Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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09 febbraio 2015

Con la morte negli occhi

Domenica pomeriggio in una tranquilla cittadina di provincia. Una manciata di ragazzini gioca nel cortile sotto casa. Questo è normale. Giocano alla guerra. Anche questo è abbastanza usuale. All’improvviso uno di loro grida: “Bruciamolo! Bruciamolo!” E questo è meno banale. Ai ragazzi chiedo perché vogliono bruciare quel loro amico. La risposta è lacerante: “Perché è nostro prigioniero! Perché noi siamo i più forti come quelli vestiti di nero che abbiamo visto in tv!”.
L’emulazione è prodotto pericoloso, capace di dissesto mentale anche in tenera età. Questi non sono ragazzi di strada. Sono figli di gente perbene. Vanno a scuola, fanno i compiti, vanno in vacanza, praticano sport. Ragazzi normali. Ma nella loro mente esiste qualcosa che si prende gioco dei loro sentimenti come della loro ingenuità. È la voglia di imitare il racconto del mondo visto attraverso la televisione o internet. Il mondo degli adulti. Di quegli adulti che molto spesso li parcheggiano davanti a tv e web senza la dovuta attenzione. Così i ragazzi raccontano storie di torture. Inventano scenari di guerra. Provano armi su palcoscenici virtuali. Fino a quando costruiscono il loro film. Che passa dal loro immaginario al mondo reale con la rapidità di un tweet.
Basta poco per imprimere nella loro memoria scene di orrore. Talmente poco che la torcia umana chiusa in una gabbia del pilota giordano arso vivo dall’Isis, ora visibile da chiunque su internet, è già diventata oggetto di gioco. Certamente svago poco creativo. 
Comunicare gli orrori delle guerre è un dovere dell’informazione. Fare vedere certe immagini di quegli stessi orrori è scelta mediatica, non culturale. Se si deve raccontare di un uomo arso vivo, non servono foto o video per immaginare l’efferatezza di quell’azione. Non si aggiunge niente al raccapriccio facendolo vedere. Anzi, si toglie qualcosa. La possibilità di immaginare che non sia vero, la speranza che l’uomo non sia capace di essere proprio così bestiale. Ma la legge dell’audience e del video “più-cliccato” fanno della video-documentazione un pretesto per aumentare il fatturato. Se è apprezzabile la scelta di Mentana nel tg La7 di non mostrare quel filmato, non si capisce come nella stessa rete, in prima serata, Servizio Pubblico di Santoro sceglie di annunciare che il video integrale è reperibile sul web. Per prendere coscienza delle atrocità della guerra e dei mostri che la combattono è forse indispensabile fare vedere il corpo carbonizzato di un uomo e sentire le sue urla mentre brucia vivo? Non si rischia di fare un favore alla propaganda dell’Isis divulgando immagini così terribili? Dietro la libera fruizione dell’informazione non si annida il gusto estremo per un sadismo perverso? Eh, già! Un film dell’orrore fa molti più incassi se tratto da una storia vera. Ma non è solo questo.
“Se avesse potuto comunicare così oggi che mondo sarebbe?” è lo slogan di un bellissimo spot di dieci anni fa per la Telecom. Lo spot è ricordato per le parole e la voce originale di Gandhi che dalla sua povera capanna, attraverso l’occhio di una webcam, proietta la sua idea di pace tra i popoli in tutto il mondo, finendo sullo schermo di un computer, sul video di un cellulare, sul maxischermo di Time Square a Londra e della Piazza Rossa a Mosca. Chissà se Spike Lee, mentre girava lo spot, avrebbe immaginato cosa, dopo dieci anni, sui maxischermi che, nella sua idea, volevano sembrare fondamentali per cambiare il corso della storia, si sarebbe proiettato. Siamo a Raqqa, in Siria, dove all’agghiacciante spot del pilota giordano Moaz al-Kasasbeh arso vivo, assiste una folla di sostenitori dell’Isis che applaudono festanti mentre le fiamme lo inghiottono. Un’esecuzione in diretta. Ora visibile anche on demand sul computer di casa. Al macabro spettacolo assistono anche bambini. Uno di essi, di soli sei anni, dichiara: “voglio catturare i piloti e bruciarli”. Come i ragazzi nel cortile sotto casa la domenica pomeriggio.
Comunicare la guerra, purtroppo, si deve. Comunicare l’orrore, per fortuna, si può evitare. È ora che anche l’informazione ne diventi consapevole.
La propaganda di guerra è una macchina terribile. Una volta messa in moto non si ferma più. Nemmeno davanti agli occhi dei bambini. Così, ad essere bruciata non è solo la vita di un uomo, ma è l’anima di quei bambini che guardano la follia omicida degli adulti scambiandola per forza. Bambini che sentono le urla di dolore di chi arde vivo ma non il puzzo fetido della viltà di chi li indottrina. Bambini che vanno a dormire senza favole e senza sogni. Con la morte negli occhi.     
 Anna Scavuzzo

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