Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini, nel saggio Liberi
di crederci. Informazione internet e post-verità, ci spiegano che verità e
internet non spesso vanno d'accordo.
L'avvento di internet, ma soprattutto dei social
network, da un lato ha facilitato l'accesso a una grande massa di informazione
senza mediazioni, con l'illusione che questo portasse a una maggiore conoscenza
e al trionfo dell'uomo comune, che erode spazio all'élite tradizionale.
L'altra faccia della medaglia però è molto più oscura
di quanto ci si aspettasse quando, all'inizio degli anni Novanta, si pensava
all'internet come potente mezzo per la diffusione dell'informazione.
Come spiegano gli autori, il problema non sta tanto
nel mezzo adoperato (internet e i social network), quanto nell'uso che se ne
fa: tanti sono i riferimenti all'interno del testo a meccanismi psicologici e
comportamentali con cui l'uomo regola l’assimilazione e la gestione delle informazioni,
da sempre.
Si parla di bias (definizione di Martic
Haselton, Daniel Nettle e Damian Murray) che guidano l'interpretazione di
quello che circonda l'uomo in base alle informazioni che si possiedono.
Si parla di post-truth o pensiero illusorio,
entrato nell'Oxford Dictonary nel 2016 e indicato come meccanismo mentale che è
parte della natura dell'uomo.
Ma soprattutto si parla di disinformazione: un
problema tanto grave al punto che già nel 2013 il World Economic Forum
inserisce questo termine (e le sue conseguenze) tra le principali minacce
globali.
In questo saggio non vengono raccontate cose nuove,
bensì si trattano tematiche ancora oggi molto attuali, sebbene la pubblicazione
sia del 2018 (a distanza di un anno la situazione pare essere sempre la stessa).
Fake news, fact checking, cyber terrorismo, debunking, citizen journalism sono
solo alcuni dei termini che si sentono citare ogni giorno, su tutti i media.
Interessante però come venga sottolineato un punto
molto importante: quello che accade su internet è solo un riflesso, amplificato
fino a distorcerlo, di ciò che in realtà avveniva già prima della nascita della
rete.
I cosiddetti “bias cognitivi”, i pregiudizi che
condizionano la nostra vita, accompagnano da sempre l'uomo, tutti i giorni,
anche nelle scelte più banali.
Il nostro mondo attuale, fortemente iperconnesso, non
fa altro che mettere in luce le debolezze e le potenzialità di un nuovo modo di
accedere alle informazioni, un ambiente ricco di incendi digitali alimentati
da un altro grave problema: l'analfabetismo funzionale.
Anche questo termine non è nuovo all'interno del
“mondo web”: L'Espresso a tal proposito ha dedicato un articolo a questo dramma
(non solo italiano) spiegando che “Gli
analfabeti funzionali sono sì capaci di leggere e scrivere, ma hanno difficoltà
a comprendere testi semplici e sono privi di molte competenze utili nella vita
quotidiana. (...) Sono gli analfabeti funzionali, quegli italiani che non sono in grado di capire il
libretto di istruzioni di un cellulare o che non sanno risalire a un numero di
telefono contenuto in una pagina web se esso si trova in corrispondenza del
link “Contattaci”
Molto interessante anche un altro tema che si collega
ai bias, una naturale tendenza dell'uomo all'apparire e dare senso alle
cose in base a come ci vedono gli altri.
I social network non solo danno spazio alla
disinformazione, ma anche a derive narcisistiche e a una continua promozione
personale, in cui la celebrità è alla portata di tutti e si ha l'illusione di
una democrazia.
Un documento del 2013 della University of Michigan
evidenzia che gli utenti sceglierebbero i media in base alle proprie esigenze
narcisistiche: piacere, autopromozione, escamotage gratificanti sembrano
guidare le stesse dinamiche della produzione e condivisione di informazioni
attraverso i social network, spesso a scapito dei contenuti e dei fatti.
La smania di prendere posizione e commentare sul web
non risparmia nemmeno i politici, che strumentalizzano i fatti per un ritorno
personale, per avere sempre maggior consenso, disinteressati dalle implicazioni
etiche e scientifiche che comportano, argomenti che inoltre con la politica
c'entrano ben poco.
In un contesto come questo, in cui chiunque può
veicolare informazioni, corrette o non corrette (non necessariamente in
malafede), in cui tutti possono affermarsi e sfiduciare la figura dell'esperto:
con l'avvento dei social la figura del giornalista entra in competizione con i
blogger, gli opinion leader, gli youtuber, contendendosi l'attenzione degli
utenti.
Il 51° rapporto CENSIS, sulla situazione sociale del
paese nel 2017, rivela che gli italiani che leggono quotidianamente giornali
cartacei per informarsi durante la settimana sono il 14,7%, mentre si informano
su Facebook il 35%.
Non si può fare finta di niente, il mondo
dell'informazione è cambiato. Nelle testate giornalistiche online funzionano i
titoli “acchiappa click”. I profili ufficiali su Facebook e Twitter competono
con alcune fanpage per avere l'interesse degli utenti, inseguendo i loro gusti.
Note testate di moda, benessere, cucina, nei loro
spazi web lasciano ampio spazio a prodotti amatoriali o di citizen
journalism, accanto al lavoro degli stessi giornalisti.
Questo modello di marketing ormai è parte
dell'informazione, con notizie rapide, immediate e facilmente comprensibili.
Catturata l'attenzione dell'utente, si passa alla condivisione e la diffusione
dei contenuti in maniera quasi automatica, con la conseguenza di rendere virale
un argomento, vero o falso che sia.
La lettura di questo saggio può darci un'idea
abbastanza pessimistica dell'uso di internet e della dilagante disinformazione.
Sembra di essere arrivati a un punto di non ritorno nella gestione delle fake
news.
Al di là delle decisioni prese da Emmanuel Macron nel
2018 per creare una nuova legge per ostacolare la diffusione di false notizie
su internet, o ancora una soluzione offerta da Mark Zuckerberg per arginare la
questione e combattere una battaglia contro “forze oscure che si muovono
attraverso la rete”, il lavoro di debunking, di ricerca, di studio, andrebbe
attuato anche dal basso.
Sicuramente sarebbe utile per molti affrontare
letture come questo saggio per chiarirsi le idee, e ognuno nel suo piccolo
cercare di gestire al meglio la marea di informazioni che si incontra ogni giorno
sui social.
In questo mondo di ignoranza, bisognerebbe portare
avanti a testa alta la conoscenza e la “buona informazione”, anche se con un
linguaggio diverso e più adatto al mezzo a cui ci appoggiamo.
Francesca Guglielmero
Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini
Liberi di crederci. Informazione, Internet e postverità
Codice Edizioni, Torino, 2018, 142 pp.
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