Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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27 marzo 2015

In libreria

Alejandro Zambra
I miei documenti 
Sellerio, Palermo, 2015, 120 pp.
disponibile anche in formato e-book
Descrizione
 Una delle nuove grandi voci della letteratura latinoamericana. Il primo sudamericano a essere pubblicato in anteprima sul New Yorker, segnalato dalla rivista «Granta» tra i maggiori narratori di lingua spagnola. Undici brevi romanzi, un mondo di personaggi e di oggetti, smarriti e ritrovati. «Mio padre era un computer e mia madre una macchina da scrivere» si legge nelle prime pagine di questo libro, ed è proprio nell’incrocio e nella sovrapposizione tra la vita degli oggetti e quella degli esseri umani che prende forma l’epica quotidiana, intima e minuta, ma non per questo meno potente, di Alejandro Zambra. Lo scrittore cileno mette in rassegna bugiardi impenitenti e fantasmi in carne e ossa, banditi armati e giovani amanti, uomini ossessionati da un’idea superata della mascolinità o che si giocano l’ultima carta scommettendo sull’amore. Altri personaggi scoprono l’obsolescenza, come di merce, di sentimenti che sembravano eterni, o inseguono invano un padre che esiste solo nella memoria dell’infanzia. Il loro mondo è al tempo stesso modernissimo e antico, la cultura digitale del nostro secolo permea i dialoghi intensi e brillanti, ma nel cuore dei personaggi si insinua spesso una malinconia senza tempo, una passione romantica, un dubbio amletico. Le storie di Zambra scrutano vite che ci sembrano tanto più riconoscibili quanto più sono diverse dalle nostre, e risvegliano un desiderio di conoscenza, un sentimento della curiosità, quello in cui risiede la vera natura dell’arte narrativa quando prova a essere chiave di lettura del mondo, della sua crisi, del suo enigmatico ritrarsi. Queste vicende, questi documenti, vivono di suspense e fine ironia, humour e passione, spirito parodico e a tratti rabbioso. Sullo sfondo c’è il Cile con le sue recenti trasformazioni politiche e sociali («L’adolescenza era vera. La democrazia no» sostiene uno dei personaggi), e poi il mondo intero, da Oriente a Occidente, da Sud a Nord. Perché Zambra e le sue pagine plasmano e raccontano senza timore una sensibilità nuova e contemporanea, quel senso di apparente connessione che sembra unirci tutti nelle reti della comunicazione globale e che alla fine, paradossalmente, nasconde a noi stessi quanto siamo davvero vicini.
Alejandro Zambra è nato nel 1975 a Santiago del Cile. Poeta, narratore e critico, insegna letteratura all’Università Diego Portales e scrive per alcune riviste. Il suo primo romanzo, Bonsai (Neri Pozza 2007), ha vinto il premio cileno della critica. Ha poi pubblicato La vida privada de los árboles (2007) e Modi di tornare a casa (Mondadori 2013). È tradotto in oltre dieci paesi e ha vinto l’English Pen Award e il Premio Príncipe Claus in Olanda per l’insieme della sua opera.

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22 marzo 2015

La morte non è uguale per tutti

Non tutte le notizie di atrocità hanno lo stesso peso nell’economia della notiziabilità. Ne è un triste esempio molto recente l’uccisione il 21 marzo 2015 di una donna di soli 27 anni a Kabul, in Afghanistan. Farkhunda, così si chiamava, soffriva da 16 anni di problemi mentali ed è stata accusata di aver bruciato il Corano, libro sacro dell’islam. Quindi, massacrata con inaudita violenza, buttata nel fiume dopo essere stata bruciata ancora viva.
Solo il "Corriere della Sera" decide di dare la notizia. Silenzio stampa di tutti gli altri principali quotidiani. Forse perché la morte è avvenuta in Afghanistan, lontano dall’attenzione puntata sull’attentato di Tunisi. O forse perché riguardava una povera donna disabile, corpo considerato purtroppo da molti inutile e invisibile in questo mondo. O perché il portavoce del ministro degli Interni afgano, pur confermando la notizia, parla di “evento molto sfortunato.”
Certo è che una giovane donna è morta nel modo più atroce e vergognoso possibile e la notizia non viene considerata rilevante dalla maggior parte dei giornali e delle televisioni.
Per analogia, se pensiamo all’eco mediatica che ha suscitato l’uccisione del pilota giordano arso vivo dall’Isis, non si capisce come mai questo orrore più recente non sia stato considerato altrettanto meritevole di enfasi.
Eppure entrambe le persone sono vittime del fanatismo islamico. Entrambe sono state arse vive. Entrambe sono state riprese da orribili video che mostrano la loro lenta morte. Ma non sono entrambe ugualmente notiziabili. Perché? Esiste una “pubblicità della morte” secondo cui alcuni morti hanno più dignità di altri? C’è il morto che sbattuto in prima pagina, con bella foto annessa, fa vendere molti giornali. E c’è il morto che non interessa, anzi annoia.  
Molti, come Farkhunda, non raggiungono nemmeno gli onori del ricordo o dello sdegno pubblico tra le cronache dei giornali. Non meritano neppure questo rispetto.
La cosiddetta notiziabilità non è data dal fatto cruento, come molti credono. E nemmeno dal legame con argomenti di interesse più generale come il terrorismo o l’integralismo islamico.
Sembra che ha fare di un evento una notizia, degna di essere pubblicata sui quotidiani, sia più che altro lo share e il pubblico gradimento. In sostanza, se il fatto è una novità assoluta merita la prima pagina e la prima serata, come per il pilota giordano. Mentre se il fatto è una sorta di replica di qualcosa di già visto, non merita spazio e visibilità. Questo perché è il pubblico che decide sia i palinsesti televisivi che le prime pagine dei quotidiani.
Così l’informazione non è più un servizio di pubblica utilità, ma un servizio per “vendere” il pubblico al miglior offerente. Il pubblico, il lettore sono al centro degli interessi dell’informazione non perché considerati una collettività a cui fornire il miglior servizio.
Sono, al contrario, stimati come “merce” di scambio da barattare con gli spazi pubblicitari di qualche supermercato editoriale. Quindi, bisogna assecondare i suoi gusti. Non lo si deve annoiare, ma bensì divertire e sollazzare. Anche se questo significa renderlo sempre più ignorante e privo di spirito critico. È vero che non tutta l’informazione si adegua a questo dictat, come, in questo caso, ha dimostrato il "Corriere della Sera". Ma è anche vero che per chi decide di andare controcorrente i rischi sono molti e le difficoltà tante. Perché la notizia è diventata come un qualsiasi “prodotto” che piace se è nuovo, trasgressivo e osceno. Deve suscitare stupore e orrore. Altrimenti passa inosservata. Come la morte: mentale più che fisica. 
Anna Scavuzzo 

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19 marzo 2015

In libreria

Benjamin Dormann
Ils ont acheté la presse. 

Pour comprendre enfin pourquoi elle se tait, étouffe ou encense
Picollec, Paris, 2015 (Prima edizione 2012), 420 pp.
Descrizione
La stampa ha rinunciato al proprio ruolo di quarto potere per fondersi con il quinto potere, quello delle vaste reti mondializzate in cui si mescolano uomini d'affari, finanzieri, banchieri, media e politica. L'autore Benjamin Dormann  è stato un giornalista economico, poi tesoriere di un partito politico e candidato alle elezioni europee e legislative.


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18 marzo 2015

In libreria

Alessandro Barbano
Manuale di giornalismo
Laterza, Roma-Bari, 2015, 310 pp.

disponibile anche in ebook
Descrizione
 L'obiettivo di questo manuale è fornire un sapere teorico-pratico integrato per chi voglia operare sulla carta stampata, sul radio-televisivo e sulle diverse piattaforme digitali presenti in Rete. Il libro si sviluppa lungo otto linee didattiche, ciascuna delle quali tiene insieme le acquisizioni della tradizione con le nuove evoluzioni teorico-pratiche del giornalismo, con un ricco corredo di esempi tratti dai più autorevoli media italiani e stranieri:
• la ridefinizione del concetto di notizia ai tempi dell'informazione in tempo reale;
• la teoria e la tecnica della scrittura giornalistica, tra cartaceo e on-line;
• lo studio dei generi del giornalismo, da quelli più tradizionali, come la cronaca e l'intervista, a quelli più recenti, come il retroscena;
• l'organizzazione del lavoro nei principali media e la sua evoluzione segnata dal ruolo crescente delle tecnologie;
• la crisi delle aziende editoriali e la transizione verso il mercato delle nuove piattaforme digitali, attraverso esempi concreti tratti dalle esperienze di alcune delle più grandi e innovative imprese del mondo, come 'New York Times", 'Washington Post", Bbc, "Guardian", fino allo studio delle nuove avventure editoriali sulla rete;
• l'analisi del caso italiano, dell'omologazione e della prevalenza dell'informazione politica che caratterizza i media nostrani;
• lo studio del foto e video-giornalismo e delle nozioni di grafica essenziali;
• l'etica del giornalismo e i problemi aperti dalla necessità di tutelare la privacy di fronte alla grande forza di impatto che le moderne tecnologie informative hanno sulla vita delle persone.
Link all'Indice del libro.



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17 marzo 2015

Giornalismo è potere

"Il giornalismo deve fornire un resoconto che sia comprensibile e interessante, ma più di ogni altra cosa conforme ai fatti e alla verità, sulla base del principio secondo cui conoscere la verità aumenta la nostra libertà."
John Lloyd






*John Lloyd, Il potere pubblico del giornalismo, "La Repubblica", 17.3.2015.
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16 marzo 2015

In libreria

Patrizia Delpiano
Liberi di scrivere. La battaglia per la stampa nell'età dei Lumi 

Laterza, Roma-Bari, 2015, 206 pp.
disponibile anche in ebook
Descrizione
Nell'età dei Lumi fece la sua comparsa sulla scena europea un nuovo attore: il "philosophe", che rivendicava apertamente, tra le altre, la libertà di esprimersi a livello pubblico attraverso la parola scritta. Concentrandosi in particolare su Francia e Italia, Patrizia Delpiano esplora il processo che tra la fine del Seicento e la fine del Settecento condusse alla teorizzazione e alla messa in pratica della libertà di stampa. È una storia segnata da ostacoli istituzionali come la censura ecclesiastica e statale e da altri, non meno coercitivi, posti dalla coscienza degli autori stessi. Tra l'etica del silenzio e la libertà di scrivere si apriva infatti il vasto campo dell'autocensura: un universo del non scritto sinora largamente inesplorato, che segnò a lungo la vicenda degli intellettuali europei.

*Link all'Indice del libro
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14 marzo 2015

Buon compleanno babbo!

Oggi è il 14 marzo. Oggi mio padre compie 60 anni.
Fa il carrozziere, e lo fa da quando di anni ne aveva 14.
Precisamente è un battilama, quindi da un groviglio di lamiere, fa venire fuori una macchina nuova, o meglio, una macchina aggiustata. E' questo che lui semplicemente mi ha insegnato: che bisogna prestare attenzione e avere rispetto delle cose come delle persone. Mi ha insegnato che rimanere bambini non vuol dire essere infantili, che l'intelligenza non va di pari pas...so con un titolo di studio e che l'umiltà è caratteristica rara da maneggiare con cura.
Mio padre mi ha portato bambina alle prime manifestazioni, e piano piano mi ha portato in Consiglio Comunale. Per lui la politica è una grande passione e questa passione me l'ha un po' cucita addosso. La foto risale alle notte delle votazioni amministrative. Abbiamo aspettato in sede di partito che ogni singolo seggio fosse chiuso per avere la certezza che il risultato fosse quello giusto, e una volta constatato che ero diventata consigliere comunale, semplicemente ci siamo abbracciati. Gli ho chiesto se era più felice in quel momento o il giorno della mia laurea, e lui ha risposto : "Se devo essere sincero, sono più contento stasera!".
Un abbraccio tra un padre e una figlia, con tutto quello che ci può stare in mezzo: delusioni, paure, rabbia, momemti belli e momenti brutti. Non so dove mi porterà quest'avventura, ma sarà stata un ricordo che ci siamo costruiti.
Buon compleanno babbo.
Auguri.
Elena Mosti 

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13 marzo 2015

Morire d'amianto

Sabato 14 marzo 2015, ore 9, nella Sala Maggiore del Comune di Pistoia, presenterò il mio libro "Morire d'amianto a Pistoia. Il caso Breda e l'informazione", discutendone con il sindaco Samuele Bertinelli. Il lavoro, che ha avuto origine dalla mia tesi di laurea, è stato pubblicato da Settegiorni Editore grazie al contributo della Fondazione Valore Lavoro di Pistoia e della Cgil Toscana. La mattinata proseguirà poi con una tavola rotonda dal titolo "Le parole per dirlo: l'amianto tra cronaca, reportage e romanzo". Al dibattito prenderanno parte Alberto Prunetti (scrittore, autore di Amianto. Una storia operaia), Giampiero Rossi (giornalista de Il Corriere della sera, autore di La lana della salamandra), Silvana Mossano (giornalista de La Stampa, autrice di Malapolvere) e Silvano Balestreri (giornalista, docente di Teorie e tecniche del linguaggio giornalistico presso l'Università di Genova, nonché relatore della mia tesi). Nella locandina trovate il programma completo della mattinata. Io vi aspetto. Sono sicura che sarà una mattinata intensa e piena di emozioni (per me sicuramente!)
Valentina Vettori


Valentina Vettori
Morire d'amianto a Pistoia. Il caso Breda e l'informazione
Settegiorni editore, Pistoia, 2015.


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10 marzo 2015

In libreria

Francesco Occhetta
Le tre soglie del giornalismo. Servizio pubblico, deontologia, professione 
UCSI, Roma, 2015
Descrizione
Quale funzione deve assumere il giornalismo in un tempo in cui la quantità di informazione dall'inizio dell'umanità fino al 2003 viene oggi riprodotta in sole 48 ore? Il giornalista si distingue dal comunicatore se ha cura della democrazia e la narra come "bene fragile" da costruire giorno per giorno e se assume la deontologia non come un obbligo ma come la responsabilità per la sua missione nella società. Il giornalismo, ancora diviso tra vecchi e nuovi media, si rifonda sulla credibilità che non si costruisce sul successo, sull'audience e sull'essere "creduti", ma su un fatto: non essere falsificabili. Il volume parte da qui: interroga il lettore su cosa deve essere oggi il "servizio pubblico" del giornalismo; esamina il modo in cui la Rete sta ridefinendo i connotati della democrazia; approfondisce il significato della deontologia; chiarisce il ruolo del giornalismo politico, giudiziario e religioso. Molti organi di stampa sono pensati come arene moderne in cui si sceglie di dire mezze verità e si occultano le notizie. Un giornalista può essere indipendente raccontando sempre la verità se la maggioranza dei giovani della professione sono precari?

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09 marzo 2015

In Libreria

Carlo Gambalonga
Casa Ansa. Da settant’anni il diario del Paese
Roma, Edizioni Centro Documentazione Giornalistica, Roma, 2015

Descrizione
L'agenzia nazionale di stampa associata è la piu importante agenzia di stampa italiana e una delle più importanti a livello mondiale... Sarebbe questa la descrizione dell’Ansa fatta dall’Ansa. Ma non è così! L'Ansa è di più, molto di più. Lo sa bene chi l'ha vissuta da dentro per quasi quarant’anni e ce lo trasmette chiaramente in queste pagine. L’autore spiega come l'Ansa, vedendo la luce con la nascita della Repubblica, ne ha accompagnato tutta la sua storia. Ne è stata fedele testimone e, in molti casi, partecipe. La caduta del muro di Berlino, i comunicati delle Br, il ritrovamento di Moro, narrati in questo libro, dimostrano come da osservatrice è diventata, suo malgrado, spesso protagonista. Carlo Gambalonga ci fa capire come l'agenzia, nei suoi 70 anni di vita, sia stata una casa per i tantissimi giornalisti che ci hanno lavorato. La casa delle notizie: importanti, belle e drammatiche di questo e di altri paesi. La casa dell'indipendenza, dell’imparzialità e della libertà di stampa. Ma soprattutto come, attraverso i milioni di notizie prodotte e riprese da giornali, internet, radio e televisioni del mondo intero, l'Ansa sia diventata un po' per tutti la casa della verità.


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06 marzo 2015

Fantasmi nella polvere


Rotolano nella polvere. Privi della sostanza della vita. Spesso si presentano al mondo con tute mimetiche e veli neri. Lo schermo è il loro sudario. Non scompaiono, ma appaiono. Sono i fantasmi che popolano la mente di chi riconosce il diritto all’apparire come unica modalità esistenziale. Infiniti frammenti di corpi sparsi nella polvere dei deserti dell’anima o nelle paludi melmose della vergogna. Spettri sconfitti che vagano negli schermi postmoderni in cerca di illusori attimi di celebrità. Ombre vuote che non hanno niente. Nemmeno la banalità del presente. L’unica vittoria è postare un video su YouTube o lanciare un sasso su Twitter.
Per questi fantasmi l’efferatezza della violenza è diventa un  valore. Un merito da censire. Un motivo d’orgoglio se ne parlano i giornali e la televisione. Un eroismo se si fanno proseliti.     
Così si costruiscono le pagelle dei fantasmi del terrore. Così si catalizzano le opinioni. Così si enfatizzano i fanatismi. Che siano i tagliagole dell’Isis o i terroristi europei o un branco di stupratori o i bulli in età scolare che usano violenza a un disabile o le ragazze di buona famiglia che si menano per futili motivi (e gli esempi potrebbero continuare a lungo), poco importa.
L’equazione è sempre lo stessa. Violenza + selfie = Attenzione mediatica = Esistere.
Lo spot virtuale si trasforma in testamento intellettuale. Il passaggio in prime time si converte in manifesto ideologico. La notiziabilità dell’esistenza è data dall’impeto della violenza.   
Apparire. Farsi notare. A qualsiasi costo. Anche della pubblica vergogna. Anche della morte. Perché tanto morti lo sono già. E lo sanno. Quindi, rendere pubblico ciò che rimane di una crisalide senza identità, sembra l’unica alternativa rimasta. L’unico singulto di vita possibile. Di questo si nutrono le piovre dei regimi e delle mafie. Di questo si drogano gli esclusi. 
Preoccupa questa perversa volontà di uscire dall’anonimato. Preoccupa ancora di più l’assuefazione alla violenza che si cela dietro tale fenomeno. Una violenza che per diventare notizia deve sorprendere sempre di più. Per stupire un pubblico che esiste solo nel nostro immaginario arriva, per esempio, a bruciare vivo un uomo chiuso in gabbia o a esecuzioni in diretta. Atrocità per far parlare di sé. Questa è la modalità esistenziale del secolo della comunicazione e della condivisione. Dimenticando, però, che sopravvivere nella memoria di un computer non è vivere, ne lo è la comparsa di pochi secondi in televisione.    
Forse, la soluzione che Guido Olimpio propone per oscurare la propaganda terrorista, nel corsivo pubblicato il 4 marzo 2015 sul Corriere della Sera (L’Isis si batte staccandogli la spina sui media, pag.56), potrebbe essere d’aiuto anche per i bulletti  di casa nostra.
Si, staccare la spina. Distaccarsi dall’etereo potere dei media per non legittimare tanta oscenità.
Censurare la violenza perché è tutto fuorché espressione dell’uomo. Ritornare a comunicare con i gesti dell’intelligenza e il cuore della sapienza. Senza la pretesa di stare sopra gli altri, ma con la consapevolezza di stare con gli altri. Idea immateriale che anche se non si vede in tv o non viene registrata su un computer o scaricata come app sul cellulare, esiste ugualmente, con tutta la forza della sua verità e la potenza della sua umanità.
Anche se non appare, non è un fantasma. È l’idea dell’uomo che si fa vita. È il rispetto di sé e dell’altro che si evolve in condivisione.       
Se apparire su uno schermo è la proiezione di un’identità fasulla, eliminare questa possibilità sarebbe come sgonfiare l’arroganza di un assurdo utilizzo della violenza, prima che possa esplodere. E senza esplosione si passa inosservati. Si rimane sacchi vuoti afflosciati. Bisognerà trovare un altro modo per stare in piedi. Magari riconoscendo l’equilibrio della normalità come valore e il ripristino di una cultura della tolleranza come arma di libertà di massa.  
Disattivare il canale di sopravvivenza di questi fantasmi equivale a rendere un servizio al Paese, alla comunità tutta. Ne gioverebbero le nuove generazioni, trovando finalmente un punto di riferimento nella forza della consistenza intellettuale e morale dell’uomo, riattivando l’ideale umano della dignità, sintomo distintivo rispetto all’animale, che non si può smarrire dentro uno schermo. La dignità. Questa si che bisogna possederla. Non come privilegio, ma come conquista.  
Rendere innocuo un sistema che ha reso l’ignoranza collettiva un punto di forza e la violenza fanatica un’attitudine alla moda, non significa censurare la libertà di comunicazione o la possibilità di corretta informazione, ma, al contrario, significa liberarla dalle catene dell’idolatria all’apparenza che ne svalutano e distorcono il reale valore.
Per non sentire il rantolo di certi fantasmi nella polvere. Per non cadere nella fossa comune dell’inesistente. Per tutto questo, bisogna prima coesistere e consistere.
“Vivere per non apparire”. Chissà. Potrebbe essere questo uno slogan del nostro millennio. 
Anna Scavuzzo

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01 marzo 2015

Assalto alla pace




Non c’è limite all’egoismo umano. Neppure a quello che si serve della propaganda di guerra per fare soldi. Come ha scritto su "Repubblica" del 7 febbraio Massimo Recalcati, “il culto pragmatico del denaro ha sostituito il culto fanatico dell’ideale.”   
Lo dimostra la notizia, riportata da "Il Venerdì di Repubblica" del 27 febbraio, secondo cui in Russia il costruttore di fucili d’assalto Kalashnikov, Aleksej Krivoruchko, l’anno scorso ha moltiplicato i suoi profitti con la vendita delle temibili armi. Il che non solo la dice lunga sulle bugie raccontate all’opinione pubblica in merito alla ricerca condivisa dalle grandi potenze mondiali per il mantenimento di equilibri di pace, ma fa chiaramente capire quanto il mercato delle armi sia in rapida espansione. Come se non bastasse, la nuova strategia che la società russa aspira a costruire, è un vero e proprio brand da diffondere nel mondo. Come la Apple o la Coca-Cola. A Mosca, in una recente conferenza stampa è stato presentato il nuovo logo dell’azienda: una K bianca (il colore della resa) impressa su un quadrato rosso (il colore del sangue), circondata da uno sfondo nero (il colore dei terroristi) con sottostante la parola KALASHNIKOV. Il  marchio apparirà non solo sulle armi ma anche sugli accessori e l’abbigliamento di una nuova linea di prodotti pensati per chi ama vivere all’aria aperta come cacciatori, sportivi o… guerriglieri. Un modo come un altro per diffondere nel mondo la filosofia del potere armato. Naturalmente a corredare l’operazione di costruzione del marchio non poteva mancare uno slogan forte e facile da ricordare. Così, il Kalashnikov viene ribattezzato con lo slogan “arma di pace”. Un ossimoro che fa venire i brividi. Un insulto per chi nella pace crede o per essa ha perso la vita.
Ma c’è di più. Creare un marchio che associa il concetto di guerra a quello di pace significa comunicare al mondo l’intenzione, più o meno velata, di perseguire progetti espansionistici militari con la contemporanea costruzione  e fondazione di un immaginario collettivo dove il valore della pace viene venduto assieme a quello dell’uomo che deve essere comunque armato.
Una spiccata propensione nel legittimare la guerra perpetua risulta quanto mai evidente.
Si vede che l’evoluzione delle capacità cognitive umane arriva a un punto di saturazione tale che comporta l’implosione delle stesse capacità nell’assidua ricerca dell’autodistruzione.  
Non che, in contrapposizione, si possa giustificare il fanatismo della pace. Qualsiasi fanatismo è deleterio perché manca di equilibrio. Piuttosto, è auspicabile il tentativo di riprendere quegli ideali che molta della classe dirigente che ci governa cerca di mandare in soffitta.
Ideali, come pace e giustizia, ormai considerati vetusti, sorpassati  perché si oppongono alle logiche dissennate del potere e del profitto. Ideali usati a piene mani solo come paravento nei discorsi dei talk show, per nascondere la totale mancanza di reali politiche sociali. Stili di vita e opinioni che necessitano dell’espansione del concetto di libertà e tolleranza per crescere, al posto dell’idea di armi e guerra. E mentre l’Isis diffonde sul web, anche in italiano, il manifesto di un sedicente stato islamico dove l’oggetto della religione sembra sia diventato il male, Mosca piange, attraverso la retorica di stato, il dissidente Nemtsov. Nel frattempo il kalashnikov, simbolo dell’assalto, della forza violenta, dell’imposizione coatta dei regimi totalitari, rivitalizza i valori ideali di difesa della patria dal nemico comune del futuro combattente-consumatore. La pace non è più una conquista della società civile, ma un’arma dura e spigolosa, come la lettera K che ne rappresenta il marchio, per giustificare guerre e genocidi nel mondo. Nell’immaginario collettivo del povero uomo comune, che crede ancora a una soluzione dei conflitti non violenta, il culto di un ideale di pace appare ancora molto lontano. Mentre il culto dell’unico dio professato è sempre più presente. Un dio che porta in una mano fiumi di denaro e nell’altra il kalashnikov.         

Anna Scavuzzo   

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