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30 novembre 2015
Istantanee della storia della fotografia e dell’Europa
Ci sono immagini che sfuggono dalle mani di chi le ha prodotte e si trasformano in qualche cosa di più grande, divenendo simbolo universale, quasi inconsapevole, della storia. È stato il destino degli scatti praghesi di Koudelka, dell’immagine dell’anziano sarto, fotografato da McCurry durante la stagione dei monsoni in India o delle due fontanelle nel sud degli Stati Uniti, simbolo della segregazione razziale negli USA, immortalate da Erwitt. Queste sono solo una minima parte delle immagini e delle storie raccontate nell’ultimo libro di Mario Calabresi A occhi aperti. Nel volume sono raccolte le testimonianze dei più grandi fotoreporter viventi, i quali spesso sono andati oltre la semplice descrizione della loro esperienza professionale, lasciando trasparire molto della loro personalità e delle loro vite.
L’autore si affretta a chiarire già nella premessa che il suo non è un manuale di fotografia; piuttosto è un libro sul giornalismo e sulla valenza socioculturale che possono avere le immagini. Non si parla delle foto in se o delle tecniche con cui queste siano state prodotte. Si racconta «cosa è accaduto un attimo prima e un attimo dopo lo scatto» e come queste immagini siano divenute una finestra su alcuni dei fatti più importanti, troppo spesso tragici, della seconda metà del Novecento: che si tratti della primavera di Praga, della guerra civile in Libano o del treno funebre su cui venne trasportato il feretro di Bob Kennedy.
L’autore, attraverso i suoi dialoghi con McCurry, Koudelka McCullin, Erwitt, Fusco, Basilico, Abbas, Pellegrin e Salgado ci racconta il carattere degli autori e i momenti in cui il loro lavoro è diventato un fermo immagine della storia. Quando si leggono le vicende dei grandi della fotografia intervistati da Calabresi si è come trasportati in un viaggio per il mondo, attraverso epoche, guerre e continenti. Ogni fotoreporter ci fornisce della fotografia una chiave di lettura diversa, ma mai contrastante con le altre. Il punto in comune che emerge tra tutti i protagonisti del libro è il rispetto di una massima di Robert Capa: «se una foto non è buona significa che non sei abbastanza vicino».
Il libro, edito da Contrasto, si legge con piacere. Calabresi ha il merito riportarci le parole e i pensieri degli artisti senza cadere nel semplice resoconto di un dialogo: sono aggiunti dettagli, descrizioni e aneddoti che riescono a far sentire il lettore presente alla conversazione. A occhi aperti si rivolge a un pubblico ampissimo: è capace di stimolare appassionati e professionisti della fotografia ma anche attrarre coloro che di questa non si occupano. Il libro è scritto in maniera elegante e allo stesso tempo di semplice comprensione. La qualità di stampa delle fotografie è buona, anche se, vista la caratura delle immagini, un formato più grande per il volume avrebbe reso maggiormente giustizia alle foto in esso contenute e favorito la consultazione. Proprio a causa del formato, talvolta, mentre ci si trova a leggere riguardo i dettagli di uno scatto, per poterlo vedere è necessario “cercarlo” nelle pagine successive o precedenti.
Mario Calabresi, giornalista e scrittore, dirige il quotidiano torinese La Stampa, incarico che dal prossimo dicembre lascerà per passare alla direzione di Repubblica, sostituendo Ezio Mauro. A soli due anni, nel 1972, Calabresi perde il padre, Luigi, commissario di polizia assassinato dalle Brigate Rosse. Dopo aver conseguito a Milano una laurea in Giurisprudenza e una in Storia intraprende la carriera di giornalista: come cronista politico per l’ANSA e Repubblica per poi approdare a La Stampa facendo l’inviato. A occhi aperti è il quarto libro di Mario Calabresi, tra i precedenti ricordiamo: Spingendo la notte più in là, libro autobiografico sul terrorismo in Italia, e La fortuna non esiste, raccolta di testimonianze di persone che, nonostante “la crisi” e le difficoltà, sono riuscite a rialzarsi dopo insuccessi e fallimenti.
Claudio Gastaldo
Mario Calabresi
A occhi aperti
Contrasto, Roma, 2013 pp. 206.
____
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Fotografia,
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Libreria
27 novembre 2015
Giovanni Ziccardi
Internet, controllo e libertà.
Trasparenza, sorveglianza e segreto nell'era tecnologica
Raffaello Cortina, Roma, 2015, 252 pp.
Descrizione
Internet, controllo e libertà.
Trasparenza, sorveglianza e segreto nell'era tecnologica
Raffaello Cortina, Roma, 2015, 252 pp.
Descrizione
I temi della trasparenza radicale delle informazioni, della sorveglianza globale con mezzi elettronici e dell’uso della tecnologia come strumento efficace per controllare la vita quotidiana del cittadino sono diventati argomenti focali nel dibattito in corso tra mondo del diritto, della politica e della tecnologia, nonché spunti di ricerca di peculiare interesse per gli studiosi di informatica giuridica, di filosofia e sociologia del diritto, di teoria politica e di diritto costituzionale. Autorevoli accademici, tra cui i due costituzionalisti Cass R. Sunstein e Lawrence Lessig, e un informatico-giuridico, Yochai Benkler, si sono occupati, negli ultimi anni, di tali temi, e hanno fornito lucide basi per delineare il quadro esistente e per prevedere le evoluzioni future, tracciando, in un certo senso, la strada da seguire. Muovendo da un’analisi dei loro scritti e del loro pensiero, unitamente a una valutazione dei fatti politici e giudiziari più recenti, l’autore delinea un quadro critico del delicato equilibrio tra la tecnologia come strumento di controllo e di sorveglianza e i diritti fondamentali dell’individuo, tra libertà di manifestazione del pensiero ed esigenze di sicurezza nazionale.
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15 novembre 2015
Allerta 2
Se in una tiepida domenica d’autunno, mentre tranquillamente passeggiamo con il nostro cane, assaporiamo la sensazione di calma che ci regala la risacca del mare. Se ci accostiamo a una piazza per parlare con gli amici. Se partecipiamo a un evento sportivo, se andiamo a visitare un museo…Se viviamo “normalmente” e tutto questo ci sembra ovvio e banale, quasi noioso, proviamo a pensare a quanto diamo per scontata la nostra libertà. Ad essa ci siamo abituati così tanto che quasi non la percepiamo più. Soprattutto, non ci rendiamo conto quando stiamo per perderla. Soprattutto, non vediamo l’ombra di un possibile regime che incombe, famelico delle nostre paure, bramoso di distruggere le nostre democrazie.
Allerta 2, fino a un paio di
giorni fa, faceva pensare all’imminente passaggio di qualche forte
perturbazione. Ci si preparava alle giornate di pioggia intensa e ai probabili
effetti collaterali di allagamenti, frane, alberi abbattuti. Oggi, allerta 2,
ci fa pensare ai preparativi per una guerra dove gli effetti collaterali sono
la paura, il terrore, la morte. Contro l’allerta meteorologico possiamo
predisporre misure precauzionali ed evacuazioni. Possiamo rafforzare argini,
erigere barriere, evitare spostamenti, bloccare ferrovie. Contro l’allerta da
guerra scandagliamo mari e orizzonti, controlliamo bagagli e persone, chiudiamo
frontiere e costruiamo muri sempre più alti, predisponiamo eserciti, navi,
aerei.
Entrambe le allerte ci fanno
paura. Ma c’è qualcosa di più nell’allerta 2 proclamato dopo i fatti di Parigi.
Qualcosa che non passa come fa una perturbazione. Qualcosa che rimane impresso
nelle nostre coscienze. È la paura che pervade uno stato di insicurezza e precarietà permanente. È la paralisi
dell’azione. Avere paura, sempre. Questo è il vero nemico. Il tarlo che
lentamente mangia la nostra democrazia.
A tutto ciò è necessario reagire.
Non con le armi. Non con i vertici sulla sicurezza. Non con il filo spinato sui
muri. Non chiudendoci in noi stessi. La paura, affinché non diventi panico o
terrore, la si vince affrontandola. Possiamo dimostrare a chi ci vuole
assoggettare al martirio incondizionato quanto sia grande la nostra volontà di
essere e rimanere liberi.
Quanta forza e potenza sia
contenuta nella nostra democrazia. E la violenza del terrorismo sarà come una
tempesta che, o presto o tardi, deve finire. Ma per realizzare tutto questo
serve essere uniti e determinati, non facilmente impressionabili.
Avere il cuore di Parigi e le sue
luci sempre accese nella mente. Come splendida icona della conquista quotidiana
della libertà. Sarà allora che quel vivere “normalmente” ci sembrerà meno ovvio
e banale. E la paura una parola sconfitta e noiosa.
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11 novembre 2015
La scomparsa dei giornali di carta
I giornali di carta sono destinati a scomparire? È una domanda che si sono posti in molti con la crisi dell'editoria, che negli ultimi vent'anni ha costretto molti giornali a chiudere o, almeno, a ridimensionare il proprio organico. L'editore del "New York Times", Arthur Sulzerberg, nel 2007 diceva di non essere sicuro del fatto che di lì a cinque anni il suo giornale sarebbe ancora stato pubblicato in versione cartacea. Il successo di internet, infatti, suggeriva che i lettori del quotidiano si sarebbero spostati sul web. Più ottimistica la profezia di Philip Meyer, esperto del mondo dell'editoria statunitense, che ipotizzò negli stessi anni che l'ultima copia del più potente giornale americano sarebbe stata stampata nel 2043. Nel 2007, Vittorio Sabadin, all'epoca vicedirettore de La Stampa, pubblica il saggio L’ultima copia del New York Times, inserendosi nel dibattito. Il libro è una riflessione sul destino non solo del giornale di carta, ma del giornalismo stesso. L'autore, con una trentennale esperienza nelle redazioni, testimone dell'evoluzione dell'editoria, dal piombo all'online, cerca di individuare le debolezze dei quotidiani del Duemila e gli elementi che hanno messo in discussione la loro supremazia e credibilità.
Secondo Sabadin, le persone non leggono più i giornali perché non ne hanno il tempo. La tecnologia le tiene troppo occupate, non le lascia mai sole. Ma questo non significa che abbiano smesso di informarsi. Gli under 35, che di rado acquistano i quotidiani, sentono il bisogno di aggiornarsi sulle ultime notizie. Semplicemente, non ritengono che sia il caso di pagare per leggerle. Hanno a disposizione blog, social network, siti delle più famose testate, il tutto aggiornato in tempo reale e fruibile gratuitamente. Perché, dunque, comprare un giornale? "Rispetto ai loro nuovi concorrenti – scrive Sabadin, – i giornali sono rimasti molto indietro: sono lenti, costosi da produrre, difficili da consumare. Richiedono tempo e impegno, molti sono ancora in bianco e nero, come un secolo fa. Hanno poco appeal per le nuove generazioni, incapaci di concentrarsi – come sanno bene gli insegnanti – per più di qualche minuto su qualcosa e per nulla disposte a sorbirsi la lettura di articoli lunghi e apparentemente noiosi".
In questo scenario, le redazioni hanno il dovere di rinnovarsi. Le strade da percorrere sono due: migliorare il prodotto cartaceo, rinunciando al giornalismo che si basa sui lanci d'agenzia in favore di quello fatto "per strada", tra le persone, su temi utili per i cittadini e con inchieste capaci di garantire la buona salute della democrazia, oppure cambiare forma.
Fino ai primi anni del Duemila, la redazione del cartaceo costituiva il 90% dei costi per gli editori, mentre quella dell'online solo il 10%. La percentuale doveva cambiare: dopo una riduzione generale dei costi per rispondere al calo delle vendite, bisognava far sì che l'online diventasse un traino per il cartaceo e non viceversa. Sabadin, su questo, si pronuncia in favore di una redazione "mista", composta da giornalisti che aggiornano il sito e da altri che trascrivono su carta.
Il tutto tenendo conto che le persone, oggi, sono circondate da una marea di notizie, grazie alla free press, a disposizione in metropolitana, in stazione, allo stadio o nelle piazze principali; a canali all-news, con tg 24 ore su 24; radio; blog e, soprattutto, tanti giornali online. Il giornale cartaceo deve distinguersi, provando che vale la pena di spendere per averne una copia, tenendo presente però che il mondo è totalmente cambiato e che nessuno è disposto a dedicare più di 20 minuti alla lettura di un giornale – alcuni studi dimostrano che per leggere dalla prima all'ultima pagina il "Washington Post" servono 24 ore.
Secondo Sabadin, le persone non leggono più i giornali perché non ne hanno il tempo. La tecnologia le tiene troppo occupate, non le lascia mai sole. Ma questo non significa che abbiano smesso di informarsi. Gli under 35, che di rado acquistano i quotidiani, sentono il bisogno di aggiornarsi sulle ultime notizie. Semplicemente, non ritengono che sia il caso di pagare per leggerle. Hanno a disposizione blog, social network, siti delle più famose testate, il tutto aggiornato in tempo reale e fruibile gratuitamente. Perché, dunque, comprare un giornale? "Rispetto ai loro nuovi concorrenti – scrive Sabadin, – i giornali sono rimasti molto indietro: sono lenti, costosi da produrre, difficili da consumare. Richiedono tempo e impegno, molti sono ancora in bianco e nero, come un secolo fa. Hanno poco appeal per le nuove generazioni, incapaci di concentrarsi – come sanno bene gli insegnanti – per più di qualche minuto su qualcosa e per nulla disposte a sorbirsi la lettura di articoli lunghi e apparentemente noiosi".
In questo scenario, le redazioni hanno il dovere di rinnovarsi. Le strade da percorrere sono due: migliorare il prodotto cartaceo, rinunciando al giornalismo che si basa sui lanci d'agenzia in favore di quello fatto "per strada", tra le persone, su temi utili per i cittadini e con inchieste capaci di garantire la buona salute della democrazia, oppure cambiare forma.
Fino ai primi anni del Duemila, la redazione del cartaceo costituiva il 90% dei costi per gli editori, mentre quella dell'online solo il 10%. La percentuale doveva cambiare: dopo una riduzione generale dei costi per rispondere al calo delle vendite, bisognava far sì che l'online diventasse un traino per il cartaceo e non viceversa. Sabadin, su questo, si pronuncia in favore di una redazione "mista", composta da giornalisti che aggiornano il sito e da altri che trascrivono su carta.
Il tutto tenendo conto che le persone, oggi, sono circondate da una marea di notizie, grazie alla free press, a disposizione in metropolitana, in stazione, allo stadio o nelle piazze principali; a canali all-news, con tg 24 ore su 24; radio; blog e, soprattutto, tanti giornali online. Il giornale cartaceo deve distinguersi, provando che vale la pena di spendere per averne una copia, tenendo presente però che il mondo è totalmente cambiato e che nessuno è disposto a dedicare più di 20 minuti alla lettura di un giornale – alcuni studi dimostrano che per leggere dalla prima all'ultima pagina il "Washington Post" servono 24 ore.
Il libro è stato pubblicato ormai quasi dieci anni fa. La testimonianza lucida e mai di parte di Sabadin svela al lettore fatti conosciuti solo a chi è stato testimone, come lui, di molte "ere del giornalismo". Leggere L'ultima copia del New York Times significa confrontare le previsioni e le aspettative di dieci anni fa con la realtà di oggi. Forse, all'epoca, si sopravvalutò il ruolo delle free press, che si pensava avrebbero messo a dura prova la sopravvivenza dei giornali. In realtà, oggi, in Italia, sono proprio i quotidiani gratuiti a essere in forte crisi – "City", la free press di Rcs, ha chiuso nel 2012, dopo undici anni di attività. 24 Minuti, l'edizione gratuita pubblicata dal gruppo del Sole 24 Ore e lanciata nel 2006, ha chiuso nel 2009. Simile la sorte di "Epolis", chiuso poco dopo. Insomma, era errato pensare che questi giornali gratuiti, dagli articoli brevi e semplici, quasi superficiali, potessero scalzare i grandi giornali. La free press ha provato sì a rispondere ad alcune esigenze del lettore di oggi – costo zero, rapidità, facile reperibilità -, ma forse era troppo ambizioso pensare di fare un giornale senza tener troppo conto della qualità e delle grandi firme.
Le previsioni dell'editore del "New York Times", ora siamo in grado di dirlo, erano errate, così come quelle di tanti altri che hanno sostenuto in questi anni versioni apocalittiche per la stampa. Non sappiamo se l'opinione di Meyer si rivelerà più azzeccata, se davvero nel 2043 il quotidiano più potente d'America sparirà nella sua versione cartacea. Quel che è certo è che, nonostante la crisi, i lettori sembrano avere ancora bisogno di fonti autorevoli, delle opinioni delle grandi firme del giornalismo. Nel 2007, quando è stato pubblicato il libro, ci si aspettava una rivoluzione molto più veloce, si aveva una grande fiducia nella tecnologia. La si considerava una forza inarrestabile, che avrebbe rapidamente fatto scomparire i vecchi modelli di giornalismo. In realtà, il cambiamento sta avvenendo in modo molto più lento di quanto ci si aspettava. E nessuno sa dire che ne sarà del futuro dei giornali. Sono in atto molti esperimenti, dalla fruizione del giornale tramite social network (sono in via di definizione gli accordi tra Facebook e grandi giornali di tutto il mondo) alla digitalizzazione del cartaceo ("Il Sole 24 Ore" ha portato moltissimi dei suoi lettori su tablet e cellulare). Oggi si ha la consapevolezza che non c'è un futuro certo all'orizzonte – né per i giornali, né per i libri, che non sono certo scomparsi con l'arrivo degli ebook.
Le previsioni dell'editore del "New York Times", ora siamo in grado di dirlo, erano errate, così come quelle di tanti altri che hanno sostenuto in questi anni versioni apocalittiche per la stampa. Non sappiamo se l'opinione di Meyer si rivelerà più azzeccata, se davvero nel 2043 il quotidiano più potente d'America sparirà nella sua versione cartacea. Quel che è certo è che, nonostante la crisi, i lettori sembrano avere ancora bisogno di fonti autorevoli, delle opinioni delle grandi firme del giornalismo. Nel 2007, quando è stato pubblicato il libro, ci si aspettava una rivoluzione molto più veloce, si aveva una grande fiducia nella tecnologia. La si considerava una forza inarrestabile, che avrebbe rapidamente fatto scomparire i vecchi modelli di giornalismo. In realtà, il cambiamento sta avvenendo in modo molto più lento di quanto ci si aspettava. E nessuno sa dire che ne sarà del futuro dei giornali. Sono in atto molti esperimenti, dalla fruizione del giornale tramite social network (sono in via di definizione gli accordi tra Facebook e grandi giornali di tutto il mondo) alla digitalizzazione del cartaceo ("Il Sole 24 Ore" ha portato moltissimi dei suoi lettori su tablet e cellulare). Oggi si ha la consapevolezza che non c'è un futuro certo all'orizzonte – né per i giornali, né per i libri, che non sono certo scomparsi con l'arrivo degli ebook.
Andrea Giardini
Vittorio Sabadin
L' ultima copia del «New York Times».
Il futuro dei giornali di carta Donzelli, Roma, 2007, 167 pp.
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