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20 dicembre 2011
Tra arte ed economia
Per il turista che arrivasse a Genova, indifferentemente per mare o per terra, potrebbe risultare difficile comprendere la ricchezza culturale, ed in particolare artistica, che caratterizza la nostra città: Genova è come il vecchio Arpagone, tutto chiuso in se stesso nel tentativo di nascondere i propri tesori allo sguardo estraneo. E’ difficile squarciare un velo così spesso di diffidenza ed è probabile, immagino, che per molti forestieri la ricerca si areni presto in un sommesso: “ Niente di speciale”. Noi sappiamo, o dovremmo sapere, come individui che vivono la città giorno per giorno e ne interpretano i sospiri, ne assecondano i lamenti e ne asciugano il sudore, quanta luce ci sia tra i vicoli del Centro Storico e quanto colore si nasconda dentro i portoni dei palazzi; il vociare incessante di lingue diverse eppure tutte profondamente legate in un abbraccio multietnico, rivela agli occhi, ed ancor più al cuore, la natura complessa di questa città, riflesso delle mille sfaccettature dell’animo umano.
In un tale crogiuolo di esperienze e di stratificazioni provenienti da epoche differenti, tra contraddizioni che si mescolano ed inebriano i sensi, il quadro d’insieme è articolato ma pur sempre armonioso. Passeggiando per gli stretti carruggi, in una domenica di dicembre già intrisa di Natale, non posso fare a meno di pensare alla vocazione commerciale di questa mia città, allo splendore ormai in parte perduto. E nella ricerca di regali, che anche per oggi non riuscirò a trovare, finisco in Piazza Campetto ed entro in un negozio della Upim. Non so perché, ma già un attimo prima di varcare la soglia provo una strana sensazione, quasi un senso di sospensione tra due mondi, tra due tempi che non dovrebbero incontrarsi. Abbacinato da una luce forte che sembra voler mettere a nudo ogni mio pensiero, resto un attimo immobile anche per potermi abituare allo sbalzo termico insostenibile. Respiro, resisto all’istinto di voltarmi e immergermi nuovamente nell’anonimato di mille viuzze e comincio ad ambientarmi. No, un attimo: queste colonne cosa ci fanno qui? Da quando i centri commerciali hanno adottato uno stile simile? Non c’è bisogno di un’indagine troppo accurata per conoscere i fatti: nel 2004 Upim decide di ristrutturare il negozio che occupa il Palazzo del Melograno. Il risultato è questo intreccio un po’ bizzarro ma non per questo meno interessante. Al piano terra, in fondo alla grande sala su cui dà l’ingresso, si può scorgere facilmente una Fontana con statua di Ercole che abbatte l’Idra. L’autore è Filippo Parodi, scultore italiano del periodo Barocco, nato a Genova nel 1630 e morto nel 1702 e noto soprattutto per le sue sculture in marmo. E la vista di questo Ercole, maestoso ed equilibrato allo stesso tempo, ne spiega immediatamente il motivo. L’aspetto più interessante, grottesco forse visto il posto in cui mi trovo, è che, contrariamente a quanto avvenne in pittura, Filippo Parodi fu l’unico artista genovese di quel periodo che si distinse nel campo della scultura. All’epoca, infatti, a Genova operavano soprattutto scultori lombardi. Giusto, quindi, riservargli un posto speciale. Ma non è tutto: basta salire le scale, piuttosto ampie affinchè non si dimentichi di trovarsi in un palazzo antico, e giunti al primo piano, rivolgendo lo sguardo sulla sinistra, si resta senza fiato nell’ammirare una Madonna della Misericordia di Savona che appare al beato Botta. Pare che, durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio, in un maschio murario sia stato scoperto questo capolavoro, contenuto in una nicchia completamente decorata.
Non capisco se sopraffatto dall’emozione o se in preda ad un inaspettato delirio ma, senza neanche accorgermene, mi ritrovo a selezionare alcuni capi di abbigliamento in mezzo al negozio. E, dopo un attimo, mi infilo in un camerino. Ma anche qui dentro la febbre consumistica viene inesorabilmente turbata: e così mi ritrovo, in mutande e scalzo, a fissare con sguardo ebete un soffitto affrescato come se fossi all’aperto, nel cuore della notte, sotto un cielo stellato. Qualcosa mi suggerisce che per questa domenica la mia sete e la mia fame sono state ampiamente soddisfatte ma che, sfortunatamente per l’economia del mio Paese, non spenderò neanche un soldo. Mi rivesto, il sorriso di un demente ancora ben stampato sul volto, e me ne torno a casa, forse un po’ frastornato ma altrettanto convinto di vivere in una città che, nel bene o nel male, non ha eguali.
Michele Archinà
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