Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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31 ottobre 2016

Inviati 2.0


“Il corrispondente di guerra tipo è di solito una persona modesta, cordiale, disposta a collaborare, adatta per viverci assieme”. 

Con questa definizione di Ryszard Kapuscinski si apre il libro “Inviato di guerra 2.0: dal calamaio allo smartphone”I casi delle “social netwar” in Egitto e Libia, pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Prospettiva Editrice, e scritto dall’autore Emanuele Ballacci, nato a Roma nel 1984, appassionato di lettere e curioso del mondo. Egli s’interessa alla scrittura del giornalismo sin da bambino. Dopo uno stage presso l’agenzia giornalistica 9Colonne, nel 2012 consegue la laurea magistrale in Editoria multimediale e nuove professioni dell’informazione presso l’Università La Sapienza di Roma.
Il tema centrale sul quale egli sviluppa il libro è il giornalismo di guerra: partendo dai cambiamenti che lo hanno caratterizzato nel corso del ‘900, egli prende in esame tutte le sue sfaccettature cominciando dalla figura dell’inviato di guerra della quale parlerà per buona parte del libro. Il suo lavoro, infatti, ha l’intento di chiarire e identificare questa figura, ripercorrendone la storia, passata e presente, fino ai giorni nostri. Le fasi storiche vanno a braccetto con i vari modelli del reporter, che si sono succeduti nel corso del tempo, il quale, inizialmente, non era ritenuto un vero e proprio lavoro ma uno stile di vita. La paternità del mestiere viene assegnata a William Howard Russell, giovane giornalista irlandese che seguì la guerra di Crimea.
Furono le grandi guerre a ridimensionare la figura dell’inviato in particolare con la guerra del Vietnam che diede vita alla cosiddetta sindrome del Vietnam, ossia la convinzione che le sorti del conflitto fossero state decise dall’impatto delle immagini televisive sull’opinione pubblica (condizionandole negativamente).
Proprio per questo motivo la guerra del Golfo ha visto un rigido controllo dell’informazione (news management) da una parte, mentre dall’altra i giornalisti embedded, giornalisti al seguito delle truppe.  Questi radicali cambiamenti rappresentarono le novità che decretarono un sostanziale mutamento nel modo di intendere e raccontare i conflitti.
In seguito, con l’avvento dei blog e dei social media, la professione di inviato di guerra si trasformò ulteriormente. La prima guerra definita come “la prima di Internet” è stato il conflitto in Kosovo. Essa, infatti, ha sancito la distinzione tra vecchie e nuove guerre: il reporter si è lentamente trasformato da narratore di eventi lontani a selezionatore del flusso virtuale di notizie in Rete. Significativa è stata la svolta apportata successivamente dall’introduzione del web 2.0: da quel momento blog e social media hanno lanciato una nuova rivoluzione tecnologica senza precedenti. Il blog si è imposto rapidamente nel panorama giornalistico grazie alla facilità di utilizzo, trovando la sua consacrazione nella guerra di Afghanistan e Iraq. L’avvento di social media come Facebook, Twitter e Youtube, segnerà infine la strada verso nuovi orizzonti: inediti strumenti sia per cercare e diffondere notizie sia per stabilire nuove relazioni con pubblico e fonti. L’esempio lampante di questo nuovo modo di fare giornalismo di guerra, nel nostro presente, risponde al nome di primavera araba. In particolare, i casi presi in esame da Emanuele Ballacci sono quelli dell’Egitto e della Libia. L’elemento principale che viene sottolineato dall’autore è la pervasività e l’ubiquità dei social network nella nascita e nello svolgimento dei moti rivoluzionari. Facebook nel caso egiziano e Twitter in quello libico sono stati i principali artefici dell’esplosione delle rivolte, poiché hanno permesso alle persone (in particolare ai giovani), di unirsi intorno ad un unico obiettivo, dando vita a una sorta di alleanza panarabistica moderna.
Quale sarà, quindi, la prossima fermata del giornalismo di guerra? Quali saranno i suoi sviluppi? Secondo l’autore la risposta è ignota. Come scrive anche Tiziano Terzani “Il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta; il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare”. Dal calamaio al telegrafo, dal telegrafo alle nuove tecnologie fino ad arrivare all’avvento di Internet: il mestiere del reporter è sempre stato un’eterna sfida in continua evoluzione ma sempre viva.
Il messaggio dell’autore è chiaro e conciso: le nuove tecnologie non stanno distruggendo il mondo della comunicazione (come molti pensano) ma lo stanno semplicemente “aggiornando”. Ormai tutti tramite un computer e una connessione a Internet possono essere giornalisti grazie ai nuovi mezzi multimediali ma i veri giornalisti sono quelli che, nel mondo odierno, fanno ancora la differenza. La comunicazione va sempre di pari passo con i cambiamenti che popolano il nostro mondo e la società, ma non bisogna vederlo come un fattore negativo: anzi, al contrario, bisogna accettarlo perché, come tutte le cose, ha sia elementi positivi, sia negativi. Le nuove tecnologie hanno cambiato molto questo mestiere, lo hanno al contempo facilitato e complicato perché permettono di essere molto più veloci nei contatti, nell’acquisire notizie, nel trasmetterle, permettono anche di produrre molto di più ed è questo in parte il neo: al giornale si tende a pretendere questa eccessiva produzione in poco tempo che troppo spesso sconfina nella superficialità. I vantaggi però sono enormi a partire dai collegamenti come telefoni cellulari o satellitari, Internet e l’invio di servizi in FTP. Il Citizen Journalism non viene più vistocome una minaccia ma come un cambiamento positivo che creerà in futuro nuove professioni perché, nonostante tutto ciò, le regole di un giornalismo corretto rimangono le stesse: la ricerca, la verifica, l’inquadramento del problema, la correttezza del racconto. I citizen journalist possono, perciò, diventare una fonte ma solo chi sa fare il mestiere e ne conosce e rispetta le regole potrà spiegare cosa succede. Il mestiere, così, si va riconfigurando. Sta a noi scegliere come vedere il bicchiere. Sta a noi essere ottimisti. In un mondo senza confini come questo dove tutti vengono investiti da una massa di informazione indistinta c’è bisogno di un giornalismo puntuale e serio.
A mio parere l’opera presenta una visuale molto ampia e accurata della figura del giornalista di guerra e, più in generale, del giornalismo estero. La professione ci viene presentata nelle sue molteplici “facce”grazie, anche, alle interviste finali di alcuni giornalisti che hanno esposto la propria opinione in merito a questo tema così delicato ma, al tempo stesso, così importante.
Micaela Zitti

Emanuele Ballacci
Inviato di guerra 2.0: dal calamaio allo smartphone
Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2014, 250 pp.

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