Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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04 settembre 2017

Se una donna racconta la guerra in Siria

«Il solo modo per non avere paura, qui, è non pensare. Che è però anche il modo migliore perché questa guerra non finisca più. E quindi il vero coraggio, ad Aleppo, è non abituarsi: avere paura, pensare ». Bahia, ventiquattro anni, ha le idee chiare e la giornalista se ne è accorta.
È decisamente un ambiente allucinato e allucinante quello che circonda i giornalisti che osservano e vivono e scrivono le guerre. Francesca Borri propone un resoconto senza compromessi di una terra dilaniata dalla guerra dal 2011, la Siria. Registra e racconta, in qualità di giornalista freelance, cinque stagioni (Autunno, Inverno, Primavera, Estate e di nuovo Autunno) tra il 2012 e il 2013, ad Aleppo. Vive da vicino questo conflitto, e rimane anche ferita durante uno scontro tra cecchini che
segue in diretta e che riporta, con grande lucidità, nel suo resoconto.
Una guerra “per procura”, come la definisce l’autrice, in cui sono in gioco gli interessi di un intero popolo contro gli interessi di pochi, di una Coalizione Nazionale che vuole tenere le fila dell’opposizione non in Siria bensì dalla Turchia, e con un Esercito Libero nato da formazioni di ribelli anti-Assad, verso cui la stessa popolazione civile nutre diffidenza. I ribelli, racconta la giornalista, sono spesso ventenni in t-shirt e ciabatte che imbracciano un Kalashnikov, e che si aggirano per Aleppo sulle loro jeep per torturare e a volte giustiziare chiunque sia sospettato di collusione con il regime. Soprattutto, sono accusati da una parte della popolazione di aver consegnato il regime agli uomini di Al-Qaeda. Quello che descrive è quindi un paese diviso: una metà, quella sotto il controllo del regime, dalla apparente superficie liscia; l’altra metà, ruvida e opaca, dominata dai ribelli. E i confini tra queste due metà sono terribilmente sfumati.
Francesca Borri tenta di far emergere i vari strati della complessa situazione non solo siriana, ma Mediorientale: una terra, si sa, dove sembra praticamente impossibile sbrogliare la matassa di culture, religioni e correnti religiose, mani occidentali che agiscono da lontano e interessi particolari.
È davvero una «guerra dentro»: non solo quella che penetra l’animo, che fa sgranare gli occhi e mozza il fiato davanti ai morti, alle atrocità di ospedali bombardati e ai civili inermi che aspirano alla sopravvivenza, ma anche quella di chi, decidendo di raccontare un conflitto complesso e polveroso, di difficile interpretazione, si scontra con le vite di persone comuni coinvolte in una guerra che sembra non avere un inizio e nemmeno una fine. L’autrice si confronta con due realtà: quella dei civili, dei militari più o meno improvvisati, e quella di altri giornalisti, stranieri anche loro, che arrivano talvolta impreparati a raccontare ai loro lettori un conflitto dai confini incerti, che qualche volta stentano a capire gli stessi siriani. Reporter che preferiscono i morti alle analisi, per darli in pasto a telespettatori impressionati, scorci di “vita vera”, insomma, “un po’ di colore”.
Nel libro viene messa in risalto la deleteria tendenza dei media alla semplificazione, la mancanza di approfondimenti che permettano ai lettori di farsi un’idea di cosa stia succedendo in questa parte di
mondo, la nettezza dei giudizi sulla guerra che scaturiscono durante i talk-show e altre “arene” mediatiche.
La seconda parte del libro è caratterizzata da toni più appassionati, quasi intimistici, frutto della riflessione seguita alle terribili vicende vissute durante i mesi ad Aleppo. L’autrice lamenta, soprattutto, una scarsa collaborazione con gli altri colleghi, il cinismo che come un veleno inodore penetra nei comportamenti dei giornalisti, e anche lei sente di esserne coinvolta, suo malgrado.
Ma ci sono anche fotogiornalisti che svelano con coraggio l’orrore, come il fotoreporter Alessio Romenzi, il cui reportage dalla Siria pubblicato su Time, racconta l’autrice, è stato determinante nella sua scelta di conoscere più a fondo cosa stesse accadendo in questa zona del Vicino Oriente. L’autrice si trova quindi spalla a spalla con bambini costretti a diventare adulti troppo presto, studenti che tra un turno al Kalashnikov e l’altro leggono Habermas, con famiglie che trovano rifugio tra le tombe e insegnanti di inglese che diventano cecchini per vendicare la propria famiglia. Ognuno di loro ha la propria storia da raccontare, ma nonostante le condizioni in cui vivono, i siriani non cedono all’indifferenza nei confronti della realtà politica, si costruiscono una propria opinione.
E dal racconto, un po’ si ha l’impressione di sentire i proiettili che si conficcano sui muri, gli spari, i colpi di mortai, i raid degli aerei che sfiorano i tetti delle case e liberano il loro terribile ventre... Per viaggiare fino alla frontiera con la Turchia, che dista meno di cento chilometri da Aleppo, ci vogliono circa 300 dollari. Eppure, anche solo attraversare una strada, ad Aleppo, può rivelarsi fatale.
Ci si può domandare se il fatto che l’autrice sia donna possa averle fatto scrivere in modo diverso, in modo forse troppo appassionato, coinvolto. Se anche fosse così, va bene lo stesso. La sua è una voce, un punto di vista che permette di costruirsi un mosaico della situazione, di quella guerra vicina e lontana al tempo stesso, una guerra che quasi ci ha stancato, tanto ne sentiamo parlare. Infatti se ne parla sempre meno, i nuovi protagonisti sono ragazzi che uccidono innocenti in nome di Allah nelle pulite città europee.
La voce delle donne gioca un ruolo non marginale, anche se non vengono prese sempre sul serio, nemmeno quando condividono le trincee con gli uomini. Però le donne ci sono eccome nel reportage: Mona e Ghofran, che si avventurano fuori dalla loro casa in cerca di cibo; Zara, infermiera; Bahia, che, come abbiamo detto all’inizio, ha le idee chiare; il cecchino “Guevara”, professoressa di inglese entrata nell’Esercito Libero per vendicare i figlioletti morti in un bombardamento aereo; o, ancora, Loubna Mrie, attivista alawita (come la famiglia Assad) ma schieratasi contro il governo.
Il libro riesce a coniugare bene il racconto dei primi mesi della lunga battaglia di Aleppo, terminata solo nel dicembre del 2016 con la riconquista della città da parte delle forze governative, con le riflessioni maturate dall’autrice sul mestiere del giornalista, un mestiere che per molti è diventato quasi “da mercenari dello scoop”, l’importante diventa tagliare per primi il traguardo per avere un posto in prima pagina. Il libro nasce dalle domande che si pone l’autrice, come cittadina e come giornalista, e che essa pone a chi le sta davanti, anche ai suoi lettori: «Perché è questa l’unica cosa da raccontare, di una guerra, il solo pezzo che davvero avrei voluto scrivere (...): voi che potete, voi
che domani siete vivi, ma che aspettate? Perché non amate abbastanza?»
Arianna Barone

Francesca Borri 
La guerra dentro
Bompiani, Milano, 2014, pp. 238.
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