Il lavoro che svolge Fisk è certosino. Non espone semplicemente i fatti nudi e crudi, ma li basa su prove. Porta al banco della giuria articoli, documenti, interviste, estratti di dibattiti politici, rapporti della Croce Rossa Internazionale o dell'Unicef. Una enorme massa di materiale che non lascia spazio a personali giudizi. Basta farle parlare perché dicano la verità. Il libro quindi è pesante (anche moralmente), ma pure addolcito dalla penna di Fisk. Alleggerisce la cronaca quasi romanzandola. Conduce per mano il lettore, come Virgilio fa con Dante, fra i soldati iraniani gassati da quelli iracheni nella prima (quella vera) guerra del Golfo, oppure sulla uterina carlinga dell'Apache statunitense dalla quale la guerra pare un campo del Risiko e ci si sente un dio, per poi passare dalle
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10 giugno 2017
Rober Fisk, il tafano inglese
Robert
Fisk è uno dei più autorevoli giornalisti in tema di Medioriente. Vive a
Beirut, conosce perfettamente l'arabo e la società mussulmana, ma soprattutto
ha passato gli ultimi trent'anni sui principali fronti dell'Asia Minore – prima
per il Times e poi per l'Indipendent – ed è stato l'unico
giornalista occidentale a intervistare Osama Bin Laden, per ben tre volte.
Nelle sue Cronache mediorientali l'autore regala uno spaccato
obiettivo e completo della storia di questa regione negli ultimi cento anni
almeno. Una storia nella quale l'Occidente ha avuto un peso consistente e dalla
quale ne esce con un ritratto tutt'altro che lusinghiero. Egli, pugnace e
approfittatore, pare una sorta di amante per il Medioriente, spirituale e
orgogliosa: le promette più volte libertà e democrazia, ma sono vane speranze.
Sì, perché lui ha ben altri fini, più materiali. Caso emblematico è la prima
guerra del Golfo quando l'immensa coalizione occidentale andò in Iraq nel 1990
per difendere l'indipendenza del Kuwait e liberare il popolo iracheno dal suo
dittatore. Peccato che non si era mai mosso un dito per il problema
palestinese, risolto sulla carta già dal 1967 dalla risoluzione 242 dell'Onu, e
che aveva privato centinaia di famiglie arabe della loro casa, del loro paese,
della loro storia a vantaggio del sogno sionista. In realtà il vero obiettivo
non era la tutela del diritto internazionale, ma quello di mantenere immutato
il valore monetario del petrolio. E qual è stato il frutto di questo di questa
campagna per il Bene e per la Pace? Ottocento tonnellate di esplosivo (più di
quelle usate nella seconda guerra mondiale) utilizzate sulle città irachene,
senza discriminazione tra obiettivi militari e civili. La distruzione delle
infrastrutture del paese e quindi la sua messa in ginocchio. Ma la cosa
peggiore è forse il mezzo milione di bambini morti di cancro negli anni
seguenti per via dei bossoli e i brandelli di bombe occidentali all'uranio
impoverito, con i quali hanno giocato attratti dalla loro lucentezza. Bambini
che non hanno potuto neppure godere di una cura adeguata per via delle sanzioni
e l'embargo dei farmaci varati dall'Onu su richiesta degli Stati Uniti.
Ma questa è solo una delle decine di cicatrici ancora
sanguinanti che tingono qua e là il Medioriente. Fatti passati completamente in
sordina o chiamati al massimo semplici fatalità, “effetti collaterali”, come
fossero cataclismi naturali che non si potevano evitare. E Fisk è ben conscio
del fatto che ancora fanno male all'Umma (la comunità mussulmana), che dovevano
avere ineluttabili conseguenze drammatiche nei nostri paesi. Il motivo è presto
detto: ci siamo fatti odiare.
Il merito più grande dell'autore è forse quello di
dire ai suoi lettori: “Aprite gli occhi! Non esistono nella realtà i buoni e i
cattivi, come nelle favole”. Quando andiamo a fare la guerra per armi di
distruzione di massa inesistenti, uccidendo migliaia di civili che non hanno
una colpa al mondo, non siamo “buoni”. Quando ce ne infischiamo delle ruspe
israeliane da noi finanziate che radono al suolo le case palestinesi, con
all'interno bambini e paraplegici, non siamo “buoni”. Quando lasciamo che il
dittatore di turno violi per decenni ogni minimo diritto umano nelle camere di
tortura perché ci fa comodo, non siamo “buoni”. Anche i terroristi – termine
fra l'altro capzioso, che tronca fin dal principio qualsiasi forma di dialogo
ed esame critico perché tocca nel corde della paura – sono persone come tutti
noi e non, come spesso sono dipinti, “bestie” composte di pura malvagità
viscerale, semplicemente “cattivi”. Se fanno qualcosa, soprattutto un gesto
estremo come quelli che ormai siamo abituati a vedere, esiste un motivo alla
base, per quanto sia inaccettabile il risultato, un motivo che noi gli abbiamo
servito su un piatto d'argento. Allora la regola aurea secondo Fisk, quella che
ci permette di vedere al di là della coltre illusoria che governi e media ci
ondeggiano davanti agli occhi tutti i giorni, è chiedersi perché. Solo così ci
si può liberare dallo spauracchio del terrore che non ci fa pensare
razionalmente. Ma questo ovviamente non lo possiamo fare. A ogni nuovo
attentato si spendono ore di trasmissione e fiumi d'inchiostro per parlare di
tanti elementi marginali, girando torno torno al “perché” senza mai arrivarci.
Farlo significherebbe chiedersi come mai le nostre linde bandiere sono
imbrattate da così tante macchie di sangue innocente, bisognerebbe vedere in
faccia la realtà, cioè che noi abbiamo fatto di peggio.Il lavoro che svolge Fisk è certosino. Non espone semplicemente i fatti nudi e crudi, ma li basa su prove. Porta al banco della giuria articoli, documenti, interviste, estratti di dibattiti politici, rapporti della Croce Rossa Internazionale o dell'Unicef. Una enorme massa di materiale che non lascia spazio a personali giudizi. Basta farle parlare perché dicano la verità. Il libro quindi è pesante (anche moralmente), ma pure addolcito dalla penna di Fisk. Alleggerisce la cronaca quasi romanzandola. Conduce per mano il lettore, come Virgilio fa con Dante, fra i soldati iraniani gassati da quelli iracheni nella prima (quella vera) guerra del Golfo, oppure sulla uterina carlinga dell'Apache statunitense dalla quale la guerra pare un campo del Risiko e ci si sente un dio, per poi passare dalle
stelle alle stalle, cioè a terra direttamente sotto il fuoco “nemico”, dove davanti alla paura della morte niente funziona più come prima e tutto perde di senso.
Appare quindi scontata, se non addirittura un dovere morale, la lettura di questa opera, nonostante la fatica e il dolore e la vergogna che attanagliano il lettore di pagina in pagina. Questo per lo meno se si vuole riuscire a collocare le singole notizie con cui i notiziari ci bombardano nel loro reale contesto. Per giudicarle in modo obiettivo e non di pancia. Senza conoscere i passi che hanno portato a quel punto nella strada della Storia, non si può che dare giudizi scorretti e persino razzisti perché non li si può capire nella loro essenza. Se non sappiamo, le nostre parole si possono facilmente tramutare in ferri che sciolgo le carni di nuovo, corde che stringono i colli di nuovo, bombe che dilaniano i corpi di nuovo, gettando fango sugli innocenti.
Matteo Blasigh
Robert Fisk
Cronache
mediorientali. Il grande inviato di guerra inglese
racconta cent'anni
di invasioni, tragedie e tradimenti
Il Saggiatore, Milano, 2006, 1180 pp.
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