Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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12 febbraio 2015

Reportage da Costantinopoli

Costantinopoli è un romanzo scritto da Edmondo De Amicis, in seguito a un breve soggiorno nella città di Istanbul. Il suo viaggio risale al 1874, ma il testo, tratto dalla sua esperienza, venne pubblicato tre anni dopo, nel 1877-1878, dall’editore Fratelli Treves di Milano. Conosciuto specialmente per il libro Cuore, De Amicis è meno noto per i suoi racconti di viaggio, molto presenti in tutta la sua produzione letteraria. L’autore visita la capitale ottomana in compagnia dell’amico pittore Enrico Yunk, che avrebbe dovuto effettuare degli schizzi per l’edizione illustrata del libro. Siccome morì prematuramente, questo compito fu portato a termine da Cesare Biseo nel 1882. Il libro di Edmondo De Amicis è una commistione tra vari generi letterari: il diario di viaggio, molto personale e intimo, il reportage, attento a descrivere nel dettaglio tutti gli aspetti naturalistici, sociali, culturali, architettonici della città che visita e della gente che la popola, e, non per ultimo, la guida turistica, attenta a consigliare al lettore-viaggiatore i luoghi da vedere e le cose da evitare. L’opera risulta in questo modo assolutamente moderna e attuale, nonostante risalga al XIX secolo. La caratteristica fondamentale di De Amicis è il suo costante interesse verso il pubblico ed è sempre attento a colpirne gli interessi. Si indirizza direttamente al lettore, in modo tale da coinvolgerlo in ogni passaggio e da mantenere viva la sua curiosità. Utilizza così un linguaggio semplice e diretto, spesso confidenziale, come se dialogasse con un amico. Tutto inizia con una descrizione molto profonda: "Un gran piacere per me e per il mio amico è la profonda certezza che la nostra immensa aspettazione non sarebbe stata delusa. Su Costantinopoli infatti non ci sono dubbi; anche il viaggiatore più diffidente ci va sicuro del fatto suo; nessuno ci ha mai provato un disinganno. E non c’entra il fascino delle grandi memorie e la consuetudine dell’ammirazione. È una bellezza universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, il figlio del settentrione e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno messo un grido di meraviglia. È il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra. Gli scrittori di viaggi, arrivati là, perdono il capo". Le aspettative sono elevate e l’emozione dell’autore trapela in tutte le sue parole, trasmettendola direttamente al lettore. La sua "ansia" è resa ancora più forte dalla coscienza di aspettare questo momento da oltre vent’anni e finalmente è riuscito a guadagnarsi tanta attesa. La sua prima visione di Istanbul è così perfetta che si domanda con quali parole potrà descrivere uno spettacolo simile: "Ed ora descrivi, miserabile! Profana colla tua parola questa visione divina!". Tramite queste riflessioni, molto frequenti nel diario, il suo legame con il lettore è forte, al punto tale da apparire come "uno di loro". Questa caratteristica permette di tessere un filo invisibile con il pubblico, coinvolto psicologicamente e sentimentalmente al racconto. Nelle descrizioni dei primi giorni a Costantinopoli è forte l’euforia di De Amicis, che la evidenzia con frasi come "strappa un grido all’anima", "mi saltava il cuore", "rimasi a bocca aperta". Passa così in rassegna tutta le caratteristiche sociali, civili, antropologiche, architettoniche di Istanbul. La città è un mosaico di razze e religioni e, per descrivere il gran numero di etnie presenti, utilizza la metafora della varietà di calzature che la gente indossa, sinonimo delle loro origini. Ecco il passaggio molto interessante: "Non guardavo altro che i piedi: passano tutte le calzature della terra, da quella d’Adamo agli stivaletti all’ultima moda di Parigi: babbuccie gialle di turchi, rosse di armeni, turchine di greci, nere d’israeliti; sandali, stivaloni del Turkestan, ghette albanesi, scarpette scollate, gambass di mille colori dei cavallari dell’Asia minore, pantofole ricamate d’oro, alpargatas alla spagnuola, calzature di raso, di corda, di cenci, di legno, fitte in maniera che mentre se ne guarda una se ne intravvedono cento". La prima meraviglia si tramuta presto in una riflessione sull’umanità: quella processione così carnevalesca, non è altro che la sfilata di tutte le miserie, le follie, le differenti leggi e credenze e, soprattutto, dell’epoca aurea ormai decaduta. Spesso sembra provare una sorta di malinconia verso la città durante la gloria ottomana. Il suo pensiero si lancia sovente nel passato e, di fronte ai segni evidenti della devastazione subita, prova rammarico pensando a ciò che fu. È il sentimento che prova quando visita le mura della città, e per questo consiglia la visita in solitaria, e soprattutto la moschea di Santa Sofia. Spesso si immagina come potesse essere vivere in quell’epoca. Ad esempio girovagando tra i giardini dell’antica reggia ottomana, vagheggia sui tempi che furono. Immagina che quegli atrii ai tempi fossero luogo di intrighi amorosi e di pettegolezzo, politica e questioni economiche e di giustizia, di educazione e di accordi matrimoniali. Prova così un batticuore piacevole, che risulta essere un misto di malinconia e tenerezza. Come già affermato, il testo in molti passaggi appare come un diario personale, intimo e ricco delle emozioni più profonde che prova De Amicis. Di fronte ad alcuni tramonti o paesaggi spesso sente sentimenti contrastanti di gioia e solitudine, pensa ai propri familiari e amici, effettua riflessioni profonde. Alle volte invece l’opera appare come una vera e propria guida turistica, nella quale si consigliano al viaggiatore i posti migliori da vedere. Tra di essi abbiamo un’intensa descrizione del Gran Bazar della città, dai quali è impossibile uscire senza aver comprato nulla perché si vende qualsiasi cosa: gioielli, profumi, calzature, tessuti, tappeti, pipe, armi, abiti vecchi, coltelli, spezie, e molto altro ancora. Per descrivere alcune opere o visioni, spesso le paragona a monumenti o a situazioni europee, note quindi al suo pubblico. L’esempio tipico è la rappresentazione della moschea di Santa Sofia. Per far capire al lettore la grandezza della sua cupola, la relaziona a quella di San Pietro. Guardandole da sotto, appaiono molto simili, data l’enorme circonferenza che le caratterizza. Utilizza il processo opposto per indicare gli stili di vita così diversi tra Istanbul e le principali città occidentali. Ad esempio nel passaggio: "Per chi vive la vita facile, giovanile e leggera di Costantinopoli, è poi difficile adattarsi alle dinamiche delle città europee". Qua c’è un ozio assoluto e il bagno turco rappresenta perfettamente la ricerca del piacere personale. Il supremo desiderio è la quiete e lasciar fare a Dio. Nonostante ciò vi è una vita notturna incredibile. Inoltre lo stereotipo della "nostra" mentalità porta a pensare le donne turche come molto controllate e sottomesse. In realtà dalle parole dell’autore il genere femminile appare emancipato. Le donne escono sempre da sole, anche la sera, e si incontrano con le amiche. Non le si vede mai accompagnate da un uomo. Appaiono moderne e libere. Sorridono molto ai passanti e alle volte salutano, gesto che viene spesso frainteso dagli europei. Indossano piccoli veli intorno al capo e amano acconciarsi i capelli in modi molto particolari. Nelle case vivono in luoghi separati dai mariti, con i quali si incontrano nell’harem. Tutte queste caratteristiche fanno riferimento al ceto benestante, in quanto più le famiglie sono povere, più saranno costrette a condividere gli stessi ambienti, l’educazione dei figli e gran parte della giornata. Infatti la ricchezza divide, mentre la povertà unisce. La donna è molto rispettata e mai verrebbe maltrattata. Inoltre la loro indole è ardita e feroce, anche se di primo impatto risulta dolce e mansueta. Dato il grande animo che caratterizza la città, De Amicis ritiene che sarebbe un divertimento molto curioso se ci fossero tra i turchi i gazzettini tipici del bel mondo, che conoscono tutto e parlano di tutti. In molti passaggi si denota come Costantinopoli sia uno scritto postumo al suo viaggio. Ne è esempio l’incontro con il sultano Abdul Aziz. Egli è descritto dal popolo come uomo violento e avido, però al lettore appare come buono, mansueto e modesto. Ecco il passaggio che indica la stesura in epoca successiva: "La mano destra del sultano è bianca e ben fatta e saluta. Con questa stessa mano si taglierà le vene nel bagno due anni dopo". Nel momento in cui la partenza si avvicina ogni aspetto delle giornate passate per tutti gli angoli di Istanbul, così diversi e particolari tanto da fare sembrare tante città in una sola, dà a ogni cosa un leggero colore di tristezza. È come se quelle visioni non fossero già più che ricordi di un paese lontano. Eppure alcune immagini rimangono immobili nella memoria. Ritengo questa riflessione assolutamente vera e profonda e l’ho vissuta in prima persona durante alcuni viaggi. Lascia Istanbul solo con la frase "Addio…t’abbandono", perché appare difficile spiegare tutti i sentimenti che prova in quel momento. Al termine del testo il lettore è stato trasportato in un viaggio vivo insieme all’autore, come se fosse stato partecipe con lui all’avventura. Appare sempre di sentir vive le voci, i rumori, gli odori, i profumi. Le descrizioni sono talmente passionali da trasmettere a chi le legge la voglia di partire e di andare a visitare con i propri occhi questa città. Le analisi paesaggistiche di De Amicis sono così precise da rappresentare una sorta di sequenza cinematografica. Con queste pagine di grande eleganza, fece rivivere la capitale dell’Impero Ottomano alla fine del 1800, ai viaggiatori borghesi da salotto dell’epoca, alla ricerca di esotismo.
Giulia Fraschini


Edmondo De Amici
Costantinopoli
Treves, Milano, 1877-1878.


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