Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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10 gennaio 2015

L’ombra si fa guerra


È guerra. Totale. Mondiale. Ora lo sappiamo.
Gli attentati di Parigi e i massacri in Nigeria non sono più solo l’ombra di un sospetto.
Che l’Europa e il mondo intero siano attaccati nei simboli e nei valori più profondi di libertà e democrazia non è una possibilità. È una realtà. Concreta e tangibile.
La violenza terrorista si è fatta stato. La religione ideologia. Pretesti ingiustificabili per imporre l’ombra di un nuovo regime totalitario. Per scatenare un conflitto dalla portata mondiale.
Per perpetuare i profitti dell’industria della guerra. Per avvilire le opinioni nella paura della ritorsione.
Non possiamo più fare finta di niente. Ci siamo dentro tutti. Europei e non.     Quella che vediamo è la cima di una montagna. Non quella di Maometto. Non quella che vorremmo scalare. Ma quella che sta per crollarci addosso con il suo enorme peso di responsabilità.  La montagna rozza e dura, pericolosa e violenta, brutale e assurda di un potere vigliacco che cerca di scatenare un conflitto diffuso. Vigliacco perché non si mostra. Vigliacco perché usa religioni che non gli appartengono per giustificare azioni terroristiche.
È inutile girarsi dall’altra parte. Siamo in guerra.
Una guerra di pensiero prima che di armi. Perché le nostre giornate sono ormai scandite da parole di guerra. Killer, mitra, kalashnikov , attacco, assedio, bliz, sangue, ostaggi, morti…
In televisione sentiamo il crepitio delle sparatorie, udiamo le urla di chi fugge terrorizzato, vediamo il fumo delle esplosioni, i filmati girati da chi si mette in salvo sui tetti, poliziotti e militari che corrono dietro scudi antiproiettile. Vediamo un poliziotto musulmano ferito che implora pietà prima di essere freddato senza traccia di quella stessa pietà.
Sui giornali appaiono immagini che sembrano tratte da un libro di storia. Invece no, sono di oggi. I titoli fanno venire ansia. Il nostro spirito è pieno di sgomento, rabbia, angoscia, paura.
Basterà la grande “manifestazione repubblicana” di domani a Parigi per ridare fiducia e sicurezza ai cittadini francesi? Basterà l’enorme folla planetaria, che dalle piazze europee e del web grida a gran voce “Je suis Charlie”, a rimuovere le violenze? Certo, sono segnali di una reazione. Ma non basta più indignarsi, manifestare, protestare.
Ci sono decisioni urgenti e difficili da prendere. Prima che il virus della jihad contagi ogni nazione figlia di una democrazia vitale. Come un cancro che sparpaglia in un gigantesco starnuto cellule impazzite in grado di aggredire dietro istruzione. Non più uomini, ma macchine addestrate a uccidere gli altri e se stessi. Corpi e menti malate che trovano nella propagazione di ogni forma di violenza lo scopo della loro miserabile esistenza.
Bisogna trovare il modo di difendere il nostro pensiero di libertà e democrazia. Non si deve cadere nella trappola del panico, dell’islamismo-fobia, della nevrosi da attacco terroristico, della psicosi da omo-blindato, del sospetto permanente. Faremmo il gioco di chi ci attacca.
Lucidità e fermezza diventano qualità fondamentali per assicurarci almeno una cosa: la forza della maggioranza. Quella a cui il terrorismo e la guerra fanno schifo. Una maggioranza pacifica e tollerante che esiste. C’è. Si vede e si sente.
Se una manciata di terroristi ha tenuto e tiene sotto scacco una nazione come la Francia, possibile che il popolo europeo della maggioranza nonviolenta, sensibile all’integrazione, multi etnica e multi culturale non riesca a dare scacco matto a una manciata di terroristi?
Se davvero esiste questa idea di Europa unita, ora è il momento che i politici che la rappresentano la facciano vedere e sentire. Certo, le parole della guerra fanno impressione a chi la guerra non l’ha mai fatta. Così come fanno paura a chi ne è stato sfiorato ed è sopravvissuto.
Ma democrazia e libertà non sono parole di guerra. Sono concetti del pensiero. Un pensiero che non può permettersi di essere debole e destabilizzato da una forza oscura e minore: la violenza.
Si sa che un popolo impaurito e insicuro è più facile preda dei regimi totalitari che sottomettono prima i valori delle persone.
Ecco, è arrivato il momento che alle parole della guerra è necessario contrapporre le parole della libertà. La politica già lo sa.
La difesa non è nella sopraffazione, ma nell’eliminazione delle cause.
Lo “stato di guerra” non si neutralizza con la corsa agli armamenti, con i raid aerei, le cosiddette forze di pace. Lo “stato di pace” si conquista con la volontà di cancellare dal pianeta il profitto dell’industria bellica. La volontà di tutti i popoli e le nazioni. La volontà della maggioranza. Di tutti. Ma proprio di tutti. Insieme. E questa si che sarebbe una grande risposta  e una grande forza. Quella che all’aggettivo mondiale non potrà più abbinare l’ombra del sostantivo guerra, ma soltanto la luce della parola libertà.    
Anna Scavuzzo

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