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06 marzo 2015
Fantasmi nella polvere
Rotolano nella polvere. Privi
della sostanza della vita. Spesso si presentano al mondo con tute mimetiche e
veli neri. Lo schermo è il loro sudario. Non scompaiono, ma appaiono. Sono i fantasmi che popolano la
mente di chi riconosce il diritto all’apparire come unica modalità esistenziale.
Infiniti frammenti di corpi sparsi nella polvere dei deserti dell’anima o nelle
paludi melmose della vergogna. Spettri sconfitti che vagano negli schermi
postmoderni in cerca di illusori attimi di celebrità. Ombre vuote che non hanno
niente. Nemmeno la banalità del presente. L’unica vittoria è postare un video
su YouTube o lanciare un sasso su Twitter.
Per questi fantasmi l’efferatezza
della violenza è diventa un valore. Un
merito da censire. Un motivo d’orgoglio se ne
parlano i giornali e la televisione. Un eroismo se si fanno proseliti.
Così si costruiscono le pagelle
dei fantasmi del terrore. Così si catalizzano le opinioni. Così si enfatizzano
i fanatismi. Che siano i tagliagole dell’Isis o i terroristi europei o un
branco di stupratori o i bulli in età scolare che usano violenza a un disabile
o le ragazze di buona famiglia che si menano per futili motivi (e gli esempi
potrebbero continuare a lungo), poco importa.
L’equazione è sempre lo stessa. Violenza
+ selfie = Attenzione mediatica = Esistere.
Lo spot virtuale si trasforma in
testamento intellettuale. Il passaggio in prime time si converte in manifesto
ideologico. La notiziabilità dell’esistenza è data dall’impeto della
violenza.
Apparire. Farsi notare. A
qualsiasi costo. Anche della pubblica vergogna. Anche della morte. Perché tanto
morti lo sono già. E lo sanno. Quindi, rendere pubblico ciò che rimane di una
crisalide senza identità, sembra l’unica alternativa rimasta. L’unico singulto
di vita possibile. Di questo si nutrono le piovre dei regimi e delle mafie. Di
questo si drogano gli esclusi.
Preoccupa questa perversa volontà
di uscire dall’anonimato. Preoccupa ancora di più l’assuefazione alla violenza
che si cela dietro tale fenomeno. Una violenza che per diventare notizia deve
sorprendere sempre di più. Per stupire un pubblico che esiste solo nel nostro
immaginario arriva, per esempio, a bruciare vivo un uomo chiuso in gabbia o a esecuzioni
in diretta. Atrocità per far parlare di sé. Questa è la modalità esistenziale del
secolo della comunicazione e della condivisione. Dimenticando, però, che sopravvivere
nella memoria di un computer non è vivere, ne lo è la comparsa di pochi secondi
in televisione.
Forse, la soluzione che Guido
Olimpio propone per oscurare la propaganda terrorista, nel corsivo pubblicato
il 4 marzo 2015 sul Corriere della Sera (L’Isis
si batte staccandogli la spina sui media, pag.56), potrebbe essere d’aiuto
anche per i bulletti di casa nostra.
Si, staccare la spina.
Distaccarsi dall’etereo potere dei media per non legittimare tanta oscenità.
Censurare la violenza perché è
tutto fuorché espressione dell’uomo. Ritornare a comunicare con i gesti
dell’intelligenza e il cuore della sapienza. Senza la pretesa di stare sopra gli altri, ma con la
consapevolezza di stare con gli
altri. Idea immateriale che anche se non si vede in tv o non viene registrata
su un computer o scaricata come app sul cellulare, esiste ugualmente, con tutta
la forza della sua verità e la potenza della sua umanità.
Anche se non appare, non è un
fantasma. È l’idea dell’uomo che si fa vita. È il rispetto di sé e dell’altro
che si evolve in condivisione.
Se apparire su uno schermo è la
proiezione di un’identità fasulla, eliminare questa possibilità sarebbe come
sgonfiare l’arroganza di un assurdo utilizzo della violenza, prima che possa
esplodere. E senza esplosione si passa inosservati. Si rimane sacchi vuoti
afflosciati. Bisognerà trovare un altro modo per stare in piedi. Magari riconoscendo
l’equilibrio della normalità come valore e il ripristino di una cultura della
tolleranza come arma di libertà di massa.
Disattivare il canale di
sopravvivenza di questi fantasmi equivale a rendere un servizio al Paese, alla
comunità tutta. Ne gioverebbero le nuove generazioni, trovando finalmente un
punto di riferimento nella forza della consistenza intellettuale e morale
dell’uomo, riattivando l’ideale umano della dignità, sintomo distintivo
rispetto all’animale, che non si può smarrire dentro uno schermo. La dignità.
Questa si che bisogna possederla. Non come privilegio, ma come conquista.
Rendere innocuo un sistema che ha
reso l’ignoranza collettiva un punto di forza e la violenza fanatica un’attitudine
alla moda, non significa censurare la libertà di comunicazione o la possibilità
di corretta informazione, ma, al contrario, significa liberarla dalle catene
dell’idolatria all’apparenza che ne svalutano e distorcono il reale valore.
Per non sentire il rantolo di certi
fantasmi nella polvere. Per non cadere nella fossa comune dell’inesistente. Per
tutto questo, bisogna prima coesistere e consistere.
“Vivere per non apparire”.
Chissà. Potrebbe essere questo uno slogan del nostro millennio.
Anna Scavuzzo
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1 commento:
Condivido, ma penso che, in fondo, la colpa non sia solo dei media o della voglia di apparire anziché essere. Le radici del disagio sono più profonde e vanno ricercate nelle basi dell'educazione dei ragazzi, nella famiglia in primis e dietro ai banchi di scuola. Bisogna educare i bambini al dialogo, alla lettura, all'amore per gli altri, per se stessi e per la vita, forse così riusciranno a crescere avendo rispetto per la propria dignità e per quella degli altri.
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