Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

_________________

Scorrendo questa pagina o cliccando un qualunque suo elemento acconsenti all'uso dei cookie presenti nel sito.



30 dicembre 2010

Il paradosso di una riservatezza fittizia

Il privato ha senso solo se inserito in una dimensione pubblica. E’ la strana deriva della società italiana di oggi, il paradosso di una riservatezza fittizia che si realizza appieno nel suo rendersi visibile, fruibile.
I fatti di cui ogni giorno siamo informati sono una minuscola frazione della totalità dei fatti che avvengono. E un fatto che non viene mediatizzato è come se non esistesse, o almeno questa è l’impressione che ricaviamo dai mezzi di comunicazione. Allo stesso modo, una persona che non trova spazio nel mondo mediatico può temere di non esistere. Ne sono una prova l’affollamento dei social network come Facebook, il proliferare dei blog, il successo di YouTube.
Sembra che nessuno di noi sia più in grado di vivere senza mettersi in scena. Sembra che si possa prendere sul serio solo ciò che passa per la televisione. Come si è arrivati a questa situazione paradossale?
Anna Tonelli nel suo saggio Stato spettacolo, risponde a questa domanda prendendo in esame il rapporto tra pubblico e privato nel panorama italiano degli ultimi trent’anni. Un’analisi inedita su un tema di forte attualità, condotta con chiarezza espressiva e argomentativa.
Lo Stato spettacolo è uno Stato che si mette in vetrina. Il vissuto individuale e collettivo viene spettacolarizzato, il confine tra dimensione privata e dimensione pubblica diventa sempre più labile. Ed è una trasformazione che coinvolge ambiti diversi e interrelati, dalla società all’etica, dalla comunicazione alla politica.
A rendere apparentemente illogico questo processo è il punto di partenza: l’individualismo che si afferma all’inizio degli anni Ottanta. Da un lato si esaurisce la stagione della partecipazione attiva alla vita del Paese. Forse per effetto di una politica incapace di innovare, ci si rifugia nel privato. Dall’altro lato la ripresa economica consente ai consumi di crescere e il benessere diventa l’obiettivo da raggiungere.
La cultura del lusso si trasforma facilmente in ostentazione: ecco il passaggio affatto logico da individualismo a spettacolarizzazione. Ed è un processo che, pur nascendo nella sfera economica, si espande in ogni altro ambito della vita individuale e collettiva.
Cambia il modo di percepire il corpo: la “bella presenza” diventa requisito di affermazione sociale. Si trasforma il modo di vivere i propri sentimenti e la sessualità. Tutto ciò che rientra nella sfera strettamente personale diventa oggetto di consumo, ne sono un esempio le più recenti vicende di cronaca nera. Il privato irrompe nei media.
I partiti assumono un ruolo determinante nel rilanciare la socialità. Per primo il PSI guidato da Craxi comprende appieno la portata e le potenzialità della trasformazione in atto. Si spalancano le porte alla spettacolarizzazione e alla personalizzazione della politica: l’immagine diventa il cuore della comunicazione con il pubblico e la televisione dà un contributo essenziale a questa tendenza.
Gli anni di Tangentopoli spingono i leader politici a cercare nuove forme di dialogo con il Paese, per recuperare un senso di appartenenza. Si pensi al celodurismo di Bossi o alla telepolitica di Berlusconi.
I confini tra privato e pubblico oggi sono così sovrapposti da confondersi: l’esibizione del privato diventa strumento di costruzione della propria identità e la comunicazione politica si adegua. La famiglia diventa un bene da esporre, o da occultare quando deve prevalere la componente sessuale, e temi sempre più legati al privato, dalle unioni civili all’aborto, diventano oggetto di discussione in Parlamento. I valori dello Stato spettacolo sono elevati all’ennesima potenza.
L’analisi di Anna Tonelli scorre fluida e lineare. Il ragionamento è condotto in modo tanto lucido che, a lettura conclusa, si ha l’impressione di aver afferrato il meccanismo che sta dietro alla spettacolarizzazione del privato, spesso spacciata per informazione, comunicazione, o aggregazione sociale.
Elisa Mallegni




Anna Tonelli

Stato spettacolo. Pubblico e privato dagli anni ’80 a oggi
Milano, Bruno Mondadori, 2010, 183 pp.


____

25 dicembre 2010

Siamo fatti anche di stelle

"[...] Se potessi evocare uno tsunami morale, gli chiederei di spazzare dalle nostre viscere il vittimismo e l’egocentrismo, in virtù dei quali ci riteniamo continuamente vittime di ingiustizie e di complotti, come se il mondo non avesse altro da fare che pensare a noi, salvo poi lamentarci proprio di questo: che il mondo non pensa abbastanza a noi. Ogni tanto bisognerebbe ricordarsi che siamo fatti di fango ma anche di stelle, che siamo cittadini e non sudditi, che la vita dipende in larga misura dalle nostre scelte personali e non da quelle della politica. Che ogni Io fa parte di un Noi e che il Noi non è solo la nostra famiglia, ma le tante comunità a cui decidiamo di aderire. Che se una cosa è pubblica appartiene a tutti, non a nessuno. E che per ogni porta che si chiude c’è sempre una finestra che si sta aprendo da qualche altra parte. A volte basta smettere di piangere e asciugarsi gli occhi per riuscire a vederla."
Massimo Gramellini

*M. Gramellini, Uno tsunami morale per risalire, "La Stampa", 24 dic. 2010.

_____




19 dicembre 2010

La notizia la facciamo noi?

Il libro di Enrico Caniglia, partendo da un approccio prettamente sociologico, ci offre un nuovo punto di vista: quello di guardare alle notizie non solo come a fatti in sé, ma in base a come le interpretiamo. E, quindi, al perché della nostra interpretazione comune.
Ovviamente, gli spunti critici coi quali esaminare una notizia sono molteplici, ma come spesso accade quello che ci sembra più ovvio, sfugge.
Infatti, partendo dal presupposto della neutralità ed oggettività giornalistica, scopo principale del giornalista,  è quello di farsi capire in maniera immediata dai lettori, ma la domanda che ci pone Caniglia è: come si produce l’informazione e come la riconosce, in quanto tale, il pubblico?
L'autore ribalta la tesi secondo la quale sono i media a produrre il senso comune, sostenendo esattamente il contrario: è il senso comune a rendere possibili i fenomeni mediatici.
Per far questo si avvale dell’etnometodologia, ovvero lo studio dei metodi della gente che costituiscono il senso comune: ovvero, il saper fare, l’ insieme di attività, azioni, procedure e competenze che sono comuni ad una certa società di un certo periodo.
Come viene usato quindi tutto questo all’interno di una notizia dal giornalista? Come, quello che viene scritto ed ancora più ascoltato, viene compreso dal pubblico in base all’interpretazione del senso comune? Siamo noi che in qualche modo “creiamo” la notizia in base ai nostri stereotipi sociali?
E’ questo il punto sul quale riflettere.
Quando leggiamo una notizia, la interpretiamo, la comprendiamo in base a quello che è il nostro vissuto comune di azioni, significati eccetera; ogni parola nella notizia acquista un significato diverso solo in base al contesto del suo uso e ha quindi un peso nel costituire il significato della notizia, nell’insinuare supposizioni, nel lasciar spazio ad interpretazioni comuni.
Ribaltando l’accezione classica secondo la quale “la notizia è la semplificazione di un evento” Caniglia suppone invece il contrario, in quanto la stessa semplificazione può trasformarsi in distorsione della notizia. Ecco quindi che la notizia è la descrizione particolare di un evento; descrizione che avviene attraverso l’uso di parole che appartengono alle c.d “categorie di appartenenza” e che, a seconda del loro uso, evocano significati diversi.
La stessa esistenza di un senso comune che presuppone un mondo normale, condiviso e ovvio, fa dell’evento drammatico, diverso e nuovo, la NOTIZIA; notizia che induce nel lettore, il bisogno di una spiegazione al fatto insolito e diverso.
La scelta, quindi, dell’uso delle diverse categorie di appartenenza non è mai casuale come potrebbe sembrare ad una prima occhiata, bensì è frutto di una scelta del giornalista che, a sua volta, si ricollega a molti fattori: la verità infatti è molteplice e può essere raccontata, seppur sempre in modo trasparente, da diversi punti di vista.
La selezione delle categorie ha a che fare quindi con criteri di pertinenza rispetto alla descrizione che voglio dare della notizia; se la notizia è la descrizione di un fatto, bisogna vedere come voglio raccontare questo fatto.
Ecco quindi che viene introdotta una nuova interpretazione da Caniglia, “la notizia come storia”, che riguarda i fatti della vita quotidiana che meritano di essere raccontati e spiegati. Ma come un fatto diventa notizia? Sicuramente occorre tenere sempre presente quelle che sono tutte le regole e i passaggi propri del processo di notiziabilità, ma possiamo aggiungere un nuovo elemento, quello di costituire un “evento”, un qualcosa di insolito che differisce e si discosta da tutto quell’insieme di conoscenze che sono appunto il nostro senso comune.
Gli esempi ovviamente, possono essere moltissimi e ripresi su qualsiasi quotidiano o fonte di informazione, a partire dai titoli che spesso generano un modo di comunicare sequenziale (causa/effetto) e costituiscono già una mini-storia.
C’è poi un altro spazio, gli editoriali, in cui l’uso delle categorie assume diverso significato; l’editoriale è lo spazio riservato ai commenti (ai views) che spesso vengono anche firmati da penne illustri e che riportano alle vecchia dicotomia tra fatti e opinioni.
L’editoriale esprime un’opinione e quindi, fornisce un’interpretazione del fatto che, alla luce della teoria di Caniglia, consiste nel spostare l’evento da una categoria all’altra.
Ovviamente questo è solo un nuovo punto di partenza, un viaggio nella lettura dei quotidiani che può diventare ogni volta un esercizio diverso attraverso l’applicazione di un criterio piuttosto che un altro; quello che Caniglia ci offre è la possibilità di avere un nuovo punto di vista, di utilizzare un approccio empirico per leggere le notizie e farci riscoprire anche tutto quello che implicitamente è già “dentro” di noi e che spesso inconsapevolmente, guida i nostri giudizi e le nostre opinioni.
Luisa Gulluni



Enrico Caniglia
La notizia, come si racconta il mondo in cui viviamo
Roma-Bari, Laterza, 2009, 194 pp.


____

18 dicembre 2010

In libreria

Gianni Perrelli
Il mestiere di inviato.
Guida alla più affascinante delle professioni giornalistiche
Roma, Gremese, 2010, 128 pp.
Descrizione
Che vita è quella dell’inviato? Un’esistenza sicuramente in balia degli eventi più che della propria volontà, ma estremamente eccitante nella sua totale anormalità, a patto che sia sorretta da passione, curiosità e dedizione. In questo volume, Gianni Perrelli mette in luce tutti gli aspetti della professione – dalle tecniche di raccolta delle notizie e di scrittura alla costruzione delle interviste, dalla gestione delle corrispondenze dalle grandi capitali al difficile accesso ai paesi più chiusi, dalla febbre dello scoop alla prudenza consigliabile negli scenari estremi –, rispondendo ai più naturali interrogativi dei lettori sui segreti e i rischi di un mestiere spesso invidiato ma perlopiù poco conosciuto. Nato dall’esperienza di un giornalista che da anni racconta il mondo all’Italia, Il mestiere di inviato è una guida seria ed esaustiva al lavoro di reporter e al suo ruolo nell’informazione, indispensabile per tutti coloro che vogliono imparare la professione da chi la vive quotidianamente.

16 dicembre 2010

Non credere sempre a chi ti dà notizie

Noli tu quaedam referenti credere
semper: exigua est tribuenda fides, qui multa locuntur
"Non credere sempre a chi ti dà notizie:
bisogna avere poca fiducia in chi parla molto"
(Catone, distico 2,20)


Si materializzano dal nulla e si propagano alla velocità della luce. La loro diffusione è incontrollabile, le loro conseguenze imprevedibili. Sono le dicerie, il flatus vocis della maldicenza. Semplicissimi da divulgare, una volta messi in circolo i rumors sono quasi impossibili da gestire: chi ne è vittima rischia addirittura di rafforzare il loro potere persuasivo, qualora cercasse di smentirli. Il politologo americano Cass P. Sunstein, nel breve e acuto saggio (Voci, gossip e false dicerie), spiega la genesi e la diffusione virale della patologia comunicativa dei rumors con diligenza scientifica e un taglio spiccatamente giuridico.
La diceria è una notizia di cui non è attestata la veridicità, un pettegolezzo che può nascere con buone o cattive intenzioni e può essere messo in circolazione a seconda del proprio interesse personale. Ma perché le persone danno credito a queste dicerie, per quale motivo ci sono gruppi più sensibili di altri a certi rumors, e soprattutto, come è possibile difendersi dagli effetti devastanti delle voci false? Sunstein, nelle novantasette pagine del saggio, cerca di svelare i segreti di Fama, la personificazione virgiliana della maldicenza che tutto vede e tutto spiffera coi suoi cento occhi e le sue cento maligne bocche. L’analisi del politologo risulta assai chiara ed efficace perché è radicata nella contemporaneità: gli esempi tratti dall’attualità della politica e delle relazioni internazionali rendono lampante la saldatura fra teoria e prassi; questo nesso strettissimo rivela tuttavia l’amarezza di una realtà messa in ginocchio dalla proliferazione irrefrenabile delle notizie false. Di fronte alla loro potenza emerge tutta la fragilità del raziocinio umano, ed ecco che l’autore si sofferma a esaminare il processo attraverso cui le persone giungono a dare credito ai rumors. Le convinzioni pregresse, i fattori emotivi, il grado di fiducia nelle informazioni che si possiedono, sono tutti elementi che influiscono sulla nostra capacità di giudizio,e quindi sulla nostra sensibilità all’ascendente delle dicerie. Il timore di sentirci inadeguati, la vergogna di essere considerati dal nostro gruppo dei pari ignoranti o poco attenti a ciò che accade intorno a noi, producono come effetto l’adeguamento conformistico a notizie, magari false, riportate da persone in cui riponiamo la nostra fiducia. Le dicerie si espandono a macchia d’olio attraverso diversi meccanismi, come le cascate informative e le polarizzazioni, e le persone, soprattutto quelle poco informate, cedono alla tentazione di credere alle voci di corridoio, che seppelliscono il senso critico in fondo alla coscienza, sopendo la sua già flebile voce.
Tutti, specialmente nell’era di internet e delle tecnologie di comunicazione in tempo reale rischiano di vedersi danneggiati dalle calunnie. I motori di ricerca, i blog, i forum e i siti in generale veicolano notizie di dubbia provenienza e di non comprovata veridicità, e in questa realtà virtuale è sempre più difficile proteggere la propria privacy. Si staglia all’orizzonte il dibattito già illuministico sull’incerto limen tra pubblico e segreto, tra libertà e sicurezza. In queste sabbie mobili è difficile, e spesso controproducente, cercare di porre un limite a questo fenomeno. Il chilling effect, cioè il timore di incappare in sanzioni civili o penali per avere espresso le proprie idee, può limitare calunnie devastanti, con il rischio però di imprigionare il libero pensiero. Il saggio si conclude con le proposte dell’autore per conciliare le conoscenze sulle trasmissioni delle dicerie con i termini delle leggi.
Dalle pagine di Sunstein traspaiono fondamentalmente il diritto e il dovere assoluti di tenersi informati, che confluiscono in una responsabilità personale precisa e stringente nel momento della divulgazione delle notizie: occorre forgiarsi una capacità di giudizio critico che permetta di discernere tra ciò che è vero e ciò che è falso, senza lasciarsi condizionare e abbindolare a priori dalle opinioni altrui.
Marta Paonessa



Cass R. Sunstein

Voci, gossip e false dicerie.
Come si diffondono, perché ci crediamo, come possiamo difenderci
Milano, Feltrinelli, 2010, 108 pp.




___

14 dicembre 2010

In libreria

Ennio Flaiano
Lo spettatore addormentato a cura di Anna Longoni
Milano, Adelphi, 2010, 267 pp.


Scheda
Chiunque si sia appisolato a teatro o durante un concerto – sostiene Flaiano – sa bene che è nel passaggio dalla veglia al sonno che «la rappresentazione o la melodia o il dialogo si liberano da ogni scoria»: in quei brevi istanti, insomma, si ha «lo spettatore perfetto». In realtà, nella sua lunga attività di critico teatrale, Flaiano è stato uno spettatore tutt’altro che ‘addormentato’: appassionato, semmai, vigile e sferzante. Come quando irride il repertorio blandamente ameno ed ‘evasionista’ dei primi anni Quaranta, denso «di buoni sentimenti, di gioia di vivere e di grossi stipendi», e così rispondente ai desideri del pubblico che – profetizza – «non è lontano il giorno in cui le commedie, all’Eliseo, sarà lo stesso pubblico a scriverle e a rappresentarle». E nel 1943 scriverà veemente: «Amo Shakespeare, Calderón, Molière che hanno lasciato centinaia di opere tuttora vive ma ammiro quei loro spettatori che pretesero opere tanto perfette con il loro enorme e sapiente appetito». Il fatto è che in un Paese dove è lecito essere anticonformisti solo «nel modo giusto, approvato», Flaiano è riuscito a esserlo sino in fondo, caparbiamente: che recensisse la Salomè di Carmelo Bene, il Marat-Sade messo in scena da Peter Brook o Ciao Rudy di Garinei e Giovannini. Senza mai dimenticare la vocazione satirica: dalla Piovana di Ruzzante a una rivista musicale di Terzoli e Zapponi, ogni spettacolo è un’occasione per appuntare il suo sguardo micidiale sulla nostra società, dove «l’uo­mo medio sente molto il ridicolo degli altri e pochissimo il ridicolo di se stesso», e «la mediocrità di un personaggio, purché largamente diffusa, suscita ammirazione». Talché la conclusione, folgorante nella sua preveggenza, non può essere che questa: «Ab­biamo sostituito la pubblicità alla morale».
*segnalato da C.S.

____




13 dicembre 2010

In libreria

Pasquale Aurelio Pastorino
Va là che vai bene. L’emigrazione da Masone e dalla valle Stura verso l’America tra Ottocento e Novecento

Genova, Red@zione editore, 2010, 242 pp.

 
 
Il libro di Pasquale Aurelio Pastorino sarà presentato Lunedì 13 dicembre, alle ore 17, nella sala incontri del palazzo della Regione Liguria (piazza De Ferrari, 1).  Saranno presenti, oltre all’autore, Paolo Ottonello, Sindaco di Masone; Enrico Vesco, Assessore regionale alle Politiche dell’immigrazione e dell’emigrazione.


____

10 dicembre 2010

In libreria

Vittorio Feltri, Stefano Lorenzetto
Il Vittorioso. Confessioni del direttore che ha inventato il gioco delle copie
Venezia, Marsilio, 2010, 264 p.


Scheda
Chi è davvero Vittorio Feltri, in assoluto il direttore che negli ultimi anni ha fatto più parlare di sé, l'unico capace di trasformare ogni sua avventura professionale in un successo di mercato? In che modo riuscì a raddoppiare le vendite del «Giornale» dopo che Indro Montanelli l'aveva lasciato nel 1994? E perché trascorsi tre anni se ne andò a sua volta sbattendo la porta? Qual è il motivo per cui nel 2009 vi è ritornato? Ha applicato una ricetta segreta per salvare testate in crisi, come «L'Europeo» e «L'Indipendente», o per imporne di nuove in edicola, come «Libero»? C'era un unico modo per rispondere a questi e a molti altri interrogativi: costringerlo a raccontarsi nel suo stile scabro e privo di infingimenti. È quanto ha cercato di fare il miglior intervistatore italiano, Stefano Lorenzetto, che di Feltri è stato vicedirettore vicario al «Giornale». Ne è uscito un dialogo serrato, ricco di particolari inediti, in cui il famoso giornalista svela i retroscena delle sue dirompenti campagne di stampa (da Affittopoli ai casi Boffo e Fini-Tulliani), narra splendori e miserie del «Corriere della Sera», distilla giudizi su politici e colleghi, parla dei giornalisti che ha amato di più (da Nino Nutrizio, che lo assunse alla «Notte», a Oriana Fallaci, che una notte si fece viva con lui dall'aldilà). E soprattutto, per la prima volta, si mette a nudo, svelando i suoi dubbi, i suoi tormenti, le sue idiosincrasie, i suoi affetti privati.






08 dicembre 2010

In libreria

G. Piero Jacobelli
Babele o della traduzione. Per un nuovo modello della comunicazione comunicante
Milano, Franco Angeli, 2010


Descrizione
Babele ha turbato i sonni di molte generazioni di studiosi, tutti convinti che in quel momento della storia sacra fosse successo qualcosa di decisivo, ma divisi dalla valutazione di quanto fosse davvero successo: una tragedia per l'umanità, da allora dispersa e divisa, o il riscatto dell'umanità da un pensiero unico, che non le avrebbe consentito quella ricchezza espressiva da cui scaturisce la creatività dei complessi, ma sollecitanti, incontri tra culture. Questo saggio, maturato nell'ambito della comunicazione didattica, prende partito per questa seconda ipotesi, impegnandosi a suffragarla mediante una rilettura incalzante dei testi dell'Antico Testamento e di quelli in cui, dal Medio Evo a oggi, la molteplicità linguistica è tornata a porsi come problema. Il racconto babelico acquista così un inedito spessore estetico ed etico, configurando il momento memorabile in cui s'impone agli uomini il valore della differenza in una prospettiva di riconoscimento delle molteplici verità e di quanti le incarnano, che traduce la riflessione filologica in una riflessione filosofica sulla comunicazione: in particolare, sui modelli della comunicazione proposti di tempo in tempo nel corso del Novecento.

Nella lingua universale della musica

Ieri sera il direttore d'orchestra Daniel Barenboim - maestro scaligero - ha inaugurato la tradizionale stagione del Teatro La Scala di Milano ricordando l'art. 9 della Costituzione italiana:
«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
L'evento è ricco di significati. Daniel Baremboin da sempre, in ogni ambito, ricorda che la musica è la "lingua" dell'intera umanità, senza distinzioni di razza, di religione, di ideologie. Ieri nel luogo più solenne della storia della musica ci ha ricordato che la cultura è nutrimento, diritto tutelato dalla Nostra Costituzione. La cultura è Civiltà e la tutela dell'istruzione e della ricerca  ne garantiscono il cammino, di generazione in generazione.

06 dicembre 2010

In libreria

Armando Fumagalli - Gianfranco Bettetini
Quel che resta dei media. Idee per un'etica della comunicazione

Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 416.
Scheda
A più di dieci anni dall'uscita della prima edizione del volume (nel 1998), gli Autori ripropongono una sintesi sugli aspetti più profondi e umanamente più rilevanti del panorama dei media. L'esplosione dei reality show, la diffusione delle serie televisive americane, la frantumazione del consumo audiovisivo e l'emergere di nuove forme di intrattenimento sono solo alcune fra le principali questioni che il primio decennio del Duemila ha posto agli studiosi e che sono state affrontatte in questa nuova edizione. Una riflessione autorevole e documentata, chiara ed equilibrata - senza però rinunciare a prendere posizioni anche scomode su temi rilevanti e controversi - sulle principali questioni antropologiche ed etiche messe in gioco dai mezzi di comunicazione di massa. Il volume si rivolge quindi non solo agli studiosi del settore e ai professionisti della comunicazione, ma anche a tutte quelle persone - insegnanti, educatori, psicologi, sociologi, ma anche responsabili di associazioni familiari, genitori, operatori culturali, responsabili di cineforum, ecc. - che hanno a cuore a diverso titolo l'impatto umano di quello che il panorama mediale in cui siamo immersi ci offre. I capitoli del libro mettono a frutto le migliori acquisizioni dei più recenti studi di etica filosofica e di analisi dei media per una riflessione sui valori e i modelli di vita che vengono proposti da televisione, cinema, stampa quotidiana e periodica e sui loro prevedibili esiti - "quel che resta dei media" - nella vita delle persone e, di riflesso, della società.
*link all'Indice del libro.




05 dicembre 2010

In libreria


Massimo Onofri
Il secolo plurale
Roma, Avagliano, 2010, 312 p.



Scheda
Se c’è un secolo che è stato davvero plurale – nei valori e nei disvalori, nelle idiosincrasie, nelle opzioni culturali e stilistiche – questo è stato il Novecento. Un secolo tutt’altro che breve e che, culturalmente e ideologicamente, non è mai finito di finire. Un secolo che, se ha celebrato la letteratura nella sua autonomia categoriale, della letteratura ha dovuto constatare invece tutte le compromissioni con le nuove scienze umane, tutte la sua impurità. Un secolo che, nonostante gli infiniti parricidi, continua a proiettare la corrusca luce dei suoi padri fondatori sul nostro presente. Di tutto questo, in una scrittura elegante e nervosa, ellittica e risentita, Massimo Onofri ha fatto appassionato e originale racconto: narrando idee e movimenti come fossero personaggi, e le persone e i personaggi come fossero idee. Racconto che, proprio là dove più pare crescere dentro la sua narrativa fiamma, non rinuncia ai doveri, che restano sempre gli stessi, d’ogni vera e nuova storia letteraria.
*segnalato da C.S.

____




03 dicembre 2010




01 dicembre 2010

In libreria

Giovedì 2 dicembre 2010 ore 17:30
Presentazione del libro di Enrico Pedemonte, giornalista de L'Espresso, con la partecipazione di Piero Ottone e Carlo Rognoni. E' prevedibile che il dibattito sia aperto alle nuove dinamiche dopo la clamorosa incursione di Wikileaks nell'universo mediatico.  


___

Enrico Pedemonte
Morte e resurrezione dei giornali. Chi li uccide, chi li salverà
Milano, Garzanti Libri, 2010, 237 pp.
Descrizione
Per Hegel "il giornale è la preghiera del mattino dell'uomo moderno". Oggi però la stampa sembra attraversare una crisi irreversibile: riviste e quotidiani chiudono, le redazioni vengono decimate dalle ristrutturazioni, i ricavi della pubblicità continuano a calare. Le cause sono diverse: l'avvento dei nuovi media, la gratuità della rete, i giovani che leggono sempre meno i quotidiani... Tuttavia un'informazione libera, indipendente e di qualità, che sappia svolgere anche il ruolo di "cane da guardia del potere" e di punto d'incontro delle comunità, è un ingrediente indispensabile della democrazia. Enrico Pedemonte ha studiato quello che sta succedendo nel mondo dell'informazione negli Stati Uniti e in Europa. Racconta la crisi della carta stampata e ne coglie le motivazioni più profonde. Valuta le differenze tra informazione generalista e riviste di settore, tra testate di impatto nazionale e d'interesse locale. In questa fase di cambiamento rivoluzionario nel mondo dell'informazione, suggerisce che lo stesso concetto di servizio pubblico debba essere ripensato e rovesciato, consapevole del ruolo irrinunciabile del "quarto potere" e della sua importanza nella vita civile di ogni collettività moderna. Alla fine, delinea l'identikit dell'"ipergiornale", quello al quale le migliori testate del mondo oggi cercano di assomigliare: un giornale nel quale la partecipazione dei lettori diventa un ingrediente fondamentale.
L'autore Enrico Pedemonte, nato a Genova, ha lavorato al «Secolo XIX», all'«Espresso» come caporedattore e corrispondente da New York. Poi a «Repubblica» come caporedattore. Esperto di rete e giornalismo cura il blog  Personal Media sul sito  del settimanale «Espresso».
*link al Blog PersonalMedia .

____

Archivio blog

Copyright

Questo blog non può considerarsi un prodotto editoriale, ai sensi della legge n. 62/2001. Chi desidera riprodurre i testi qui pubblicati dovrà ricordarsi di segnalare la fonte con un link, nel pieno rispetto delle norme sul copyright.