Qual è l'atteggiamento generale tenuto dai mezzi d'informazione nel raccontare la guerra? E in che misura i media sono in grado di influenzare l'opinione pubblica?
Sono alcuni dei quesiti che Oliviero Bergamini affronta nelle pagine di questo lungo - ma mai noioso - saggio sul war reporting. L'autore prende in esame la copertura giornalistica dei maggiori conflitti armati, a partire dalla guerra di Crimea fino alle recenti e controverse operazioni militari in Afghanistan e in Iraq, soffermandosi sugli episodi più significativi ed emblematici. L'analisi non si limita a una sterile rassegna degli articoli di giornale degli ultimi 150 anni, ma scava a fondo tra le cause reali e gli interessi che stanno dietro agli eventi bellici, peraltro quasi mai esposti con chiarezza dai mezzi di comunicazione di massa.
Se il modo di fare la guerra è radicalmente cambiato dai tempi delle battaglie napoleoniche – ed è in costante evoluzione per le continue innovazioni tecnologiche nei campi militare e delle comunicazioni, per nuove dottrine strategiche e contingenze politiche – il modo di percepire i conflitti da parte dell'opionione pubblica si è trasformato in modo ancora più drastico, parallelamente alla consapevolezza per le autorità della crescente rilevanza del cosiddetto “fronte interno”.
Fino al secolo scorso la guerra era considerata una soluzione necessaria in caso di fallimento delle operazioni diplomatiche internazionali, la “continuazione della politica con altri mezzi”, secondo la disincantata definizione del generale Von Clausewitz. Con la tragica esperienza dei conflitti mondiali in termini di vittime civili, presso l'opinione pubblica è venuto meno l'appoggio aprioristico alla guerra come istituzione, e il processo di democratizzazione avviato in molti paesi occidentali ha reso necessario per i governi ottenere l'appoggio degli elettori. Da qui l'esigenza imprescindibile di giustificare un intervento armato, prima attraverso propaganda e censura, poi con l'impiego di imponenti campagne mediatiche e di tecniche di news management sempre più efficaci e sofisticate.
Ma la generale reticenza nel riportare i fatti nella loro verità ed interezza non è solo frutto degli sforzi delle istituzioni e degli stakeholders industriali. Molto spesso si verificano episodi di autocensura da parte di chi dovrebbe informare e per deformazioni ideologiche, scelte editoriali o semplice superficialità, i media, dalla stampa alla radio, dalla TV generalista a una parte del world wide web, hanno mostrato un progressivo adeguamento, spesso acritico e incondizionato, alle “versioni ufficiali” diramate dai governi e da agenzie di public relations sempre più invadenti.
A questo si aggiungono gli ostacoli oggettivi che ogni reporter di guerra incontra nello svolgimento della sua professione, come le difficoltà di spostamento e di adattamento in terre diverse e lontane, la sempre più marcata delocalizzazione delle operazioni militari e le stringenti logiche del mercato della comunicazione, senza contare i seri pericoli per la propria incolumità che si possono correre in situazioni particolarmente rischiose - come testimoniano le drammatiche vicende di Ilaria Alpi e Enzo Baldoni.
La trattazione di Oliviero Bergamini, sempre ben strutturata, conduce il lettore nei retroscena dell'informazione di guerra, demolisce i miti e i luoghi comuni più diffusi - come la convinzione che la guerra in Vietnam sia stata persa dagli Stati Uniti principalmente a causa della copertura negativa dei media “liberal” - e si sofferma sulle prospettive del giornalismo di domani.
Alessio Pucciano
Oliviero Bergamini
Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone ad oggi
Bari-Roma, Laterza, 2009.
1 commento:
Sulla questione della capacità dei media di influenzare l'opinione pubblica circa l'intervento bellico ricordo un passo del libro di Vittorio Foa, "Questo novecento", laddove l'autore rammentava, da esperienza personale, come la guerra italiana in Etiopia del 1936 fosse stata così "di grande consenso verso il regime e il suo duce".
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