Diplomazia digitale, ovvero l’utilizzo da parte dei governi degli strumenti Web per promuovere i propri obiettivi strategici nel panorama internazionale. Il titolo del volume di Antonio Deruda potrebbe apparire in sé contraddittorio, o come lo definisce l’autore stesso caratterizzato da “inconciliabili differenze genetiche”: la diplomazia, simbolo di riservatezza e formalità, unita ad Internet, paradigma di comunicazione veloce e molto informale. Eppure rappresenta uno dei fenomeni mediatici più interessanti degli ultimi decenni. Il diplomatico mette da parte feluca e valigetta e si avvale sempre più dei social media, riscontrando una predilezione per Facebook e soprattutto Twitter. Quest’ultimo, considerato il “social network della democrazia”, consente un tipo di comunicazione rapido e senza filtri. Grazie alle nuove tecnologie viene a crearsi una connessione diretta con i cittadini.
Deruda assembla una serie di casi partendo dalla “Rivoluzione verde” iraniana del 2009, guidata dagli oppositori del regime di Ahmadinejad. Fu l’inizio della cosiddetta Twitter Revolution, culminata poi alla fine del 2010 con le prime sommosse della “Primavera araba”. E pensare che la nascita di questo social network nel marzo 2006 era stata accolta con profondo scetticismo. L’autore ha lavorato sei anni all’Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, occupandosi di relazioni con i media e approfondendo sul campo il fenomeno della diplomazia digitale. Da questo si evince la padronanza con cui riesce a dipanare il fil rouge che lega i dieci capitoli, una vera e propria letteratura della public diplomacy. Deruda lascia spazio anche a situazioni spiritose e irriverenti: protagonisti assoluti i diplomatici britannici, che spesso e sovente gettano Londra in un profondo imbarazzo. L’ambasciatore Hughes, il quale, volendo tracciare una descrizione della capitale della Corea del Nord Pyongyang, sembra raccontare di un nuovo Eden e non una dittatura opprimente. O Mrs Frances Guy, ambasciatrice di Her Majesty in Libano, che elogia in maniera commovente il defunto ayatollah Fadlallah, vicino ad Hezbollah, scatenando l’ira delle autorità israeliane.
Non solo ambasciatori, ma anche guru della digital diplomacy come Jared Cohen e Alec Ross, scelti personalmente dal Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, possono commettere clamorose gaffe. I due, durante un viaggio in Siria, furono protagonisti di uno scambio di tweet che contestavano in maniera scherzosa alcuni costumi locali.
Un manuale così minuziosamente scritto non poteva escludere la paradossale situazione della Repubblica popolare cinese. Alla forte censura mediatica interna (la parola d’ordine del governo è wangluo zhuquan, “sovranità della rete”) si contrappone una propaganda all’estero illusoria e curata nei minimi dettagli.
Molto interessante e a mio avviso efficace, la decisione di concludere il libro con cinque proposte relative alla diplomazia digitale italiana. L’autore sembra quasi voler simboleggiare il ritorno a casa con qualche consapevolezza in più dopo un lungo viaggio svoltosi nei nove capitoli precedenti. Vi è una critica non troppo celata nei confronti dei politici di casa nostra, avvezzi a utilizzare i 140 caratteri quasi esclusivamente durante i periodi elettorali. Un grave errore è dato dal fatto che utilizzino sempre e comunque la lingua italiana, e questo tende a rendere più difficoltosa la comprensione del messaggio da parte di un eventuale pubblico estero. Malgrado ciò l’italiano rimane una delle lingue più studiate al mondo. Questa grande passione dei cittadini stranieri per la nostra lingua, può favorire una campagna di comunicazione digitale a livello globale. Campagna di comunicazione digitale che erroneamente non è stata effettuata nel 2007, con l’approvazione della moratoria universale della pena di morte da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite , in seguito a una risoluzione proposta dal governo italiano. Un grande successo diplomatico per l’Italia, tuttavia quasi dimenticato. Non solo soft diplomacy come turismo, arte, moda e design: i presupposti affinché il nostro Paese possa ritagliarsi un ruolo predominante nel nuovo scacchiere geopolitico sono evidenti.
Il volume si propone quindi come utile guida per addetti ai lavori, portando i lettori dietro le quinte della “diplomazia 2.0”. Risalendo al 2012, il libro non dedica alcuna attenzione al “social network delle immagini” Instagram, che ha visto nel 2013 il proprio anno di consacrazione. Instagram può annoverare tra le iscritte la First Lady Michelle Obama, la regina Rania di Giordania e l’attivista pakistana Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la pace. La diplomazia digitale è strettamente legata alla diplomazia visuale, la quale sta percorrendo e portando avanti il percorso tracciato dalla televisione, rimarcando il contenuto comunicativo delle immagini. Un tema così attuale in questi giorni, dove le istantanee dell’esodo dei migranti dalla Siria e dal Nordafrica scorrono davanti ai nostri occhi, più assordanti di qualsiasi tweet.
Antonio Deruda
Diplomazia digitale. La politica estera e i social media.
Apogeo, Milano, 2012 pp. 240.
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