“Il desolante funerale del comunismo in un racconto lieve ma stordente”
La cronaca di un decadimento di portata mondiale
spesso nasce per caso. E ancora più spesso nasce dalla narrazione di un evento
più effimero, impalpabile, dal racconto di un viaggio, e solo in seguito la
grande cronaca si plasma, giusto il tempo di comprendere il fermento di cosa
stia effettivamente accadendo e di mostrarlo in tutta la propria importanza.
Ed è proprio così che un pilastro del giornalismo
italiano come Tiziano Terzani è arrivato a raccontare, in una coinvolgente modalità
da “diario di bordo”, uno degli eventi più significativi e desolanti degli
ultimi quarant'anni: il pesante e scuro sipario che è calato sopra le ceneri
del comunismo.
Una spedizione che doveva durare due settimane,
silenziosa e tranquilla come le acque del fiume Amur, confine naturale tra “i
due grandi comunismi”, la Cina da una sponda e la Russia dall'altra, che si è
trasformata in un viaggio di due mesi attraverso la Siberia, l'Asia Centrale e
il Caucaso, attraversando terre e incontrando popoli così “lontani” a noi
occidentali, come il Kazakhstan, la Kirghisia, la Turkmenia, il Tagikistan,
l'Uzbekistan, l'Armenia, sino ad arrivare al cuore pulsante del “buon vecchio”
comunismo: Mosca. E lì, nella Krasnaya Ploshad, si è detto finalmente
“addio” al Padre della Rivoluzione, Lenin.
Terzani ha vissuto il golpe, o meglio il putsch,
che destituiva Gorbaciëv -anche se solo per una
manciata di giorni- e il giornalista aveva già annusato, nell'aria, l'odore
acre di una morte lenta e dolorosa, che come un veleno parte dal cuore e, più
vasto è il corpo, più lentamente arriva in tutti i capillari. Una morte e uno
sgretolamento che lasciano, al loro passaggio, aria tesa e popoli in fermento.
Dai neonazionalismi delle Repubbliche Sovietiche, con i propri popoli privati
dalla loro lingua, religione, alfabeto e cultura dal comunismo, che nel '91
vogliono riappropriarsi di ciò che era loro, sino alla vibrante e fremente
azione dell'Islam che, come un liquido che si espande in un contenitore fattosi
all'improvviso più largo, cerca di acquistare spazio e potenza in una terra
smarrita e senza più punti di riferimento.
Terzani racconta così una Russia fuori dal
tempo e dallo spazio, partendo proprio da quegli arti più lontani e poco
irrorati dal flusso, sanguigno e potente, di informazioni sul contraddittorio e
vertiginoso cambio di rotta della superpotenza sovietica: da un socialismo
decadente, grigio e dedito al sacrificio sino al capitalismo sfrenato, a colpi
di scarpe da ginnastica made in china e materie prime vendute al miglior
offerente estero.
Era il 1991 e i primi pc portatili
facevano capolino tra i professionisti, ed è impressionante fare un paragone
con l'immensa potenzialità di comunicazione di oggi, a nemmeno trent'anni di
distanza, mentre si legge dei vari telex, delle attese infinite ai centralini
per una chiamata internazionale, del mestiere di giornalista che ha subito
trasformazioni brusche e radicali in un tempo, a mio parere, troppo stretto,
che non gli ha permesso di adattarsi a dovere, di risistemarsi nello
spazio-tempo di oggi. Uno spazio-tempo che, infatti, Terzani deciderà poi di
non indossare, di non rincorrere, perché troppo lontano dalla sua idea di
giornalismo come racconto profondo e aderente ai fatti di realtà lontane e
complesse, con il tentativo di scoprirle e ri-scoprirle, renderle più
maneggevoli e comprensibili a chi avrebbe poi letto i suoi pezzi sul giornale,
a casa o al bar, dall'altra parte del mondo.
Il racconto di Terzani culla il lettore,
in un viaggio a tappe, un perfetto esempio di quello che oggi chiameremmo “Slow
Journalism”, in un volume che racchiude un corposo e denso reportage di tutta
l'Unione Sovietica. L'autore, inoltre, ha quel modo di raccontare di chi è
abituato alle “stamberie” dell'umanità, senza condannarle ma guardandole con la
curiosità di un bambino, lo spirito critico di un uomo saggio e la leggerezza
di chi nel mondo sa muoversi, senza turbare troppo gli equilibri se non
strettamente necessario. È il classico “giornalismo di pace” di cui oggi
si è nostalgici, ed è sempre più raro da trovare. Un giornalismo che si lascia
andare a qualche critica, sì, ma sempre ponderata e supportata da dati e fatti
oggettivi, una critica che sappia andare oltre al binomio noi/loro,
buoni/cattivi, occidente/oriente, ma che sappia leggere bene tra le pieghe
infinite dell'umanità per poterle spiegare al meglio.
Questo è ciò che più affascina e colpisce
dell'autore e del libro: un'immagine nitida, chiara e senza filtri di una
realtà, senza fronzoli né esagerazioni, oltre alla scrittura magistrale di
Terzani.
Un libro come “Buonanotte, signor Lenin”,
insegna la storia, sì, ma fa di più: insegna, con calma e dedizione, a
comprenderla. E' sempre più facile, oggi, leggere qualche riga riguardo un
avvenimento internazionale e avere subito il commento pronto, la critica
facile, la presa di posizione netta. Tutto va così veloce che non esiste il
tempo per fermarsi a riflettere ed effettivamente capire quali risvolti,
sociali, politici e culturali, portino a determinati eventi, determinate
reazioni. Non esiste il tempo e forse nemmeno la voglia. Leggere la storia,
riassunta a colpi di tweet o di flash news in tempo reale, senza comprenderla,
è quasi inutile e soprattutto incredibilmente pericoloso. La storia è uno dei
cimeli più preziosi che giornalisti e scrittori (quando non oppressi totalmente
dai vari regimi) ci hanno lasciato, per comprenderla e comprenderci. Eppure
oggi è sempre più difficile non solo saperlo fare, ma anche provare a farlo.
In quest'ottica il viaggio dell'autore
attraversa e prova a districare anche le radici profonde dell'Islam, proprio
lì, nel cuore dell'Asia Centrale, in quelle terre dove le donne passano ancora
davanti al Corano più antico del mondo per riuscire a essere fertili.
Samarcanda, oltre ad essere un nome profondamente evocativo, è una delle culle
di quell'islamismo asiatico che ha storia millenaria, e Terzani racconta la
spinta espansionistica della cultura e della religione islamica nel momento in
cui le salde braccia del comunismo hanno allentato la propria presa, in un
momento di smarrimento totale: l'attimo giusto per proporsi come “rimpiazzo”.
Nell'Asia Centrale la fine del regime sovietico non ha significato affatto
l'inizio di un processo di democratizzazione, ma anzi l'islamizzazione della
società. La riscoperta della religione va di pari passo con la riscoperta
dell'identità nazionale, questa la tesi dell'autore, e si riferisce a tutta
l'Asia Centrale che, lentamente, si sta risvegliando con un sentimento
nazionale -e culturale- più forte. Ovunque, tutto si ricostruisce sulle ceneri,
meste e deprimenti, di quello che una delle più potenti dittature del Novecento
ha lasciato dietro di sé: statue di Lenin che vengono fatte sparire nella notte
in ogni città, intere nazioni, che dipendevano totalmente dall'Unione Sovietica
per la lavorazione delle materie prime, senza lampadine, sapone, benzina, una
babele di popoli che si avviano verso l'uscita di un totalitarismo che ha
regnato per ben settant'anni, con almeno un'intera generazione nata e cresciuta
sotto il comunismo. Liberarsi di un'identità così ben radicata non sarà affatto
facile.
Insomma, un vecchio e grinzoso impero che
si sgretola le cui ceneri rischiano di rimanere schiacciate tra due
superpotenze che già da tempo si guardano in cagnesco, agli “antipodi” del
globo: il capitalismo da una parte e la deriva fondamentalista dell'Islam
dall'altra.
Ancora oggi, a venticinque anni di
distanza, la battaglia rimane più che aperta.
Alessandra Arpi
Tiziano Terzani
Buonanotta, Signor Lenin
Longanesi,
Milano, 1992
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