Con il riguardo dovuto a uno scrittore come Maurizio Maggiani e agli insegnanti che stanno vivendo tempi sociali e politici faticosi, gli "asini gutenberghiani", quelli cioè che non sanno chi ha inventato i caratteri mobili, hanno qualche attenuante oggettiva e dovrebbero essere assolti per insufficienza di prove.
Il terreno è insidioso, ma bisogna ammettere che non si sa con certezza chi ha inventato i piccoli parallelepipedi di piombo.
Guy Bechtel, stimato storico gutenberghiano, dichiara che non vi è alcuna prova certa che Gutenberg avesse mai impresso un libro o fuso un solo carattere.
Di sicuro nella sua tipografia magontina si stampò la Bibbia delle quarantadue linee (B42), così battezzata perché in ogni pagina dei due ingombranti volumi sono impresse quarantadue righe di testo. La memorabile impresa avvenne intorno al 1455. Ma per comprendere quanto è controversa l’origine della tecnica usata, rivoluzionaria è la tesi di Bruno Fabbiani, ricercatore del Politecnico di Torino, il quale sostiene che non furono usati caratteri mobili, ancora sconosciuti a Gutenberg, ma la stereotipia, ovvero una matrice in piombo punzonata, in uno stile gotico di ispirazione calligrafica.
La premiata Fabbrica del Libro cercò verosimilmente di taroccare un modello manoscritto, preferito dal mercato rispetto al protolibro meccanico che usciva dai torchi.
La mutazione tipografica vera e propria del libro la troveremo invece nella B49, stampata a Strasburgo intorno al 1460 da Giovanni Mentelin e qui tutti sono concordi: si usarono i caratteri mobili. Ispirati al lapidario romano, più piccoli e leggibili del gotico gutenberghiano, essi ebbero il vantaggio di ridurre il numero delle pagine, rendendo più competitiva l’edizione, sempre in due volumi.
Un esemplare di entrambe le opere, B42 e B49, è custodito nella Città del Vaticano.
Evitando di infilarsi in sottigliezze professorali, ma restando nella sostanza come suggerisce Maggiani, possiamo affermare solo che Giovanni Gutenberg diede vita a un’impresa di produzione libresca tanto innovativa da decimare le botteghe dei copisti, grazie al suo prototipo di libro tipografico. Certo è anche che questo gli costò un processo e una condanna (tutto documentato) per non aver pagato il dovuto al suo socio e finanziatore Giovanni Fust.
C’è da chiedersi quindi se il mondo della scuola possa continuare a pretendere che venga recitata la lezione della storia e cioè che sia stato Gutenberg a inventare i caratteri mobili e, ignorando l’obiettività delle indagini finora svolte, si continui a glorificarlo piuttosto che per meriti imprenditoriali, per un’invenzione attribuitagli da un’eco che inizierà solo un secolo dopo la sua morte.
Forse lui sta più a Bill Gates (accomunati dall’iniziale del cognome, non certo dalla fortuna) che alla figura dell’inventore ascetico, mito difficilmente ridimensionabile sul suo piedistallo.
Cosa deve l’umanità al tipografo tedesco?
Molto, per la sua intraprendenza, questa volta un valore, anche se di natura affaristica. Ricordando McLuhan, mentre ormai stiamo guardando la Galassia Gutenberg con lo specchietto retrovisore, le domande potrebbero essere altre: cosa è stata la tipografia (stampa per i più) per l’umanità? che relazioni ha con il linguaggio digitale, con i giornali, con i libri e i loro avatar?
Gli asini gutenberghiani potrebbero sorprenderci positivamente, questa volta.
Francesco Pirella
Per gentile concessione dell'autore, già pubblicato sul "Secolo XIX" (27.2.2010) a commento dell'articolo di Maurizio Maggiani, Gutenberg, gli studenti asini e quest'Italia che assolve, "Il Secolo XIX", 22.2.2010 [leggi ]. Francesco Pirella é conservatore di Armus-Archivio Museo della Stampa di Genova.
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