“Di confini non ne ho mai visto uno.
Ma ho sentito che esistono nella mente di alcune persone”. Questa citazione
attribuita all’esploratore norvegese Thor Heyerdhal si sposa in maniera
eccellente con la questione etica affrontata da Marco Binotto, Marco Bruno e
Valeria Lai nel libro Tracciare confini. L’immigrazione nei media italiani (edito da Franco Angeli, 2016). Confini che vengono subdolamente tracciati dai
mezzi di comunicazione di massa, nel tentativo di descrivere i fenomeni migratori
nel nostro paese. Confini che inibiscono la capacità del lettore di comprendere
compiutamente le dinamiche dei processi migratori. Confini che dividono noi
da loro. Gli autori propongono alcuni spunti di riflessione attraverso,
tra gli altri, varie indagini da loro condotte tra il 2008 e il 2012 sulle
principali testate di informazione italiane, con l’obiettivo di fare chiarezza
sui problemi scatenati dalla rappresentazione pubblica dei fenomeni migratori.
Il risultato è un testo chiaro e interessante, decisamente utile per
comprendere gli effetti di una comunicazione ambigua.
I media
vestono un ruolo da protagonista nella rappresentazione dei fenomeni migratori,
incidono sull’agenda politica e verso le opinioni dei cittadini. L’approccio
giornalistico al tema immigrazione, però, non considera quei valori di
obiettività propri del codice deontologico che sono necessari per
un’informazione neutra. Attraverso un uso della lingua colmo di metafore, icone
e simboli, attraverso una gerarchizzazione e una selezione mirata delle
notizie, i media italiani offrono un’immagine deviata del fenomeno in questione
che viene puntualmente sfruttata da una politica interessata a porre sempre
nuove questioni in agenda. Rappresentazione sociale dell’alterità che si
contrappone a una rappresentazione sociale della realtà, per usare due
termini presenti nel volume. La tendenza dei media è quella di offrire
un’immagine alterata nelle forme e nelle dimensioni, concentrandosi sui
dettagli negativi del fenomeno. Questo porta ad avere un’immagine immobile, “un
fotogramma fermo da quasi quaranta anni su un fenomeno in perenne movimento”. Gli
autori ci mostrano come il giornalismo italiano si sia dedicato quasi
esclusivamente alla parte problematica, quella “legata al vocabolario del
delitto, alle sue emozioni e ai suoi dolori, al terrore di essere invasi e al
timore del degrado”; questo ha portato all’inevitabile risultato
dell’immigrazione vista come “problema da risolvere”. Analizzando le notizie
dei vari siti d’informazione è evidente come il termine immigrazione sia troppo
spesso affiancato a fatti violenti: il crimine dell’immigrato fa notizia. Come
possiamo allora avere una buona informazione, se la cronaca tralascia alcuni
aspetti delle vicende e si concentra solo su quelli negativi?
Altra
riflessione che vien spontanea riguarda l’integrazione dello “straniero”. I
processi sociali e culturali necessari per formare uno spirito collettivo di
inclusione trovano numerosi ostacoli, non avverranno mai completamente finché
non cambia l’opinione pubblica riguardo il fenomeno dell’immigrazione. Il
problema fondamentale è proprio questo: in Italia non potrà esserci un’idea
positiva di integrazione nell’assetto culturale del paese se non mutano le
modalità di comunicazione. La prassi giornalistica comune è quella di
descrivere lo straniero come una minaccia per l’economia, per la sicurezza, per
lo status di società civile; questo anche a causa di violazioni deontologiche
ricorrenti: manipolazione di dati, utilizzo senza troppe distinzioni di termini
come “extracomunitario” o “rifugiato”, sovra-rappresentanza della “devianza
immigrata”. Le analisi degli autori parlano chiaro: l’immagine dell’immigrato è
associata a quella del criminale, e questo non può che ostacolare il processo
di integrazione. Processo che può nascere solo con una conoscenza più approfondita
della questione, che presti attenzione anche alle dinamiche e ai dettagli che
si nascondono dietro la superficiale e distorta immagine che viene proposta dai
media. Siamo di fronte ad un problema di comunicazione, piuttosto che di
immigrazione.
Il lavoro
proposto da Binotto, Lai e Bruno in questo volume suona come un j’accuse
rivolto ai giornalisti e, più in generale, a tutti i mezzi di comunicazione di
massa. Le routine giornalistiche, le dinamiche della cultura professionale, la
competizione tra testate, le relazioni con le fonti (soprattutto nella cronaca
nera), sono solo alcuni degli aspetti che incidono negativamente sul lavoro dei
giornalisti, e questo non può che gravare la condizione di trasparenza che
l’informazione dovrebbe avere. Non è, quindi, un’accusa di complotto verso i
giornalisti, ma solo un’analisi su come le dinamiche di creazione delle notizie
portino i media a plasmare una realtà distorta. Per risolvere questi problemi
di ricostruzione di una pseudo-realtà, gli autori propongono una soluzione
tanto semplice da sviluppare quanto difficile da mettere in atto: ci vuole
maggiore responsabilità. Uno spirito di cronaca responsabile da parte dei
media, da una parte, e una visione critica delle notizie, da parte dei lettori,
dall’altra. Viviamo in un mondo sempre più interconnesso, che ci offre
grandissime possibilità di conoscenza, ma non riusciamo a sfruttare
completamente queste opportunità per migliorare qualitativamente i contenuti
dell’informazione. Piuttosto che incrementare la quantità di notizie, i media
dovrebbero soffermarsi a raccogliere più dati e dettagli possibili per offrire
una visione più accurata delle vicende che vogliono raccontare. Non è
sicuramente semplice, ma questo potrebbe facilitare uno sviluppo culturale e,
di conseguenza, un’apertura ideologica dell’opinione pubblica verso il tema
dell’immigrazione. Forse, così facendo, il concetto di integrazione, prima o
poi, entrerà a far parte dell’assetto culturale del nostro paese. Forse, quel
giorno, non vi saranno più confini a dividere noi da loro.
Gerardo
Baldassarre
Marco Binotto, Marco Bruno, Valeria
Lai
Tracciare confini. L’immigrazione nei
media italiani
Franco Angeli, Milano 2016
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