L’Italia in prima pagina-I giornalisti che hanno fatto la storia
Milano, Francesco Brioschi editore, 2008, 240 pp.
Recensione del "Corriere della sera", 2 ottobre 2008:
Amara constatazione: la stampa italiana nel Ventennio non brillò per coraggio e indipendenza. Ed era più libera quando l’Italia non era ancora fatta e gli austriaci comandavano a Milano e gli spagnoli a Napoli. È questa una delle numerose chicche del nuovo, documentatissimo libro di Pier Luigi Vercesi, L’Italia in prima pagina-I giornalisti che hanno fatto la storia (Francesco Brioschi editore, pagg. 240, 16 euro).
Del resto, non è forse vero che i giornalisti sono gli storici dell’attualità? E allora perché non ripercorrere la storia d‘Italia, o meglio l’emergere di una nazione contadina e provinciale che in pochi decenni si trovò catapultata tra i protagonisti economici e sociali del Ventesimo secolo, attraverso le mille storie delle redazioni dei giornali, dei giornalisti, dei grandi polemisti e editorialisti del Paese? Ecco allora l’idea de L’Italia in prima pagina. Vercesi, giornalista, per molti anni a La Stampa, condirettore di Specchio, vicedirettore de Il Tempo e direttore di Capital e de I viaggi del Sole, grande cultore di libri antichi, di pregio e prime edizioni (non a caso ha aperto da un paio d’anni, con l’appassionata moglie, una libreria nel cuore della Milano antiquaria, la Libreria Porta Venezia, in via Tadino, a un passo dallo Spazio Oberdan). È con quel gusto tutto intellettuale, a metà tra il cultore del passato e il giornalista affamato di notizie, che l’autore ha raccontato le mille storie dei giornali e dei giornalisti d’Italia, dal Congresso di Vienna alla Repubblica, fino a constatare che raramente le penne d’Italia hanno raccontato il Paese con gli occhi dell’osservatore imparziale.
Spesso, a ben vedere, più che osservatori i giornalisti italiani sono stati protagonisti della storia patria. Cavour, Mussolini e tanti altri nomi meno celebrati e ricordati: non erano forse, prima di essere altro, giornalisti? Come scrive Vercesi: «Gli uomini fanno la storia, diceva Marx. In particolare, si dovrebbe aggiungere, se di mestiere fanno i giornalisti». Così, anche la storia d’Italia non fa eccezione: «E’ passata dalla redazione dei giornali, che non l’hanno solo raccontata, ma suscitata e plasmata».
Certo, è un punto di vista particolare quello con cui i giornalisti scattano istantanee sul Paese, lungo un percorso costellato di guerre, regicidi, velleitarie campagne coloniali, crisi parlamentari, economiche e politiche. Sempre in prima linea, al centro del motore della storia. Ma sempre conservando il gusto per il dettaglio, l’attenzione per il particolare apparentemente futile, per gli stati d’animo dei protagonisti. Per questo il libro, scrive l’autore, non è una storia d’Italia e neppure una storia del giornalismo. È l’avventura del nostro Paese narrata e osservata dalle redazioni dei giornali. Così si scoprono aneddoti gustosi, come l’Ugo Foscolo quasi asservito agli austriaci, per via della promessa di una succulenta dote; o l’Alessandro Dumas invaghito a tal punto dell’impresa di Garibaldi da fondare a Napoli un giornale per cantarne le lodi, L’Indipendente.
Grandi avventure, grandi uomini. Come Silvio Pellico, le cui lacrime dallo Spielberg, raccolte ne Le mie prigioni, oggi sarebbero meritevoli del Pulitzer: la sua opera «è la classica inchiesta a tutto campo», scrive l’autore. Un reportage ante litteram, ben prima che Jack London, 80 anni più tardi, nel 1903 lo codificasse con il leggendario servizio sulla povertà nell’East End di Londra, fingendosi operaio per descriverne la vita e soprattutto la miseria. Oppure Luigi Albertini, che armato di ostinata caparbietà costruì sulle colonne del Corriere della Sera la vera opposizione all’onnipotente Giolitti. Ma si raccontano anche le giornate del maggio radioso, quando i grandi giornali d’Italia divennero «la mitraglia che sparava di continuo note, articoli, corsivi, commenti a sostegno dell’intervento» del Paese nella Prima guerra mondiale, al fianco di Francia e Inghilterra. Non che fossero tutti interventisti i giornali dell’epoca. La Stampa, che era il giornale di riferimento di Giolitti, per esempio non lo era. Ma quelli dell’altra sponda si facevano notare per la decisione dei toni. Il Corriere e Il Secolo, per esempio, in compagnia del più roboante di tutti: Il Popolo d’Italia diretto dal non ancora «caporedattore d’Italia», Benito Mussolini, che solo pochi anni prima inveiva contro «Giolitti e la sua banda criminale», da leader dei massimalisti, per aver portato l’Italia in guerra con la Libia. E ora si scaldava contro «Giolitti e la sua banda criminale» perché volevano tenere l’Italia fuori dalla guerra.
Poi arrivarono i tempi oscuri del duce. E la stampa si asservì diciamo pure di buon grado alla legge del nuovo padrone d’Italia, che dirigeva dal «desk» di palazzo Torlonia la redazione Italia. Con poche eccellenti eccezioni, va pur detto, come testimoniano le brevi ma intense avventure di Ordine Nuovo di Antonio Gramsci (ma anche di Umberto Terracini e Piero Sraffa, giovane e talentuoso economista che divenne presto un’icona di Cambridge) e le Energie nuove animato da un Piero Gobetti appena 17enne. Ma il lavoro di Mussolini fu rapido ed efficace: del resto era anche lui un giornalista e sapeva come prendere i colleghi. Che si adeguarono: «Non che tutti i giornalisti fossero tutti fascistissimi come Mino Maccari e Leo Longanesi - scrive Vercesi - ma tutti erano, nessuno escluso, abbastanza cinici da lavorare per il regime senza patemi d’animo. Era sulla loro indifferenza morale che faceva giustamente conto Mussolini». E così, caduta la traballante dittatura, sulla professione cadde il silenzio. Che non durò poi molto.
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