Si può dire che l'evoluzione del mestiere del giornalista e
dell'organizzazione editoriale e redazionale sia stata sempre in qualche modo
al centro dell'attenzione e degli interessi di Michele Mezza. Giornalista Rai
fra i più noti e popolari, inviato in URSS e in Cina negli anni 70 e 80, poi
nelle guerre dei Balcani fino agli anni 90, già in quella veste - che può
essere considerata iconica del grande giornalismo della tradizione: essere
presente in prima linea laddove avvengono i fatti che fanno la Storia -
si pone il problema di individuare nuove forme di narrazione giornalistica,
quali il documentario radiofonico, per le quali ottiene anche importanti
premi e riconoscimenti. Negli anni 90 collabora al piano di unificazione
dei GR, nel 98 progetta Rai News 24, primo canale all-news della televisione
italiana, del quale diventa vice direttore. Insomma un giornalista che,
interpretando e vivendo con passione i fondamentali della propria
professione, si interroga sulla sua evoluzione. Prima dal "di dentro"
- sul campo - poi, allargando i propri orizzonti professionali come docente di
culture digitali all'Università Federico II di Napoli, studiandone i sempre più
rapidi cambiamenti nel grande e tumultuoso oceano della rivoluzione digitale,
che sta travolgendo il mondo dell'informazione.
Il giornalismo nel nostro tempo dominato dalla Rete, dai social,
dalle grandi potenze del mondo digitale: cosa è, cosa sta diventando,
dove sta andando, quale è il suo ruolo, e prima di tutto: ha ancora un
ruolo il mestiere del giornalista? Queste sono le domande epocali alle quali
cerca di dare una risposta "Giornalismi nella rete - per non essere
sudditi di Facebook e Google", il più recente libro di Michele Mezza,
pubblicato da Donzelli.
Impostato esso stesso in modo innovativo, con la parola scritta
accompagnata in parallelo dal costante uso di QR code che rimandano ad
approfondimenti, video, dati aggiornati in tempo reale, il libro è avvincente,
scorre rapido e chiaro nella narrazione, una pagina tira l'altra come in una
storia di cui si vuole vedere il finale. Ma - nella sua briosa
effervescenza - è in realtà un'opera complessa, che affronta temi di portata
globale e in continuo divenire, quindi difficilmente afferrabili e
sistematizzabili.
Lo strapotere delle grandi centrali di servizi, come Google, Amazon; la
"dittatura" dell'algoritmo che si assume il compito di decifrare cosa
vuole il pubblico; gli accordi editoriali e i passaggi di proprietà di testate
mitiche come New York Times e Washington Post, che vanno verso una dimensione
in cui il giornale non è più erogatore di informazioni ma di servizi;
l'informazione non più come fine ma come mezzo per stringere legami di
affidabilità con il lettore; la rete come "listening system" che
veicola e incrocia le informazioni e opinioni degli utenti con quelle delle
redazioni; la struttura della versione web del giornale che, nella difficile
lotta di sopravvivenza delle testate anche più prestigiose, abbandona ogni
similitudine con quella del cartaceo, fino al New York Times e al Guardian che
affidano direttamente a Facebook la diffusione delle proprie notizie; il ruolo
importante delle amministrazioni locali per creare infrastrutture della
comunicazione in grado di dare voce e quindi potere alle proprie comunità, in
un contesto dell'informazione polarizzato fra "global" e
"hyperlocal"...
Dalle molte e complesse suggestioni offerte dal libro esce il quadro di un
mondo della comunicazione tumultuoso e per alcuni aspetti contraddittorio, dove
le tradizionali coordinate di tempo e spazio - basi del concetto stesso di
notizia - perdono di significato, al punto che le tradizionali 5 w
diventano 6, dove la sesta sta per "while".
Un mondo in cui la storica distinzione di ruolo fra produttore della
notizia - il giornalista - e fruitore - il lettore - è annullata da
un'informazione che nasce dall' interazione e abbattimento della distanza
spaziale e temporale fra produttore e utilizzatore: il divorzio fra testimone e
giornalista, il matrimonio fra redattore e lettore.
Determinando una rottura netta rispetto alla tradizione, e
un'evidente discontinuità nel prestigioso ruolo sociale che la cultura degli
ultimi due secoli ha riservato al giornalista, i social network e
l'accelerazione della trasmissione dell'informazione impongono il passaggio,
come acutamente sintetizza Mezza, dal broadcasting, tipico del mezzo
televisivo e dei media di massa (che tende ad omogeneizzare e unificare -
processo da uno a tanti) al networking dell'universo digitale
(distinzione e diversificazione - da tanti a ciascuno).
Citando spesso Benjamin e Mc Luhan, Mezza dimostra d'altra parte che il
processo per cui i mezzi e le modalità del comunicare condizionano i linguaggi
e determinano i contenuti parte da lontano. L'attuale rivoluzione non è
determinata dalla tecnologia, ma da un'esigenza della società a cui la
tecnologia, come sempre nella storia, ha dato una risposta.
Dove sta allora il futuro della professione giornalistica? E
soprattutto, ha un futuro il giornalismo?La risposta è sì, a patto che il
giornalista viva la propria professione e professionalità in modo totalmente
diverso dal passato, non proponendosi come portatore della verità, ma come
regista di processi sociali nuovi, in cui la notizia nasce dalla e nella
condivisione della rete, aiutando gli utenti a non soggiacere al nuovo e
insidioso volto del potere: l'algoritmo semantico, che pretende di interpretare
volontà e bisogni della rete. Volontà e bisogni che invece devono rimanere ben
saldi nelle mani di quegli esseri umani che in definitiva "sono" la
rete.
Così, dice Mezza, qui sta il nuovo ruolo del giornalista: da "cane da
guardia" delle istituzioni, a " cane da guardia" dell'algoritmo.
Marisa Gardella
Michele
Mezza.
Giornalismi
nella rete. Per non essere sudditi di Facebook e Google
Donzelli,
Roma, 2015, 268 pp.
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