno dal legame con argomenti di interesse più
generale come il terrorismo o l’integralismo islamico.
Sembra che ha fare di un evento una notizia, degna di essere
pubblicata sui quotidiani, sia più che altro lo share e il pubblico gradimento.
In sostanza, se il fatto è una novità assoluta merita la prima pagina e la
prima serata, come per il pilota giordano. Mentre se il fatto è una sorta di
replica di qualcosa di già visto, non merita spazio e visibilità. Questo perché
è il pubblico che decide sia i palinsesti televisivi che le prime pagine dei
quotidiani.
Così l’informazione non è più un servizio di pubblica
utilità, ma un servizio per “vendere” il pubblico al miglior offerente. Il
pubblico, il lettore sono al centro degli interessi dell’informazione non
perché considerati una collettività a cui fornire il miglior servizio.
Sono, al contrario, stimati come “merce” di scambio da
barattare con gli spazi pubblicitari di qualche supermercato editoriale.
Quindi, bisogna assecondare i suoi gusti. Non lo si deve annoiare, ma bensì
divertire e sollazzare. Anche se questo significa renderlo sempre più ignorante
e privo di spirito critico. È vero che non tutta l’informazione si adegua a
questo dictat, come, in questo caso, ha dimostrato il "Corriere della Sera". Ma è
anche vero che per chi decide di andare controcorrente i rischi sono molti e le
difficoltà tante. Perché la notizia è diventata come un qualsiasi “prodotto”
che piace se è nuovo, trasgressivo e osceno. Deve suscitare stupore e orrore.
Altrimenti passa inosservata. Come la morte: mentale più che fisica.
Anna Scavuzzo
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