Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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30 gennaio 2018

In libreria

Javier Azpeitia
Lo stampatore di Venezia
Guanda, Parma, 2018, pp. 368.
Descrizione
Nel 1530 un giovane si reca in una villa nella campagna modenese per incontrare la vedova di Aldo Manuzio, il famoso stampatore veneziano, e mostrarle la biografia che ha scritto su di lui. Non sa che la storia vera è molto diversa dai toni epici del suo racconto. Da quando era approdato a Venezia nel 1489 con il proposito di realizzare raffinati volumi dei tesori della letteratura greca, Manuzio aveva dovuto affrontare difficoltà impensabili, come il furto dei manoscritti, le imposizioni commerciali del cinico Andrea Torresani – suocero nonché proprietario della stamperia – e la censura dei potenti. Le edizioni con testo originale a fronte, il corsivo, il libro tascabile, innovazioni per le quali Manuzio sarebbe stato ricordato per sempre, erano frutto di compromessi, trucchi, debiti, e lui per realizzarle si era dovuto difendere da attacchi e boicottaggi. Lo stampatore di Venezia racconta gli aspetti più passionali e intimi di Aldo Manuzio, la sua devozione per la cultura classica e il suo cerebrale epicureismo. E racconta gli esordi dell’editoria all’epoca dei Medici, di Savonarola, Tiziano, Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam: un momento storico di crisi e cambiamento nel quale sono riconoscibili le sfide che ancora oggi l’editoria moderna si trova a fronteggiare.
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29 gennaio 2018

Genova in redazione



Giovanni Ansaldo
 Il fascino di Sigfrido
Prefazione di Francesco Perfetti
Nino Aragno editore, Torino, 2017, pp. 249.
Descrizione
Quando giunse a Berlino nel gennaio 1921, Giovanni Ansaldo aveva poco più di venticinque anni, essendo nato a Genova il 28 novembre 1895. Nipote del  fondatore di una delle più importanti industrie italiane che portava il nome  di famiglia, era stato al fronte come capitano e aveva già cominciato a  scrivere su alcuni giornali, da «Energie Nove» di Piero Gobetti a «L’Unità»  di Gaetano Salvemini, e sul quotidiano socialista «Il Lavoro». Non aveva,  probabilmente, ancora deciso di rinunciare alla carriera accademica per  dedicarsi, preda del demone della scrittura, al giornalismo. Pensava,  infatti, di raccogliere materiale, durante i mesi che avrebbe trascorso in  Germania, per fare qualche pubblicazione al fine di conseguire la libera  docenza e di scrivere un libro di attualità o di politica. Si era impegnato  per ben sette mesi, messa da parte la sua «svogliatezza di anni lontani»,  nello studio della lingua tedesca, proprio in vista di questo viaggio che  considerava importante per il suo futuro. Questo libro raccoglie gli  articoli e gli scritti di Giovanni Ansaldo allora dedicati alla Repubblica
di Weimar, e, in particolare, all’occupazione della Saar. Ed è anche l’ultima
fatica di Giovanni Battista Ansaldo, che ha selezionato i testi paterni  raccogliendoli e ricopiandoli con cura certosina e devozione filiale.
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27 gennaio 2018

In libreria

Ecosistemi narrativi. Dal fumetto alle serie TV
a cura di Guglielmo Pescatore
Carocci, Roma, 2018, pp. 272.
Descrizione
Che cosa succede quando una narrazione dura anni o decenni? O si espande in una molteplicità di spazi mediali, dando luogo a una pletora di oggetti testuali? Se guardiamo al panorama mediale contemporaneo, ci accorgiamo che queste forme narrative, si tratti di fumetti, giochi di ruolo o serie televisive, sono sempre più presenti e popolari. Le narrazioni estese, spesso innovative come le serie televisive contemporanee – da Buffy al Trono di spade, da Lost a House of Cards – sono difficilmente analizzabili con gli strumenti impiegati per le narrazioni tradizionali. L’estensione nel tempo e nello spazio sembra mettere in crisi le idee di testo, autore, progetto, coerenza, senso, e alla fine l’idea stessa di narrazione. Esposte a vincoli interni e contingenze esterne spesso imprevedibili, le narrazioni estese possono essere trattate come ecosistemi narrativi, prodotti dotati di vita propria, paragonabile a quella biologica. Il volume, a partire da questo approccio innovativo, ne indaga i molteplici aspetti attraverso contributi originali, configurandosi come uno studio ampio e metodologicamente fondato sulle narrazioni seriali contemporanee.
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14 gennaio 2018

Disinformazione



"Non sappiamo più riconoscere le cose feroci." 
Zerocalcare, 2017.


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12 gennaio 2018

Il mainstream è cultura: Il trono di spade



"Ma lo guardano tutti..."
L'altra sera mi sono trovata a cena con degli amici, nonché inaspettatamente immersa in una discussione su una delle serie TV che da anni sta spopolando tra fan di tutte le generazioni: Il trono di spade (Game of Thrones, Ndr). Io e un altro ragazzo abbiamo preso d'assalto un'amica - povera malcapitata - che fa l'insegnante, nel tentativo di convincerla a seguire la serie.
Come avviene sempre, a questa domanda è seguita la risposta "Ma lo guardano tutti...".
Ecco allora una mistica rivelazione.
Che piaccia o no, il fatto che "tutti" guardino qualcosa, o leggano, seguano, giochino a qualcosa, non fa che donargli valore.
Innanzi tutto, ergersi a luminari dell'intrattenimento, troppo colti per apprezzare ciò che è apprezzato dalla massa, pare leggermente eccessivo. Probabilmente nemmeno de Tocqueville avrebbe potuto permettersi tanto.
In seconda istanza, non è proprio forse il successo a determinare cosa è importante e cosa non lo è? Certo, noi potremo avere la cultura, la preparazione e il gusto necessari per apprezzare un'opera inedita, capolavoro della letteratura al pari della Divina Commedia, ma, a livello puramente utilitaristico, non potremo mai fare sfoggio di tale perfezione se saremo gli unici a conoscerla.
È necessario guardare Il trono di spade. Anche se è "mainstream". Soprattutto perché è "mainstream". La cultura di massa è cultura generale ed entrambe sono, sempre e comunque, cultura: una comunità molto allargata che comunica con un codice linguistico fatto di citazioni. Come possiamo approcciarci a essa se alla frase Valar morghulis non sappiamo come rispondere? 
Accanimento anti cultura di massa
Chiunque si rifiuti di adattarsi o anche solo di sforzarsi ad apprendere la cultura mainstream, si sta auto-escludendo da una componente fondamentale della vita sociale e comunitaria.
Questo vale ancora più per tutti i professionisti della comunicazione, che hanno il dovere di inserirsi nelle dinamiche e logiche contemporanee, senza ostentare - o per lo meno senza farlo eccessivamente - culture e glorie passate.
Mi permetto di parlare di questo argomento proprio perché anche io appartenevo, fino a poco tempo fa, a questa categoria di anti-mainstreaminsti accaniti. Nel caso di Game of Thrones, mi trovavo circondata da post sui social network, da citazioni, da discussioni su un mondo che non conoscevo e che mi ero, fino ad allora, rifiutata di conoscere. Quando ho avuto la possibilità di iniziare la serie, l'ho fatto alla maniera in cui uno studente di psicologia accetta di dover dare un esame di statistica; ma indovinate un po’? Mi è piaciuto. Non che avessi capito qualcosa di cosa accade al primo episodio; però sono andata avanti e in tre settimane ho consumato le sette stagioni uscite fino a oggi.
In fondo, come ho detto prima, se un generico qualcosa conquista milioni di fan in tutto il mondo, un motivo ci sarà.
 Il trono di spade
Vi invito allora a procedere con la lettura della saga dello scrittore americano George R. R. Martin, Cronache del ghiaccio e del fuoco, da cui è tratta la serie. Se però la prospettiva di leggervi cinque romanzi senza arrivare a una conclusione non vi alletta troppo, sappiate che è molto più probabile che il procedere della serie televisiva svelerà il finale in anticipo. A quanto pare, infatti, l'autore continua a posticipare una possibile data di pubblicazione del nuovo volume della saga, che sarà intitolato The winds of winter (I venti dell'inverno, Ndr) e non sarà nemmeno l'ultimo; mentre è notizia di pochi giorni fa che la HBO, casa di produzione della serie televisiva britannica, ha previsto la conclusione della serie in una ottava stagione di soli sei episodi... nel 2019.
Veronica Rosazza Prin
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11 gennaio 2018

Storia di una professione "in onda"

Nella storia e nel racconto professionale del giornalista Roberto Amen analizziamo tutte le sfaccettature, tutte le mansioni, i diversi incarichi con cui un giornalista deve fare i conti ogni giorno.
L’aspetto più interessante a mio avviso sono proprio i racconti iniziali con cui si apre questo testo, ovvero i racconti di come si affronta la prima diretta televisiva, dei sentimenti che si mescolano poco prima di andare in onda, le più svariate sensazioni che ti passano nella mente; imparare a gestire il bello e il brutto della diretta, gli imprevisti dei collegamenti, riempire gli eventuali vuoti, commentare al meglio i servizi e le immagini.
In questa prima parte possiamo capire quindi come la sequenza in cui si danno le notizie al telegiornale non è casuale, bensì è frutto di un’analisi accurata, un omicidio o un fatto di cronaca nera sono raccontati sempre per primi per indicare che sono avvenuti quello stesso giorno, o perché ci sono nuovi sviluppi recenti su quel caso, ma le notizie drammatiche devono proseguire con qualcosa di positivo, un messaggio speranzoso come ad esempio un miglioramento nel settore lavorativo, o una storia a lieto fine.
Alla fine di questo insieme di notizie l’ascoltatore per lo più è distratto, ha distolto la mente dai proprio problemi e si è concentrato sugli avvenimenti successi, oppure è concentrato nei messaggi di speranza appena sentiti.
La tv diventa quindi uno svago, è motivo si stacco dalla propria vita.
Questo appena descritto non è però l’unico compito e l’unico lavoro del giornalista, è forse solo quello più conosciuto, ma cosa c’è dietro a tutto questo che vediamo?
Roberto Amen ci fa entrare nelle redazioni dove ha lavorato, il primo lavoro con cui un buon praticante giornalista deve cimentarsi è quello della stesura di un articolo, se possibile per renderlo più veritiero è sempre consigliato fare anche delle foto della situazione in questione, o ad esempio portare foto e video dell’intervistato. In questo caso è, oltre al giornalista, anche la troupe a entrare nei momenti quotidiani delle persone coinvolte, rispettando i tempi e i modi dell’intervistato.
Tutto ciò che il giornalista deve riportare è pura notizia, è il fatto veritiero senza commenti né pregiudizi, la notizia, gli eventi formano negli ascoltatori un’idea, un loro giudizio critico, le responsabilità del giornalista sono quelle di fornire le basi perché ognuno maturi una propria idea.
Questo vale anche per la politica, infatti ogni trasmissione è tenuta a dedicare lo stesso tempo per ogni fazione politica.
Roberto Amen precisa anche che le scorrettezze esistono lo stesso in questo settore, infatti una testata giornalistica può parteggiare per un partito montando dei servizi migliori per il partito in questione, più piacevoli, e brillanti, e servizi invece confusi e poco chiari per il partito opposto.
Una grande parte di questo libro è dedicata al maestro di Roberto Amen, Gigi Bertoccini, colui dal quale, tra le altre, ha appreso le nuove tecniche di linguaggio giornalistico; questa è sicuramente la parte più attuale. Il linguaggio giornalistico si è adattato ai nuovi mezzi di comunicazione come twitter, dove per lanciare un messaggio coinciso che venga appreso dai giovani nel  migliore dei modi bisogna usare frasi corte, secche, in questa nuova tecnica rientrano anche le pubblicità televisive che con pochi secondi a disposizione riescono a vendere qualsiasi tipo di prodotto.
Amen ci regala direi tante nozioni di base del giornalismo, di come farlo al meglio con profonda umiltà, attento e sensibile alle vicende umane, a trattarle con rispetto, senza cadere nell’esagerazione pur di fare qualche ascolto in più.
Questo è stato sicuramente l’aspetto che mi ha colpita di più, illuminante in questo senso è stato il racconto di come il giornalista Roberto Amen ha affrontato la storia delicata e agghiacciante del tentativo di salvataggio, non andato a buon fine, di Alfredino.
In conclusione questo libro è ricco di aneddoti, di infiniti dettagli, ho cercato di catturare gli aspetti salienti del lavoro di giornalista, con i pregi e difetti.
Elisa Cosini

Roberto Amen
In onda. Visioni e storie di ordinaria tv
Egea, Milano, 2016, 185 pp.
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10 gennaio 2018

I grandi Derby firmati da Gianni Brera


DERBY! edito nel 2015, è la raccolta di tutti gli articoli del giornalista sportivo Gianni Brera pubblicati in occasione del derby di Milano, la partita tra l’A.C. Milan e la F.C Internazionale Milano.
L’opera è stata pubblicata dopo la morte dell’autore per volontà di Paolo Brera, terzogenito  del giornalista Gianni Brera e anch'egli scrittore come il padre.
Il volume comprende la cronaca delle partite di calcio disputate tra il 1956 e il 1992, ed è inoltre una preziosa testimonianza dei cambiamenti che sono avvenuti in una città come Milano. La narrazione inizia dal boom economico avvenuto alla fine del secondo conflitto bellico e termina nel 1992, periodo in cui le due società sportive sono di proprietà degli imprenditori milanesi Ernesto Pellegrini e Silvio Berlusconi mentre Milano, è ormai una metropoli affermata e famosa in tutto il mondo.
La scelta di concentrare l’attenzione dell’opera sulla stracittadina è interessante: Il derby è una partita molto diversa da tutte le altre che si giocano durante la stagione; lo stadio è colmo di tifosi provenienti dalla stessa città, la distanza territoriale è quindi nulla, i posti a sedere sono tutti esauriti; durante la partita entrambe le squadre vengono sospinte e incitate dai propri tifosi per tutti i novanta minuti. Il cantante Adriano Celentano cantava “Eravamo in 100.000” per indicare il numero di tifosi presenti allo stadio in occasione del derby, un evento che quasi scandisce il tempo della città.
La rivalità tra le due formazioni, nata nel 1909 a causa della creazione dell’Internazionale Milano da parte di alcuni dissidenti dell’A.C. Milan, con il passare degli anni assunse anche caratteri politico e sociali.
Per la prima metà del XX secolo la tifoseria milanese era per la maggior parte divisa a seconda dell’estrazione sociale di provenienza: il tifoso interista proveniva dalla classe borghese mentre il tifoso milanista dalla classe operaia e popolare, in un periodo storico in cui la lotta di classe era particolarmente sentita. I soprannomi con le quali le due tifoserie si apostrofavano dipendono  da questa differenza di classe. I tifosi milanisti, per esempio, venivano chiamati “casciavit” (cacciavite) o “tramvèe”(tramvai), per la appartenenza alla classe operaia, mentre i tifosi nerazzuri erano scherniti con epiteti come “bauscia”(sbruffoni) o “muturèta” (perché potevano permettersi il privilegio di poter andare allo stadio in moto); questo dualismo ancora oggi sopravvive ma ha perso molto della natura socio politica che l’aveva contraddistinta nel corso degli anni.
In occasione del derby, gli abitanti della città sono stipati sugli spalti dello stadio: mentre sostengono e incitano la propria squadra i rapporti di parentela e di amicizia passano in secondo piano per quell’ora e mezza di gioco, come è stato per Franco e Beppe Baresi, non a caso scelti per la copertina per rappresentare in un’immagine il concetto di derby milanese. I due fratelli incarnano in pieno lo spirito del derby milanese; fratelli che si ritrovano in campo come avversari in una sfida senza alcuna esclusione di colpi, nel pieno rispetto dell’avversario per fare in modo che la propria squadra prevalga sull’altra.
Le sfide fra le due rivali milanesi sono raccontate ed analizzate da Gianni Brera con uno stile ed un linguaggio giornalistico che, fino ad allora, non si erano mai visti nella comunicazione italiana.
La seconda meta del XX secolo vede Gianni Brera nei panni del protagonista principale della cronaca sportiva, dato che egli riesce a dare vita a uno stile giornalistico innovativo e moderno, basato sulla vena letteraria e narrativa.
La prosa si sposa e si intreccia con la cronaca sportiva; il frutto è un cocktail frizzante di piacevole lettura.
Il lettore si ritrova immerso in una lettura scorrevole e difficile da abbandonare. La cronaca sportiva è rifinita preziosamente dal giornalista lombardo con termini e neologismi, utilizzati ancora oggi, e divenuti iconici per questo sport.
Di particolare importanza è il lessico di Gianni Brera; il giornalista è solito utilizzare spesso termini propri del dialetto in maniera particolare quello milanese, avvicinandosi così con il lettore medio.
La scelta dell’utilizzo del dialetto è molto importante dal punto di vista storico: l’Italia è ancora una nazione giovane, nata da nemmeno un secolo i tassi di analfabetismo sono ancora elevati e la maggior parte degli popolazione italiana parla solamente il proprio dialetto regionale. Il giornalista di San Zenone Po attraverso le sue opere vuole tentare di elevare le forme dialettali dal momento che queste sono vere e proprie forme linguistiche.
“Io non penso in italiano, penso in dialetto perché sono un popolano”. Con questa frase si può facilmente riassumere tutto il pensiero e l’opera di Gianni Brera.
L’intento del giornalista milanese è quello di portare modi di dire, pensieri e termini regionali all’interno di una lingua italiana universale e comprensibile in tutta la penisola.
Brera vede come il dialetto, unica lingua conosciuta per la maggior parte della popolazione, come un mezzo per accompagnare milioni di italiani nel processo di alfabetizzazione dal dialetto all’italiano. Questo processo tuttavia deve tenere conto delle peculiarità dei singoli dialetti salvando  e valorizzando ciò che si può portare in italiano.
Per molto tempo il giornalismo sportivo era stato considerato come una forma di giornalismo di secondo piano. Il giornalista di San Zenone Po invece, per tutta la sua carriera, è un fermo sostenitore della cronaca sportiva. Lo sport è una di quelle forme che unisce le masse sotto un’unica bandiera spingendole a tifare per essa, uno di quei rari momenti in cui è possibile vedere un’intera nazione unita.
La pagina sportiva è da sempre la pagina più letta e amata dai lettori, la pagina che colpisce l’immaginario collettivo e che permette ai lettori di fantasticare sulle imprese dei propri beniamini.
Dato che lo sport gode di questa posizione privilegiata, chi si occupa di cronaca sportiva deve agire di conseguenza; la prosa deve coinvolgere e trattenere l’attenzione del lettore e la cronaca deve avere una funzione pedagogica e istruttiva; avvicinare gli analfabeti a un utilizzo corretto dell’italiano e combattere anche l’analfabetismo di ritorno, che oggigiorno è una vera e propria piaga.
Lo stile di Gianni Brera è quindi un misto di narrativa e riferimenti alla cultura classica; al giornalista  milanese si deve l’introduzione di molti termini calcistici tuttora utilizzati.
Questi termini hanno tra le origini più svariate; tra i termini proposti da Brera ricordiamo intramontabile che deriva dalla letteratura classica greca; con questo termine si indica un giocatore che nonostante l’età avanzata non ha perso lo smalto. Il termine melina invece deriva dal dialetto bolognese e viene utilizzato per indicare quella fase del gioco nella quale una squadra cerca di controllare la palla per più tempo possibile. Il termine goleador deriva dalla spagnolo toreador della corrida. All’estro di Gianni Brera si deve anche l’introduzione del termine incornare con cui si fa riferimento a quando un giocatore riesce a trovare la rete grazie a un colpo di testa e superare i propri marcatori. Questa immagine  legata al mondo della corrida spagnola e l’attaccante viene paragonato a un toro.
Alla penna e alla vena artistica di Gianni Brera si deve anche l’adozione di alcuni nomignoli per alcuni giocatori, questi soprannomi creati dal giornalista sono rimasti legati in maniera indissolubile all’immagine dei singoli giocatori e che pronunciati ancora oggi evocano ricordi nell’immaginario dei tifosi.
Gianni Brera per indicare il difensore Franco Baresi, coniò il termine “piscinin” che nel dialetto milanese significa piccolino; questo appellativo faceva riferimento sia al fatto che Franco non era di statura molto elevata per giocare nel ruolo di difensore, ruolo che tuttavia ricopriva in maniera maestosa e che inoltre era il fratello minore di Beppe Baresi anch'egli giocatore e rivale in campo.
Un altro soprannome creato dal giornalista milanese é “bonimba”, per indicare l’attaccante Roberto Boninsegna. Il termine nasce dall’unione del cognome del giocatore con la parola “bagonghi” con cui si indicavano i nani da circo. Questo soprannome nasce dall’aspetto fisico dell’attaccante che, nonostante la bassa statura, riusciva facilmente a superare i difensori avversari e a sgusciare tra essi quasi come un nano da circo.
Giovanni Lodetti viene soprannominato “blasetta”, che nel dialetto milanese indica il mento pronunciato, caratteristica fisica che lo contraddistingueva.
Il mediano Gabriele Oriali viene ribattezzato come “piper” perché questo giocatore correva rapido per il terreno di gioco e rimbalza da una parte all’altra del campo quasi come la pallina di un flipper, questa sua caratteristica lo rese un idolo per i suoi tifosi.
Mario Corso viene apostrofato come participio passato del verbo correre, vista la sua poco dinamicità.
Gli eterni rivali Sandro Mazzola e Gianni Rivera sono soprannominati mazzandro e abatino.
Grazie a queste espressioni Brera riesce ad avvicinare i lettori ai propri idoli sportivi, che diventano quasi dei familiari per i tifosi. I lettori si trovano immersi nella lettura degli articoli sportivi e lo affrontano come un romanzo in cui vengono raccontate le gesta dei loro beniamini.
Il lettore si trova così costretto a leggere tutto l’articolo per scoprire il finale e scoprire come il proprio idolo sportivo è riuscito a superare l’avversario.
Lo stile di scrittura di Gianni Brera può ricordare lo stile dell’epica classica; la nazione italiana era nata da nemmeno un secolo, si sentiva il bisogno di eroi comuni a tutta la nazione che potessero unire tutti i tifosi e gli amanti dello sport sotto un’unica bandiera, quella italiana; attraverso i suoi articoli di cronaca riuscì a dare agli amanti dello sport quegli idoli e quegli eroi che, superavano gli avversari e compivano imprese come gli eroi dei poemi omerici.
In questi quasi 40 anni di cronaca sportiva Gianni Brera ha accompagnato milioni di tifosi delle formazioni milanesi attraverso grandi vittorie, traguardi ma anche attraverso sconfitte e delusioni.
Brera ha accompagnato più di una generazione di lettori sportivi, facendo da modello per molti che si sono avvicinati a questo settore. Negli anni in cui il cartaceo era la principale forma di informazione per gli italiani, per la maggior parte analfabeti, egli grazie alla sua penna e all’utilizzo si semplici parole riusciva a creare immagini forti, molte vicine alla realtà  con un leggero contorno poetico, epico e oggi anche  un po’ nostalgico.  Avvicinò milioni di italiani alla lettura di un prodotto giornalistico degno di questo nome elevando anche lo sport a una funzione pedagogica e istruttiva, cosa forse oggi dimenticata o passata in secondo piano.
Gianni Brera in molti dei suoi articoli, anche grazie ai riferimenti alla cultura classica, riesce a portare i lettori sportivi italiani a conoscere quelle figure iconiche dell’epica, che non avrebbero avuto altro modo di conoscere.
Francesco Vallerga

Gianni Brera
DERBY!,
BookTime, Milano, 2015.
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09 gennaio 2018

Punto


Essenziale. Preciso. Costruttivo. Come un punto. Una pausa del pensiero necessaria non per concluderlo ma per permettere la sua evoluzione in una riflessione più profonda.
La rapida carrellata di Paolo Pagliaro, prestigioso giornalista, sui problemi legati alla “post-verità”, evidenzia i punti salienti dell'attuale pericoloso declino dell'informazione.
Fermare l'overdose informativa che ci sommerge ogni giorno è possibile. Così come ritrovare la capacità di distinguere tra ciò che serve a meglio orientare le scelte della nostra vita e tra ciò che, al contrario, quelle stesse scelte le confonde e le manipola.
L'”infobesità” è una patologia reale. Si annida tra le fake-news mitragliate in continuazione sui social network e rimbalzate nelle agende-setting di telegiornali e quotidiani. Il risultato è che la moltiplicazione del falso sembra essere diventato il paradigma condiviso dalla maggior parte dei professionisti dell'informazione. A scapito di quella narrazione dei fatti e della verità che, per tale categoria,  dovrebbe essere il principale punto d'orgoglio. Mentre, in nome delle logiche di mercato e di profitto, prevalgono emozioni, suggestioni, storytelling, propaganda. Di tutto tranne il racconto veritiero dei fatti. Ormai, usare la bugia come strumento per ottenere visibilità e consenso è pratica diffusa e accettata. Tollerata e subita soprattutto da chi l'informazione non la riceve più perché ne è letteralmente bombardato, nell'illusoria convinzione di essere cittadino consapevole delle proprie valutazioni, soggetto attivo e partecipe della costruzione del proprio futuro, esente da manipolazioni esterne.
Qui ci vuole un punto, una riflessione. Non per fermarsi, ma per ripartire. Così, auspica l'autore. Una pausa dal respiro più ampio e meno frettoloso del solito. Il ripristino della facoltà pensante come abilità condivisa. Il riscatto di chi produce informazione di qualità in modo eticamente corretto. È una battaglia che va combattuta soprattutto sul web, dove il narcisismo della politica si nasconde dietro la comunicazione e ne sostituisce il dibattito e dove il narcisismo di massa affonda l'assenza di pensiero critico nella velocità virale di opinioni basate sulla diffusione di fiction.
A risentirne è soprattutto la qualità della democrazia che trasferisce il potere di condizionare l'opinione pubblica agli esperti di marketing. Creare pseudo-notizie e farle circolare ad arte sui social in modo tale che diventino argomento di infinite condivisioni e acquistino così una valenza di verità fino a conquistare il primo posto tra gli argomenti di interesse generale.
La strategia della disinformazione si propaga come un virus, attraverso internet. Distraendo il “pensiero mobile” dei suoi fruitori dalla manomissione delle opinioni e dei fatti. Ad essere contagiata è soprattutto la platea dei “nativi digitali” che, riflettendosi nello specchio della community, credono di sfuggire alla solitudine e presumono di trovare più libertà di accesso ad un'informazione diretta e priva di mediazioni. In realtà, l'accesso è facilitato solo al pensiero semplificato e preconfezionato, con lo scopo di produrre costante distrazione dalla realtà o, tuttalpiù, saltuaria attenzione parziale, fluttuante nel mare della dispersività.
Perché, è noto, troppa informazione equivale a nessuna informazione.
  Un eccesso di disinformation che pervade il quotidiano e rischia di trasformarsi in una patologia curabile solo rivendicando il “diritto alla disconnessione”. Mettendo un freno al collegamento H24 per avere il tempo di pensare, farsi domande, riflettere senza l'ansia di rispondere all'ultimo tweet. Questa è una delle soluzioni che l'autore propone come cura all'epidemia in corso. Ma non basta.
É necessario accettare di non potere essere informati su tutto in ogni momento. E quello che sembra il limite del parziale e del provvisorio si evolve in un'opportunità di sviluppo dell'intelligenza collettiva del gruppo a cui si appartiene. Raccogliendo le capacità dei singoli per non disperdere le energie e concentrandosi sugli argomenti di vero interesse per approfondire e pensare in profondità.
Ma il “disagio del pensiero”, come disse J. Kennedy nel 1962, costa tempo e fatica. Al contrario delle più comode opinioni e dei facili pregiudizi precotti dalla rete.
Diventa, quindi, prioritario investire sulla produzione di informazione di qualità e formare professionisti eticamente preparati, passando attraverso accordi economici e politici che coinvolgano le grandi piattaforme di distribuzione delle notizie e i potenti gruppi editoriali.
Per esempio, punire la diffusione arbitraria di fake-news, etichettandole in modo ben visibile, può essere anche un modo per difendere la reputazione di chi le informazioni le produce e le diffonde.
Così come combattere la creazione di falsi profili-clone sui social, i cosiddetti bot, che tanto piacciono alla politica, è un modo imprescindibile per salvaguardare il buon funzionamento del sistema democratico. Infatti, l'anonimo popolo della rete si nutre di notizie false ma non del tutto inverosimili, che acquistano validità proprio per la loro capacità di essere rilanciate e condivise. Ed è proprio questo popolo, lo “sciame digitale”, ad essere esposto alle conseguenze della manipolazione del mercato del consenso.
      Secondo l'autore è l'autodisciplina, sia di chi produce sia di chi consuma informazione, una delle  soluzioni più realistiche alla deriva attuale. Il controllo dei fatti e delle fonti e l'onestà nel riferirli si confermano come i cardini dell'informazione professionale di cui Paolo Pagliaro, anche in questo testo, è sicuro interprete ed orgoglioso portavoce. Con quel pizzico di passione che è la molla che aiuta a distinguere tra verità e idee. Un punto, questo, su cui l'autore fornisce lo spazio e gli strumenti necessari alla riflessione, auspicando, tra le righe, la nascita di un pubblico più critico capace di pretendere un'informazione onesta e veritiera. Sarà allora che anche il mercato e la politica saranno obbligate ad adeguarsi alle esigenze della comunità, fermando il declino dell'informazione di qualità.
Ecco. A volte, basta fermarsi su un punto.
 Anna Scavuzzo


Paolo Pagliaro
Punto. Fermiamo il declino dell'informazione
Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 128.

07 gennaio 2018

L'America di Oriana Fallaci


Viaggio in America è il titolo di un’opera della celebre scrittrice e giornalista Oriana Fallaci, pubblicata nel 2014. É il 1965 quando la Fallaci decide di raccontare il Paese a stelle e strisce in una serie di articoli per l’Europeo, racchiusi successivamente in questo libro da Rizzoli Editore. Oriana, curiosa di capire il mondo e gli uomini, vuole raccontare com’è l’America vista da un’italiana. L’America non appartiene solo agli americani, perciò ha il diritto di raccontare ciò che va e ciò che invece non va: «Ho il diritto di sapere chi sono, se sono felici o infelici, mascalzoni o perbene. Ho il diritto di ascoltarli, osservarli, spiarli», scrive l’autrice. Così, la vastità e la complessità degli Stati Uniti la spingono a intraprendere un viaggio per poter raccontare il Paese dopo averlo osservato più da vicino.
Il libro è suddiviso in sei parti che racchiudono straordinari ritratti di cantanti, politici, astronauti, attori e divi di Hollywood e una descrizione delle tante facce della New York degli anni Sessanta, spesso presentata come un inferno, dove possedere una rivoltella equivale ad avere la macchina per lavare i piatti, la televisione, il telefono, l’automobile, il frigorifero; e poi lo spumeggiante viaggio on the road con l’amica Shirley MacLaine per percorrere all’incontrario la strada degli antichi pionieri che nell’Ottocento si mossero dalla Virginia alla California. La silenziosa Death Valley, Las Vegas, il Grand Canyon, sono solo alcune delle numerose tappe del viaggio con la MacLaine. «L’America è così vasta, paurosamente vasta. C’è di tutto in America». Così, per sentirsi di nuovo a casa attraverserà il paese per far visita, da buona toscana, a Florence in Alabama. Ed è proprio qui, negli stati del Sud, che comprenderà il dramma d’essere nato color della notte in un Paese dove la maggioranza delle persone è color del giorno. Nelle oltre due settimane di viaggio Oriana confessa che la comodità americana è assai attraente, sì, ma anche che le manca qualcosa. In uno scenario perfetto, in una vita perfetta fatta di benessere, prati curati, piscine riscaldate, bibite fresche, campi da tennis e tecnologia, ciò di cui sono privi gli Stati Uniti sono i fantasmi. Vale a dire i fantasmi di coloro che levigarono i sassi su cui si cammina: lì non c’è memoria, non ci sono ricordi né tradizioni e i troppi comfort stanno per ingoiarla. Si sente rimbecillita da quel mondo dove tutto è troppo. L’America impaziente che non si affeziona mai a nulla, si stacca senza dolore da tutto: genitori, figli, coniugi, case, paesaggi. Sono queste, secondo lei, le cose che un europeo non può comprendere.
Il libro si conclude con un’inchiesta sui teenager americani, preziosa per capire la società dell’epoca e con delle “Lettere dall’America”, contenenti gli aneddoti più strambi come le maldestre intercettazioni telefoniche da parte della CIA o una Fallaci intenta a fumare le bucce delle banane. Un rapporto di odio e amore, quello tra Oriana e l’America. Gli USA, però, sono una continua scoperta e questo la elettrizza. L’autrice, con uno stile sfrontato e brillante, racconta di un’America che forse non è cambiata poi così tanto e che, forse, non odia poi così tanto: «Dell’America mi piacciono i western, i ponti, i biondi, la Costituzione, sebbene sia spesso dimenticata, il roast beef che qui lo cuociono bene, non bruciato di fuori e crudo di dentro, ma d’un bel rosa unito dalla buccia all’interno. Mi piace. E poi mi piace il garbo delle telefoniste che qui non sono villane, mi piace il sorriso con cui i poliziotti del Kennedy Airport mi dicono tutte le volte che torno a New York: «Welcome home», benvenuta a casa».
Paola Alemanno



Oriana Falalci
Viaggi in America
Rizzoli, Milano, 2014.
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06 gennaio 2018

Rewire: positivo, con un “ma”…


Adattarsi a un mondo in continua trasformazione, tanto più se nell’era della tecnologia, non è un compito semplice. Le trasformazioni sono repentine e radicali, al punto tale che chiunque si trovi a dover lavorare - ma anche solo vivere - in un simile tumulto, spesso non fa in tempo ad adeguarsi che è già tempo di cambiare. Quello che sembra ormai ovvio è che ci troviamo oggi nell’era della globalità, in cui le idee, i processi, le tendenze e anche le problematiche non si trovano circoscritte in un’area definita, ma divengono comuni a realtà geografiche anche molto distanti tra loro.
Di fronte a questo panorama in divenire, Ethan Zuckerman, studioso americano delle nuove forme di comunicazione e di cultura digitale, propone alcuni ragionamenti e considerazioni utili a chi stia cercando di orientarsi nell’oggi; lo fa attraverso Rewire: cosmopoliti digitali nell’era della globalità, edito in Italia da Egea e uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel giugno 2013, pubblicato dalla W. W. Norton & Company.
Questa recensione fa riferimento alla versione epub: E. Zuckerman, Rewire: cosmopoliti digitali nell’era della globalità, Egea editore 2014.
Cosmopoliti…
Il cosmopolitismo sembra essere un argomento che sta molto a cuore all’autore, non solo perché ha così intitolato la sua opera: basandosi sulla definizione proposta dal filosofo Kwame Antony Appiah, l’uomo e la donna cosmopoliti dimostrano un «genuino interesse per le concezioni e le pratiche altrui, impegnandosi a comprendere, se non anche ad accettare o ad adottare, modi di vivere differenti» dal proprio; il cosmopolita, inoltre, «abbraccia seriamente l’idea di avere degli obblighi nei confronti degli altri». In quest’ottica, il divenire un cosmopolita deve essere, secondo Zuckerman, l’obiettivo di chiunque voglia fare comunicazione. Altro consiglio centrale nell’analisi dell’autore riguarda la possibilità di essere xenofili e figure ponte: i primi sono «individui attirati dall’insolito, che traggono ispirazione ed energia creativa nell’ampia diversità del pianeta», mentre i secondi «si muovono a cavallo tra due ambiti culturali; ne fanno parte, ad esempio, quei blogger impegnati a tradurre e contestualizzare i contenuti da una cultura all’altra». Tutti questi elementi sono fondamentali, secondo quanto asserisce Zuckerman, nel mondo globalizzato in cui viviamo: le differenze identitarie - di genere, di etnia, religione, lingua - portano allo sviluppo di differenze cognitive, che sono, a loro volta, il valore aggiunto per eccellenza dell’era della globalità.
 … digitali.
L’elemento digitale è proprio quello entro cui si muove Zuckerman: non solo si trova alla base della semplicità con cui avvengono oggi le comunicazioni e, quindi, dei rapporti contemporanei, ma è anche - e soprattutto - il futuro di imprese, persone e mezzi di informazione.
L’inflazione dell’esempio
Tutti questi elementi sono presentati attraverso l’utilizzo smodato di esempi: sebbene gli stessi rappresentino uno strumento utile per illustrare ragionamenti complessi, specialmente a chi si stia approcciando per la prima volta a simili argomenti, la loro massiccia presenza all’interno di questo volume risulta eccessivamente pesante anche per il lettore più attento. Volendo azzardare una stima, una buona metà dell’intero volume è persa in esempi: esempi sulla diffusione di nozioni e notizie, esempi tratti dall’Antica Grecia sull’approccio cosmopolita, esempi di come lo sviluppo delle connessioni possa costituire anche, a volte, un pericolo; anche gli aneddoti occupano un ruolo importante in Rewire: sulla nascita dei forum, sulle discussioni che hanno portato alla fondazione di Global Voices, sull’esportazione dell’acqua Evian. Una scelta stilistica che ha stravolto il proposito dell’esistenza stessa dell’esempio, appesantendo la lettura e rendendola eccessivamente lenta e difficoltosa.
Il vademecum della globalità digitalizzata
Nota decisamente positiva riguardo l’utilità delle teorie racchiuse nel piccolo volume. Concetti rilevanti come quello di homophily o di serendipità emergono chiari e evidenti, creando un filo conduttore che accompagna il lettore lungo tutto il suo percorso: il processo di notiziabilità internazionale, la gestione dei social network da parte di algoritmi sempre più aggiornati e “invadenti”, il ruolo fondamentale delle traduzioni in un mondo sempre più Eng sub ma con una forte componente idiomatica.
La lettura di Rewire somiglia a una palestra di comunicazione e di vita, che fornisce tutti gli elementi necessari per comprendere, almeno basilarmente, le dinamiche che muovono l’era della globalità e come fare a inserirvisi come professionisti della comunicazione e non solo.
Global Voices
Un intero capitolo del volume è, poi, dedicato a Global Voices, una rete internazionale di bloggers fondata da Zuckerman stesso e da Rebecca MacKinnon, con lo scopo di abbattere le barriere comunicative tra i Paesi “forti” e quelli più “deboli”: partendo dalla constatazione che, sul piano della discussione internazionale, maggiore spazio viene concesso a voci provenienti da contesti elitari e occidentali, Global Voices sfrutta i contributi generati dagli utenti di internet per «offrire a chiunque voglia esprimersi i mezzi per farlo, come anche di offrire gli strumenti adatti a chiunque voglia prestare ascolto a queste voci».
I volontari che collaborano a questo interessante progetto, ricercano e traducono, ogni giorno, i pezzi più interessanti pubblicati sui blog del loro Paese, in modo da renderli disponibili al resto del mondo. Quanti di noi sono adegutamente informati sulle questioni provenienti dalla Nigeria? Dall’Angola, dallo Sri Lanka, dalla Lettonia o dal Paraguai? Quello che fa il progetto Global Voices (all’indirizzo internet https://it.globalvoices.org/ per la versione italiana) è strappare il pesante velo delle barriere linguistiche e mediatiche, per aiutare chi sia interessato a mantenersi aggiornato, andando a pescare le produzioni originali delle voci meno ascoltate online e servendole su un piatto d’argento al pubblico internazionale.
Must-have
Un lavoro certamente accurato, impegnato e impegnativo quello di Ethan Zuckerman, che ha messo a disposizione del pubblico le competenze acquisite in anni di esperienza sul campo e di studi approfonditi. Potessi suggerire una nuova edizione, proporrei all’autore le mie considerazioni sull’impiego dell’esempio come strumento esplicativo; tuttavia ho trovato l’opera interessante e sostanzialmente utile: non è necessario avere interessi professionali negli elementi trattati; l’importanza fondamentale dei concetti “cosmopolita”, “digitale” e “era della globalità” - abilmente condensati nel titolo - rende Rewire: cosmopoliti digitali nell’era della globalità un testo must-have per ogni appassionato del mondo, della contemporaneità e dell’umanità.
Veronica Rosazza Prin

Ethan Zuckerman
Rewire: cosmopoliti digitali nell’era della globalità
Egea, Milano, 2014
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05 gennaio 2018

La critica teatrale nel Web




Com’è cambiata la critica teatrale, così come la conosciamo oggi, nel corso degli anni? Qual era il ruolo del critico ieri e qual è il ruolo del critico oggi? Come ha cambiato il modo di fare critica l’introduzione di internet nel nostro quotidiano? Ma soprattutto - e questo si può dire l’interrogativo più grande - oggi la critica esiste ancora?
Possiamo dire che il libro cerca, partendo dai tempi antichi, di rispondere, per quanto possibile, a tutte queste domande, e lo fa nel modo più sintetico e chiaro possibile, considerando che si trovano addirittura riferimenti all’antica Grecia fino ad arrivare ai giorni nostri.
Ciò che rende interessante questo libro è che, per fare chiarezza e per rispondere ai quesiti che ci siamo posti all’inizio e ad altri che emergono tra le pagine, utilizza soprattutto pensieri di critici, ma anche di chi la critica in un certo senso la subisce, come ad esempio gli ideatori di uno spettacolo teatrale; o talvolta il pubblico, che non dovrebbe solamente subire ma anche ragionare ma che, specialmente oggi, con la valanga di informazioni che lo travolge spesso si fida e si affida nelle mani di chi giudica al posto suo.
I temi affrontati nei diversi capitoli sono svariati; per citarne due: si illustra il passaggio che è avvenuto dall’utilizzo della critica tradizionale alla critica attuale, ossia il passaggio da analogico a digitale ma, uno degli aspetti a risultare più interessante, soprattutto perché di grande attualità, è anche l’ultimo che viene analizzato ed è l’interrogativo che interessa il nostro tempo: com’è cambiato il ruolo del critico con l’arrivo di internet? Esiste ancora il mestiere del critico nel senso vero e proprio del termine? I due quesiti sono così complessi che anche per gli autori è difficile arrivare ad una conclusione definitiva; nonostante ciò viene comunque spiegato passo passo e in modo chiaro il processo che ha portato alla trasformazione di questa figura oggi così complessa, e soprattutto viene mostrata una fotografia del mondo odierno che ha sì dato modo a ciascuno di esprimersi e di pubblicare idee, pensieri, recensioni, musica e altre opere o produzioni spesso auto-finanziate, ma ha anche tolto una serietà e una autorevolezza tipiche dei critici di altri tempi. Se ciò possa essere considerato un bene od un male si può dire che neanche Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino, i due autori del libro, lo abbiamo chiarito con certezza. Si può forse affermare che anche la figura del critico troverà il suo spazio in questa nuova era, sicuramente con le dovute modifiche che subirà nel tempo, così come la figura del giornalista, ad esempio, che è in continua evoluzione. Il libro, come detto, non fornisce risposte complete, ma aiuta senza dubbio nella formazione di una propria idea attraverso un’analisi approfondita dell’evoluzione di un mestiere e fornisce degli spunti per comprendere a fondo l’utilità della critica ai giorni nostri; e questo è, forse, l’elemento più importante perché, se il pubblico riuscirà nuovamente a capirne l’importanza, sarà forse possibile far sì che questo mestiere non scompaia del tutto.
Alice Ferraro


 Giulia Alonzo - Oliviero Ponte di Pino

Dioniso e la nuvola. L'informazione e la critica teatrale in rete:
nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici,
FrancoAngeli, Milano, 2017, pp. 192.

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