Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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01 luglio 2015

Il giornalismo: che testimonianza per la storia



La curiosità e  la voglia di proseguire a leggere e conoscere cosa é scritto nella pagina successiva, nel racconto di un altro autore e poi l’altro e cosi via aumenta ogni volta che si volta la pagina precedente. Non si tratta di un bel romanzo il quale lo leggiamo volentieri quando si è in vacanza e neanche di un libro di scienza per chi è appassionato a conoscere le ultime invenzioni o novità nel riguardo. Questo è un libro per chi è interessato o appassionato alla storia, alla politica estera, alle relazioni internazionali e al giornalismo in particolare. Un libro denso, ricco di esperienze vivi, vissute e raccontate con passione e sincerità dagli autori. Si tratta del libro Giornalismo Italiano e Vita Internazionale a cura del “Centro per gli Studi di Politica Estera e Opinione Pubblica” dell’Università degli studi di Milano, a cura di Sergio Romano.
Si può capire la situazione internazionale leggendo un giornale italiano?
Con quali strumenti teorici e culturali gli inviati speciali dei grandi quotidiani hanno affrontato la realtà che incontravano e di cui riferivano all’opinione pubblica italiana?
Dove e com'è stato riconosciuto il confine tra obiettività, passione politica e umana e deformazione partigiana nel render conto degli avvenimenti internazionali?
Che suggerimenti possono dare modelli giornalistici di altri paesi e quali esigenze e aspettative stanno maturando al riguardo nell’opinione pubblica?  
Per discutere su questi argomenti e sul tema dei rapporti fra giornalismo e relazioni internazionali, e sul impatto che essi hanno avuto sull’opinione pubblica, Sergio Romano ( ambasciatore ma anche storico, saggista, giornalista), il curatore ma anche uno degli autori di questo libro, ha raccolto una serie di conversazioni tenute in un seminario durante gli anni accademici 1986-87 e 1987-88, preso l’Università degli  studi di Milano, con la collaborazione di giornalisti che hanno avuto una lunga esperienza di problemi internazionali come inviati speciali, corrispondenti dall’estero, responsabili del servizio Esteri o direttori di quotidiani. Sono uomini di generazioni diverse, attraverso i quali è filtrata un’esperienza giornalistica che va dalla guerra alla fine degli anni ’80: Idro Montanelli, Alberto Jacoviello, Piero Ostellino, Marcello Gilmozzi, Giuseppe Boffa, Arrigo Levi, Alberto Cavallari, Piero Ottone, Bernardo Valli, Gaetano Scardocchia; sul tema delle agenzie di stampa scrive François Fejtò.
    Leggendo questo libro si ha la sensazione di tornare dietro nel tempo ed essere presente in quel seminario, come se il lettore stesse faccia a faccia con il relatore. Ancora di più si approfondisce questo ‘tornare dietro nel tempo’ leggendo le loro esperienze che risalgono/ riportano agli inizi del ‘900. Sono dei ragazzi giovani tra i venti e i venticinque anni di età che cominciano la loro carriera e ‘crescono’ con il lavoro facendo delle esperienze molto forti. Certo, per molti di noi è difficile immaginare la situazione di quei tempi. Essi parlano di comunismo, marxismo, imperialismo americano, nazismo, rivoluzioni, guerre, terrorismo etc. Sono delle parole che molti di noi conoscono solo come termini, ma con il loro aiuto e il loro contributo riusciamo ad avere un’immagine più chiara del significato e della storia che portano dietro queste parole tranne l’ultima la quale suona attuale anche nei  nostri giorni. È il periodo in cui i maggiori giornali francesi, tedeschi e inglesi risalgono ( la fine del’700). La grande rivoluzione giornalistica - una rivoluzione che fu al tempo stesso tecnica e sociale - si colloca intorno alla metà del secolo.
    La cosa che colpisce di più leggendo questo libro è la sincerità e la passione che caratterizza gli autori nei loro racconti, la forza con cui si sono sentiti e espressi. Sono giornalisti che hanno avuto una parte determinante per un intera generazione nella formazione dell’opinione pubblica italiana e parlano con candore delle vicende a cui hanno assistito.
    Il saggio di Sergio Romano precede gli interventi e offre una prospettiva storica che prende le  mosse dalla nascita della prima figura dell’inviato speciale. Intorno alla metà del ’800 il giornale dedicava più spazio alle vicende internazionali, naque cosi un personaggio importante; il corrispondente di guerra, l’inviato speciale.Il primo probabilmente fu William Howard Russell (1821- 1907) del Times.” e mette il caso italiano a confronto con analoghe esperienze: americana, francese e inglese.
    In questo libro ogni giornalista ha dato una sorta di bilancio della propria esperienza, ricco in molti casi di episodi poco noti, relativi si può ben dire a paesi di tutto il mondo, e ha offerto una riflessione sui valori etici, politici e culturali cui ha attinto per giudicarle. Si nota subito lo sforzo che gli autori dei vari contributi, hanno compiuto per rendere coscienza di sé, del proprio lavoro e delle proprie esperienze professionali. Raccontano di come loro abbiano storicizzato i fatti di cui sono stati testimoni, di quali strumenti si siano valsi per orientarsi nel labirinto delle vicende internazionali a cui hanno assistito, con quali categorie politiche e morali abbiano letto le situazioni in cui  sono stati professionalmente coinvolti.
    È stato chiesto a loro qualche indicazione sui rapporti tra storia e giornalismo nel campo delle relazioni internazionali. L’obiettività è stata un altro tema di forte dibattito e di qui molti giornalisti diffidano. Nessuno sostiene che sia possibile un’obiettività totale. E c’è stato cosi una certa divisione in due campi: da un lato quelli per cui il giornalista è anzitutto un reporter, dall’altro quelli per cui il giornalista può prescindere dal proprio impegno politico, dalle proprie teorie, dalle proprie convinzioni morali o, più semplicemente, dai condizionamenti del contesto in cui deve lavorare. Nella prima categoria ci sarebbero Fejtò, Levi, Montanelli, Ottone e Scardocchia; nella seconda Boffa, Cavallari, Gilmozzi, Jacoviello, Ostellino e Valli.
  Indro Montanelli nel suo contributo titolato ‘ Dal Dopo Versailles al Dopo Jalta’ racconta delle sue esperienze dalla Spagna alla Finlandia, dalla Germania al Giappone, da Israele all’Ungheria e termina il suo racconto con la sua opinione sull’inviato speciale del tempo in cui è stato fatto il seminario (fine degli anni ’80). Con una grande sincerità Montanelli confessa di dover molti dei suoi fulminanti scoops all’essersi casualmente trovato sul luogo degli avvenimenti al momento giusto. Come lui dice è stato grazie al suo santo protettore che si è salvato dalla persecuzione del regime e ha potuto cominciare a lavorare al Corriere della Sera. Montanelli afferma che il mestiere dell’inviato speciale consiste nel “ riferire i fatti col massimo d’obiettività” e rettificare  “quando ci si accorge di avere sbagliato”; ma ammette al tempo stesso d’essere “un liberale con un fondo un po’ anarchico” e di avere, se non altro, il pregiudizio della passionalità.
 Valli parla con entusiasmo mentre racconta la sua esperienza come giovane inviato speciale si sia tuffato nelle straordinarie avventure del terzo mondo ( rivoluzione algerina, Vietnam, Cambogia, Salvador, Nicaragua) e ne sia uscito  con una serie di amare riflessioni sullo scarto tra le ‘verità del momento, dettate dalle emozioni e dal clima politico e gli esiti storici degli eventi raccontati. Riconosce quindi, di avere raccontato la storia della decolonizzazione attraverso il filtro del suo romanticismo risorgimentale.
Boffa, Gilmozzi e Jacoviello non esitano a parlare del loro impegno ideologico. Jacoviello scrive che non si sarebbe mai permesso  di “prendere a schiaffi” i lettori de l’Unità. Lui impara a “guardare sotto la crosta delle cose” e racconta come le sue esperienze l’abbiano portato a scoprire verità ”che non gli piacevano”, diverse da quelle che gli avevano insegnato. Jacoviello si esprime con riserva su tutti i giornali italiani per quanto concerne la trattazione della politica internazionale, perche costatava su tutti una certa tendenza a deificare la cronaca. Gilmozzi spiega perche ritenne necessario “censurare” su il Popolo una dichiarazione di Pertini sul governo d’unità nazionale. Lui in un certo modo esprime la sua critica nel fare giornalismo “oggi nessuno muore per portare una notizia” comparando il lavoro dei giornalisti d’epoca con Filippide, secondo lui, il più grande giornalista di tutti i tempi.
Ostellino riafferma la validità per il giornalista dell’insegnamento di Popper per cui la verità consiste “nell’adesione ai fatti dalle asserzioni che noi facciamo quotidianamente”, ma aggiunge prudentemente “ là dove ciò sia possibile”.  Cavallari sostiene che il giornalista è “scritto”, assai più di quanto non scriva, dall’intreccio di forze e tendenze, che compongono il discours de presse. Ma tutti poi giustamente rivendicano la loro capacità di “dubitare” e di raccontare con imparzialità le “cose viste”. Due di essi in particolare- Gilmozzi e Jacoviello- sembrano sostenere, non senza una punta di ragione, che la “conversione” ai fatti di un giornalista di partito può essere molto più efficace e convincente della cronaca di un giornalista indipendente di cui essi, comunque, contestano la totale indipendenza.
    Qualcosa del genere accade, in direzione opposta, nell’altro campo. Fejtò, Levi, Montanelli, Ottone e Scardocchia non dichiarano alcun particolare pregiudizio ideologico, ma riconoscono, direttamente o indirettamente, che il “pregiudizio”, nel senso letterale della parola, accompagna continuamente il loro lavoro. Fejtò sostiene che una informazione d’agenzia “è buona se può essere utilizzata dai mass media di ogni direzione politico”, ma osserva poi che un’agenzia non può ignorare i gusti e le tendenze dei propri clienti. Levi scrive che nella sua “idea del giornalismo”, le categorie interpretative o le metodologie di lavoro hanno poco spazio; ma riconosce che esse possono essere inconsce e ammette che la sua generazione è stata fortemente condizionata dalla “esperienza diretta, personale, del fallimento delle dittature e dei sistemi totalitari dei disastri che essi avevano generato, sino all’olocausto”. Secondo Ottone invece, “il vero giornalista è quello che gli americani chiamano reporter, quello che riferisce i fatti,il cronista”; ma poi riconosce al corrispondente dall’stero una sorta di funzione didascalica e pedagogica perché egli può contribuire a sprovincializzare il proprio paese mostrandogli ciò che accade al di là dei suoi confini. Scardocchia descrive con ammirazione gli scrupoli professionali del giornalismo americano, ma riconosce poi che esso è condizionato per quanto attiene la rappresentazione degli avvenimenti internazionali da un fortissimo pregiudizio amerocentrico che incide sulla sua completezza e credibilità. Insomma, muovendo da direzioni opposte i giornalisti dei due campi tendono a spostarsi verso la “montagna”, come si sarebbe detto in linguaggio parlamentare dopo la rivoluzione francese.
    E i fatti, visti dalla montagna, risultano molto più simili, nella versione dei giornalisti dei due gruppi, di quanto non accadesse quando erano visti con gli occhiali dell’impegno e  del non impegno. Ognuno di questi testi offre a questo proposito intersanti spunti di confronto. Questi sono alcuni: la destalinizzazione nei ricordi di Boffa, Levi, Ottone; i fatti d’Ungheria in quelli di Jacoviello e Montanelli; la decolonizzazione in quelli di Jacoviello e Valli; la Cina e la sua rivoluzione culturale in quelli di Boffa, Jacoviello e Ostellino; l’America in quelli di Jacoviello e Scardocchia.
    Procedendo nella lettura ci si accorge che accanto alle personali testimonianze di alcuni fra i maggiori corrispondenti e inviati speciali dei 1940- 90, esso contiene le parti di un affresco che riproduce mezzo secolo di storia delle relazioni internazionali. Ai margini dell’affresco vi sono rispettivamente la guerra civile spagnola, di qui parla Montanelli, e la guerra del Vietnam di cui parla Valli. Al centro dell’affresco vi sono, dopo gli avvenimenti della seconda guerra mondiale, i rapporti fra le grande potenze e alcune fra le trasformazioni che esse hanno subito negli ultimi trent’anni del ‘90; la destalinizzazione in Unione Sovietica, la rivoluzione culturale in Cina. Naturalmente nasce la domanda quanti giornalisti abbiano avuto la sorte di assistere nel corso della loro vita ad una cosi straordinaria dilatazione della scena politica in cui avevano lavorato i grandi corrispondenti  inviati speciali sino alla seconda guerra mondiale ma anche dopo e ai nostri giorni. E poi anche l’altra domanda quanti nella storia del giornalismo siano stati testimoni di tanti fatti da cui dipendeva non soltanto il destino della loro nazione, ma quello dell’intera comunità mondiale.
    Si nota poi il continuo accavallarsi di temi di politica interna e internazionale. Gli autori non parlano soltanto di politica estera, ma anche delle condizioni politiche, economiche e sociali del paese da cui scrivono, i corrispondenti e gli inviati speciali colgono meglio di qualsiasi elaborazione concettuale i legami che stringono le vicende interne di una nazione alla sua proiezione esterna e all’evoluzione degli equilibri mondiali in epoca di ideologie e democrazie di massa. Come sorprendersi che tanti giornalisti abbiano vissuto con forte partecipazione personale gli avvenimenti a cui hanno assistito e gli abbiano talora interpretati alla luce di categorie intellettuali in cui confluivano formazione culturale, lealtà ideologica, pregiudizi e sentimenti?
Vorrei soffermarmi un po’ a fare un ragionamento sull’impatto che hanno avuto le innovazioni tecnologiche nel ruolo dei giornalisti corrispondenti o inviati speciali dai primi casi ad oggi. Il conflitto di Crimea segnò l’importante nascita del fotoreporter. Nel 1855 Roger Fenton, pittore e fotografo di casa reale, al quale fu chiesto di fornire una immagine “corretta” della guerra, non troppo cruda  soprattutto che si mostrasse benevola nei confronti dell'esercito di Sua Maestà. Il risultato fu perfettamente in linea con le aspettative. Il reportage di Fenton illustrò una guerra pulita, ordinata, con i soldati inglesi che sfoggiavano divise sempre perfettamente inamidate. Il consenso all'impresa guerresca in patria passò anche attraverso gli scatti compiacenti di Fenton fece un primo passo, seppur timido e manierato, verso la fotografia di guerra.
La guerra di Secessione americana introdusse l’uso del telegrafo per inviare gli articoli. Con il telegrafo si doveva lavorare in tempo reale. Un direttore non poteva permettersi di bucare una notizia nell’attesa che il suo corrispondente di punta terminasse di abbellire il suo pezzo. Altra novità fu la nascita dell’Associated Press, la prima agenzia a raccogliere e a fornire notizie per le testate abbonate. Lo staff fu allestito più che facendo affidamento su buoni giornalisti o informatori, su personale che sapesse battere velocemente il tasto del telegrafo. Si dovrà aspettare il 1876 perché i quotidiani italiani incomincino a dotarsi di un servizio telegrafico speciale. Le notizie dall'estero venivano pubblicate con ritardi ancora superiori e in molti casi, più che di corrispondenze si trattava della rimasticatura di qualche avvenimento scopiazzato dai giornali stranieri.
Se dai tempi eroici di Russell molte cose, soprattutto a livello tecnologico, sono cambiate, una resta pressoché immutabile. La complessità della figura dell'inviato di guerra. Come allora non esistono scuole di formazione. Nella sua professionalità intervengono la preparazione culturale, una buona dose di “agganci“ e tanta intraprendenza. Scrive Mimmo Candito, grande inviato de La Stampa, che “il corrisponde-nte di guerra deve anche saper essere un reporter, il migliore, il più attento, e sveglio, dei reporter. Deve cercare i fatti, e raccontarli, anche quando nessuno parla, o quando le bombe ti piovono addosso, o quando ti minacciano che se scrivi quella roba lì ti espellono dal fronte“. Una professionalità, gli fa eco Ryszard Kapuscinski, un altro “grande“ dei giorni nostri, che non può essere esente da una giusta dose di passione: “Il corrispondente di guerra è una professione, o una missione che presuppone una certa comprensione per la miseria umana. Che esige simpatia per la gente“.
    Ma è sempre stato così? Il mestiere del reporter di guerra è vecchio di quasi due secoli. Certo il mestiere è molto cambiato perche “io ho fatto l’inviato speciale in un mondo che si poteva ancora scoprire” scrive Montanelli “ma oggi con questi mass media a grandissima diffusione che cosa si può scoprire ?”. Un altro mutamento è il giornalismo televisivo verso il quale ”v’è tra noi una specie di pregiudiziale, di oddio mortale” scrive ancora Montanelli. Un'altra “minaccia” per il ruolo dei giornalisti sono i social media l’affidabilità delle fonti delle notizie e ancora la misura della qualità dell’informazione spesso confusa con il numero di accessi, condivisioni e ascolti. È il problema della veridicità delle notizie a formato taglia e incolla dalle note di agenzia, prive spesso dell’indicazione della fonte, influenzate dai titolisti, che la manipolano per creare una reazione e la diffusione delle notizie false, problema amplificato dal fenomeno dei social media.
Concludo la mia recensione con una espressione di  Egisto Corradi: I grandi reportages non si fanno più con “con la suola delle scarpe“.
Lindita Brahaj

Giornalismo Italiano e  Vita Internazionale 
A cura di Sergio Romano 
 Jaca Book, Milano, 1989, p. 224  

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