Il
titolo del libro di Paolo Pagliaro, Punto non è che l’incipt di un’analisi
approfondita che ha come obbiettivo quello di trovare basi solide per debellare
l’affezione, colpevole e colposa, alla disinformazione.
La
rete è il luogo virtuale nel quale l’informazione ha subito un drastico
mutamento. Il web è territorio fertile per l’ascesa di estremismi, per la
fomentazione dell’odio razziale, politico, religioso, sessuale. Ci troviamo in
un mondo che ha indirettamente accettato di far parte dello storytelling del
potere: disposto a restare una stringa di numeri e calcoli di mercato a
servizio dei colossi del Web.
La
costruzione del nemico e di situazioni nemiche che, seppur virtualmente,
riescono a permeare la realtà ed a concretizzarsi in atti di violenza; come
accaduto durante la campagna referendaria sulla Brexit, nel 2016. Joanne Cox,
deputata laburista, è stata assassinata da un neonazista, il quale al motto di “Britain
First”, ha giustificato il suo gesto come una missione di liberazione della
Gran Bretagna dai traditori.
La
smania del web di rispecchiare sempre le preferenze di ogni singolo utente,
illudendoli di lasciar loro libera scelta, quando, al contrario, gli utenti
stessi sono il prodotto finale; la fucina di idee per il marketing e per il
mondo pubblicitario. Staccare pian piano l’attenzione, bombardando con molti
stimoli la vista, già distratta da suoni e da immagini sempre più animate, al
fine di creare una sorta di bipolarismo sociale; creare dimensioni virtuali come
i social network che annullano le distanze e accorciano i tempi di contatto.
Esaltare
la qualità dell’immediatezza e deplorare l’attesa e la riflessione. Attendere è
sinonimo di pensare come pensare è sinonimo di attenzione e di concentrazione,
non solo su stessi ma su ciò che crea la realtà quotidiana in cui siamo
immersi. Il clima d’odio che cresce come addensante di correnti di pensiero, finisce
per agitare le menti nel ricercare, per compiacimento personale e riconoscimento
di gruppo, la cosiddetta disinformation o
peggio ancora missinformation. La verità
è diventata scomoda e non produttiva ai fini del “successo” webete. Ogni utente
diventa medico, insegnate, professionista e con un post, giornalista; quando
uno smartphone basta per padroneggiare il mondo e ricreare, al tocco di
Photoshop, l’immagine più gradita di noi stessi, tanto da divenire personaggio
dell’anno 2006 per il Times. Uno schermo a mo’ di specchio ci risucchia in copertina,
come Narciso che, innamorato di se stesso, cadde nel lago; a differenza sua non
diventiamo un fiore ma una semplificazione che ci vuole tutti “amici
sconosciuti” e che ci spinge a modificare il lessico e a diffidare di un
rispettoso “lei” al posto di un “tu”. Quel potere che non ha volto se non
quello di un capitale umano pronto a non conoscersi pur di essere conosciuto e
riconosciuto dagli algoritmi, prima ancora che dagli altri cittadini virtuali.
Quel progetto iniziale costruito con intelligenza collettiva e generosa è stato
trasformato in uno strumento di interessi economici e politici.
Come
sostiene Bernabè, la rete vive una libertà vigilata nella quale il vuoto
normativo mina la democrazia; se una volta la privacy riguardava la protezione
dei dati personali, oggi deve essere rivalutata come una protezione della
persona da condizionamenti indesiderati a cui suo malgrado è esposta. Tramontata
l’era degli dei omerici -dimenticando il potenziale comunicativo della
tecnologia di oggi a dispetto del medioevo in cui c’erano pochi libri ma almeno erano letti, come ricorda l’antropologo
Roberto Niola- la gente crea un legame conviviale con i potenti e siedono sul
trono di un’illusoria parità. Diventano sostenitori della comunicazione
politica dei loro leader; indipendentemente dalla veridicità di quanto
affermato, ciò che conta è la qualità della storia. Il desiderio di sognare,
quello stesso desiderio che finisce per renderci volontariamente schiavi di un
meccanismo capace di mettere a repentaglio persino la salute fisica. Basti
pensare alla campagna “No Vax”; quelle
non notizie che come sostiene Luca Sofri,
sono diventate notizie. Fake news che nonostante siano state smentite da fonti
scientifiche, continuano ad essere prese per buone, sviluppando una sorte di
credo religioso per cui si arriva al paradosso di dire “io credo/non credo ai vaccini”. L’assurdo piace e non a caso alcuni
blog politici, come il blog di Beppe Grillo, detentori a loro dire della nuova democrazia
diretta, diffondono quotidianamente notizie false o verosimili approfittando dell’analfabetismo
funzionale di cui, secondo l’Ocse, il pubblico italiano è maggiormente
“affetto”; ovvero la non abitudine a verificare le fonti, comprenderle e
valutarle. L’anticasta, tematica tipica del populismo, diviene uno slogan di
minimizzazione dei reali problemi di un Paese che fonda la sua credibilità sul
desiderio di una democrazia non mediata. I leader populisti promettono di tagliare
le distanze tra i palazzi del potere e la piazza, realizzando una fidelizzazione
al partito o meglio ancora a loro stessi, in un epoca in cui le ideologie forti
non esistono più ed a prevalere è l’incertezza. La politica è il leader e l’elettorato
è un pubblico di reclute il cui parere resta importante solo per la divulgazione
dei messaggi elettorali; pur non credendo nel messaggio del suo partito è
disposto a condividerlo e diffonderlo come un mantra. Notizie irreali, statistiche
fuorvianti e battute violente entrano nelle eco
chambre, dove falsità e verità abdicano per lasciare voce alle opinioni che
alimentano la propaganda. I media e in particolare la televisione, hanno la
loro fetta di responsabilità nell’uso semplicistico del linguaggio che una
volta era sinonimo di “paradigma della
superiorità” ed oggi è divenuto, secondo il linguista Giuseppe Antonelli,” rispecchiamento”. Se ieri si parlava
meglio di come si mangiava, oggi si parla come si mangia e cioè usando un linguaggio
ruvido, volgare, capace di perpetrare l’illusione che la sovranità popolare è tale
solo se il politico è “uno di noi”, solo se l’autorità abbandona quel sano
distacco, solo se si è consapevoli che niente può essere detto meglio di ciò
che è falso. Il falso presuppone la semplificazione e necessita solamente di un
bacino d’emozioni comuni che colpiscono i più deboli, riducendoli a capi
espiatori; il forestiero che entra nel Paese e pretende di imporre la sua
cultura e l’immigrato che porta via il lavoro ai tanti giovani italiani disoccupati.
Il tema “immigrazione”, stendardo delle campagne politiche sia di destra che di
sinistra; tematica affrontata in nome del patriottismo e farcita di frottole,
tutt’altro che innocue. Essa in realtà è un fenomeno complesso che ha due
aspetti; un aspetto mediatico, incline a far aumentare gli ascolti -anche
servendosi di immigrati pagati per testimoniare il falso come accaduto nella trasmissione
“Quinta Colonna”- e un aspetto silenzioso che nessuno è interessato a conoscere.
Il vero problema è che non siamo disposti a condividere la situazione con gli
altri paesi europei; non esiste un’Europa
matrigna ma esiste un mancato dibattito serio sull’accoglienza. I nuovi italiani hanno affrontato
tutt’altro che un’accoglienza a 5 stelle e di certo non sono loro ad aver tolto
le casette ai terremotati. La gente non vuole informarsi, preferisce tamponare
i propri timori armandosi di ruspe e distruggendo i valori dell’Europa che non
sono solo il rispetto della concorrenza di mercato ma anche valori di libertà,
tutela dei diritti umani, cooperazione tra stati diversi. Tutto questo è molto
più di una emojii postata in un commento; è libertà di informazione che nulla ha
a che vedere con il narcisismo di massa né con il narcisismo del potere e
tantomeno con le post-verità. La libertà di informazione dovrebbe garantire ad
ognuno la libertà di farsi un’opinione critica, e di guardare la realtà non con
gli occhi della politica ma con gli occhi propri. Se la televisione ci ha
coinvolti in una realtà sempre monitorata e sempre meno intima e riservata;
ecco che le fonti d’informazione dovrebbero tornare a esercitare il loro antico
mestiere di cani da guardia. Il mondo del giornalismo sembra ormai non esistere
più anche perché nessuno investe sulla buona informazione a causa dei costi
elevati. La notizia siamo noi; i giornali si trovano tra due fuochi, quello
della verifica delle informazioni e quello della tempistica di pubblicazione.
Spesso ci si concentra più sul timore di pubblicare una notizia bruciata
piuttosto che sulla veridicità di quest’ultima. Le rettifiche o le smentite, sempre
più frequenti, passano in secondo piano e non hanno la stessa risonanza della
prima pubblicazione. I giornalisti, secondo Pagliaro, dovrebbero tornare a occuparsi
in prima persona, ad esempio, dell’estremismo islamico che ha trovato terreno
fertile grazie alla visibilità ottenuta con i social media ed in particolare
con Twitter. Tornare ad occuparsi di terrorismo e delle sue dinamiche, come fecero
i giornalisti con gli ultimatum delle Brigate Rosse; per avere credibilità un
giornalista deve avere responsabilità e buona reputazione. Non tutti possono
essere giornalisti. Non basta avere un blog su World Press, piattaforma su cui
ne fiorisce uno ogni 5,7 secondi. Essere giornalisti vuol dire avere una morale,
un etica; vuol dire, come sostiene Matteo Finotto, essere consapevoli di avere dieci
secondi a disposizione per catturare l’attenzione del lettore e che se si
fallisce, il lettore passerà con un clic ad un’ altra notizia, più ad effetto. Catturare
l’attenzione e allo stesso tempo dare informazioni veritiere, attinenti alla
realtà dei fatti. Il trasformismo del web e la sua non mediazione porta alla demagogia,
al trionfo dell’irresponsabilità al “dar voce non alla testa ma alla pancia”.
Il
premio Nobel Herbert Simon sosteneva, nel 1971, che l’informazione consuma
attenzione e che quindi l’abbondanza di informazione genera povertà di
attenzione. Secondo Luca De Biase, l’attenzione diventa una merce che, a
discapito della consapevolezza individuale, viene sfruttata da una scrittura
ipnotica colma di promesse volte a distrarre, fino a diventare la prima idea
che viene in mente. Solo con la conoscenza l’informazione crea un ecosistema
sano e scardina quella che Marshall Mclhuan definì “costante attenzione parziale”.
Lo storytelling non fa altro che creare questo circolo vizioso tra
riconoscimento ed esaltazione, garbage in,
garbage out; quel rumore tipico delle pubblicità volto a quegli eterni
fanciulli che sono gli elettori o comunque gli utenti. Una realtà che rasenta i
tratti della docufiction dove non si riesce a comprendere dove finisce la
finzione e dove inizia la narrazione reale dei fatti. Se fossimo consapevoli di
questo inganno mediatico, potremmo rivendicare il diritto alla disconnessione. De Biase propone la creazione di zone
franche utili alla riflessione, dove ogni persona possa staccare la sua
attenzione dallo smartphone, dalle mail e dalle notifiche; oggi che la tecnologia
corre veloce non c’è più il tempo per soluzioni lente ma occorre fare forza
sulle proprie capacità di distacco e diventare padroni della tecnologia. Essere
consapevoli e sviluppare quel crap detector,
ovvero quel sensore di boiate, capace di riconoscere immediatamente una notizia
falsa. Leggere e attribuire un senso a ciò che si legge; cercare di non provare
disagio nel pensare e andare oltre la comodità delle opinioni, come sosteneva Kennedy.
Essere critici e porre domande; guardare oltre il territorio nazionale,
interessarsi alle questioni estere, non solo quelle vaticane. E’ possibile
arrestare questa frammentazione esterna e interna agli individui; più siamo
isolati in noi stessi e più il potere riesce a controllarci. Le proposte per interventi
repressivi ci sono state ma tutte hanno suscitato polemiche. Paolo Attivissimo,
noto debunker, ha parlato della
possibilità di sviluppare un sistema che consente agli utenti di sapere immediatamente
se la notizia che stanno leggendo è considerata attendibile; un sistema di
etichettatura delle notizie che può essere esteso a tutta la comunicazione
digitale. L’idea di multare i siti che ospitano notizie non veritiere risulterebbe
inutile in quanto sarebbe trascurabile qualunque sanzione per i colossi “Over the Top” come Facebook. Un modo
per disciplinare il web e disincentivare la pubblicazione di notizie false può
essere quello del ritiro della pubblicità da quei siti che devono la loro popolarità
alla sistematica falsificazione dei fatti. Tornare alla reputazione come valore commerciale, comprendendo che il vero
mercato non è propriamente quello delle fake news quanto quello del mistero, delle
emozioni e del pensiero magico. Noi utenti possiamo adottare le seguenti
accortezze: a) Seguire i siti di fact checking ; b) Non fidarci di siti con
nomi bizzarri e domini strani; c) Controllare la sezione “About” dei siti e
verificare la presenza della testata su Wikipedia; d) Verificare se la storia
in questione è stata ripresa anche da altre testate o siti; e) Verificare la
presenza di una fonte ed il nome dell’autore; f) Controllare la data di pubblicazione
e ricordare che esiste la satira e che molti di questi siti adottano, in forma
alterata ma con stesso stile grafico, i nomi di testate famose.
Il
buon giornalismo, quindi, non si basa solo sul citizen journalism; occorre che i giornalisti tornino all’onestà con
coraggio e orgoglio professionale. Questo, secondo Pagliaro, è l’unico modo per
debellare l’epidemia di disinformazione che ha investito i media.
Federica
Frasconi
Paolo Pagliaro,
Punto. Fermiamo
il declino dell’informazione,
Il Mulino,
Bologna, 2017.
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