Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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30 settembre 2016

Genova in libreria

Antonella Grimaldi
Michele Giuseppe Canale 
La vita, le battaglie e gli studi di un Genovese nell’Ottocento
Biblion, Milano, 2016, 479 pp.
Descrizione
La vicenda di Michele Giuseppe Canale, protagonista a pieno titolo della saga del Risorgimento italiano, viene ricostruita in quest’opera attraverso l’analisi critica delle fonti letterarie, storico-politiche ed epistolari. Il legame vitale quanto stretto tra sensibilità estetica e aspirazioni politiche si mostra evidente dagli albori, quando l’influenza di Mazzini appare perspicua e il rapporto con Mameli intimo, e prosegue fino alla maturità, momento in cui egli era ormai approdato a una diversa visione della letteratura e dei valori di riferimento. L’azione politica di Canale, in accordo con la sua città, ritrae il nuovo modo di porsi nella realtà da parte degli intellettuali del Risorgimento: non individui isolati dal contesto sociale e politico che il circondava, bensì pienamente inseriti e operanti in esso. In tal senso, il Diario delle cose di Genova mette in luce il suo ruolo nella storia genovese del 1848-49, dimostrando insieme ad altri documenti la sua adesione ai principi democratici e rivoluzionari che lo animano. La collaborazione con il Vieusseux e il Le Monnier, la partecipazione ad alcune iniziative editoriali di notevole respiro, nelle quali si andava sperimentando la funzione dell’industria e delle esperienze associative nell’edificazione dell’identità nazionale italiana, posero infine Canale in relazione con l’ambiente culturale italiano ed europeo.
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27 settembre 2016

In libreria

Roberto Amen
In onda. Visioni e storie di ordinaria tv
Egea, Milano, 2016, 185 pp.
disponibile anche in formato ebook
Descrizione

Il giornalismo televisivo ha caratteristiche particolari. Soprattutto quando si va in diretta, senza rete, con l'attesa, le ansie, l'eccitazione, gli imprevisti e i tempi strettissimi. Storie, curiosità, aneddoti: dal dramma di Vermicino all'attentato a Giovanni Paolo II. Seguire le cronache di Roberto Amen porta a scoprire la bellezza (e le magagne) del giornalismo televisivo. Un volto noto della Tv ci racconta il dietro le quinte di una lunga carriera. Il bello e il brutto della diretta, raccontato in prima persona.
Roberto Amen si è laureato nel 1978 in Lettere moderne all'Università degli Studi di Genova. Dal 1983 è iscritto all'albo dei giornalisti professionisti e dal 1980 lavora per la Rai, ricoprendo incarichi come di rilievo, quali conduttore di "TG2 Oretredici", l'edizione del TG2 di maggiore ascolto e caporedattore della sede RAI per la Liguria. Nel 2002 è stato nominato dal Consiglio di amministrazione alla vice direzione della Testata per l'informazione politica della Rai, l'attuale Rai Parlamento.

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20 settembre 2016

In libreria

Pier Maria Furlan
Sbatti il matto in prima pagina
I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia
,
Donzelli, Roma, 2016, 436 pp.
Descrizione
In dieci anni, tra il 1968 e il 1978, matura il clima che porterà l’Italia, primo paese al mondo, alla chiusura dei manicomi. In questo contesto il ruolo dei quotidiani è fondamentale: grazie alle loro inchieste e alle interviste, cronisti, inviati e opinionisti contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica sugli orrori nascosti dentro le mura degli ospedali psichiatrici, dove poveri, anziani, omosessuali e bambini disabili vengono di rado curati e quasi sempre segregati e maltrattati, sino a far perdere loro ogni dignità umana. Attraverso gli articoli delle maggiori testate giornalistiche nazionali, questo lavoro ricostruisce la storia di quegli anni così significativi: a raccontarla sono i protagonisti della cultura del tempo, da Indro Montanelli ad Angelo Del Boca, da Dacia Maraini a Natalia Aspesi, ma anche intellettuali internazionali come Michel Foucault, Noam Chomsky e Jean-Paul Sartre. Migliaia di personaggi e oltre mille articoli di giornale per ricostruire la cultura dell’epoca, l’ignavia e le controversie attorno alla malattia mentale: medici che non vedono, sindacati che proteggono i propri iscritti, partiti attenti a non urtare gli elettori e lo stesso Franco Basaglia contrario alla legge che porta il suo nome. Emerge uno scenario diverso da quello generalmente immaginato, nel quale diventano evidenti i retroscena dei controversi atteggiamenti dei politici, che contrastano le aperture progressiste di innovatori ormai dimenticati. Nel 1978, dopo anni di dibattito intensissimo, anche grazie alla diffusione dei quotidiani, la situazione non può più essere ignorata: quelli che il Ministro della Sanità, Luigi Mariotti, nel 1965 aveva definito «lager», chiudono finalmente i battenti.
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In libreria

Pier Maria Furlan
Sbatti il matto in prima pagina
I giornali italiani e la questione psichiatrica prima della legge Basaglia
,
Donzelli, Roma, 2016, 436 pp.
Descrizione
In dieci anni, tra il 1968 e il 1978, matura il clima che porterà l’Italia, primo paese al mondo, alla chiusura dei manicomi. In questo contesto il ruolo dei quotidiani è fondamentale: grazie alle loro inchieste e alle interviste, cronisti, inviati e opinionisti contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica sugli orrori nascosti dentro le mura degli ospedali psichiatrici, dove poveri, anziani, omosessuali e bambini disabili vengono di rado curati e quasi sempre segregati e maltrattati, sino a far perdere loro ogni dignità umana. Attraverso gli articoli delle maggiori testate giornalistiche nazionali, questo lavoro ricostruisce la storia di quegli anni così significativi: a raccontarla sono i protagonisti della cultura del tempo, da Indro Montanelli ad Angelo Del Boca, da Dacia Maraini a Natalia Aspesi, ma anche intellettuali internazionali come Michel Foucault, Noam Chomsky e Jean-Paul Sartre. Migliaia di personaggi e oltre mille articoli di giornale per ricostruire la cultura dell’epoca, l’ignavia e le controversie attorno alla malattia mentale: medici che non vedono, sindacati che proteggono i propri iscritti, partiti attenti a non urtare gli elettori e lo stesso Franco Basaglia contrario alla legge che porta il suo nome. Emerge uno scenario diverso da quello generalmente immaginato, nel quale diventano evidenti i retroscena dei controversi atteggiamenti dei politici, che contrastano le aperture progressiste di innovatori ormai dimenticati. Nel 1978, dopo anni di dibattito intensissimo, anche grazie alla diffusione dei quotidiani, la situazione non può più essere ignorata: quelli che il Ministro della Sanità, Luigi Mariotti, nel 1965 aveva definito «lager», chiudono finalmente i battenti.
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19 settembre 2016

Passione per la cronaca nera

"Non è solo la crudeltà del delitto a eccitare la curiosità, ma anche, da sempre, il suo contrappasso, la crudeltà della punizione. La ghigliottina è un grande tema dell'iconografia popolare (e delle canzoni). Il processo è il momento in cui l'evocazione del fatto di sangue e quella della pena sono presenti insieme, ed è proprio partendo dal processo che la cronaca suscita le emozioni popolari. "Processi celebri", che già dal 1825, con l' inizio della Gazette des Tribunaux, possono contare su un giornalismo specializzato, che ispirerà a sua volta tanto i grandi scrittori, da Stendhal a Balzac e a Sue, quanto i romanzieri d' appendice. L'"humour noir" intorno a delitti ed esecuzioni ha una circolazione non solo tra gli spiriti blasé, ma anche nella stampa popolare: nel 1884, si presenta un Giornale degli Assassini, "organo ufficiale degli Accoltellatori Riuniti" ("Abbonamenti: a mezzanotte, agli angoli di strada").
Italo Calvino
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Apocalisse Saddam?


L’Apocalisse Saddam, pubblicato nel 2002, è un pezzo di storia del nostro mondo. Un pezzo di storia del mondo che troppo spesso abbiamo seppellito sotto le macerie dell’indifferenza.
E’ Mimmo Càndito, corrispondente di guerra dai principali teatri di conflitto in Medio Oriente, Asia, Africa e Sud America durante il XX secolo e che ha seguito, tra l'altro, l'invasione sovietica dell'Afghanistan, l'operazione Enduring Freedom del 2002, i bombardamenti del Kosovo nel 1999, la guerra Iran-Iraq e le due guerre del Golfo, che si assume il difficile compito di illustrare la complessa situazione che per lungo tempo si sono trovate a subire le popolazioni arabe del Vicino Oriente.
E decide di farlo durante una congiuntura estremamente delicata per gli equilibri mondiali, ovvero nei mesi successivi all’11 settembre, quando la “tigre di carta” statunitense ha già rimesso in moto il suo enorme apparato bellico invadendo l’Afghanistan (7 ottobre 2001, ndr) e preparandosi a compiere un altro balzo nel vuoto, ovvero l’invasione dell’Iraq, guidato dal despota Saddam Hussein Al Tikriti.
Il presidente americano sospetta che Saddam Hussein possieda armi di distruzione di massa, gas nervini, sarin, tossine di botulino e Saddam in passato dei gas ha fatto largo utilizzo prima contro i curdi all’interno dei confini del suo stesso Stato e poi contro gli iraniani durante la prima guerra del Golfo quando Saddam era sostenuto anche dagli Stati Uniti e dall’intero blocco occidentale. Poco importava se i gas venivano usati contro i “bassiji” ovvero gli uomini-bambini, arruolati dall’esercito iraniano per difendere i confini.
Ma ora il secolo breve è terminato e cosi anche i suoi protagonisti, Khomeini non c’è più, l’Unione Sovietica è crollata, Reagan ha l’Alzheimer (morirà nel 2004, ndr), “è rimasto solo lui, il Raiss, a segnare una continua immutabile, al di là del tempo; forse anche fuori dal tempo”. Ma la nuova attenzione che Bush jr ha imposto al problema iracheno -identificato come fulcro principale dell’Asse del Male - ha finito per risvegliare un’attenzione che era stata travolta dall’evoluzione dei fatti.
L’obiettivo si è nuovamente focalizzato su Baghdad, come ai tempi di Bush Senior, in occasione della prima guerra del Golfo; operazione che terminò dopo solo 42 giorni con le truppe americane fermate mentre marciavano su Baghdad. In quel occasione Saddam e il regime si salvarono, graziati dagli interessi elettorali di Bush Senior che sognava la riconferma nel 1992 e da qualche scrupolo all’interno dell’amministrazione repubblicana nell’evitare un nuovo Vietnam. Tuttavia la ferocia e la crudeltà di Saddam fanno del regime instaurato a Baghdad uno dei peggiori al mondo, i corpi dei nemici vengono restituiti alle famiglie perché si sappia e quella ferocia venga diffusa. Tutti hanno paura di tutti, un quarto della popolazione irachena è nel registro degli informatori del Mukhabarat, la polizia politica del regime.
“Però Saddam è anche altro, il fallimento del sogno di costruire un Risorgimento arabo sfruttando la ricchezza dei petrodollari”. La guerra preventiva che il presidente Bush ha lanciato contro il Raiss mette assieme la battaglia contro il terrorismo, il controllo delle riserve petrolifere, la sperimentazioni di nuove armi e l’unilateralismo che da sempre è una forte tentazione statunitense si confronta con il desiderio del mondo di trovare un equilibrio nuovo dopo la destabilizzazione provocata dall’implosione del comunismo.
In queste pagine Mimmo Càndito ci racconta i piani segreti della guerra e la crisi del nostro tempo e lo fa intrecciando la storia del dispotico Raiss a quella del popolo iracheno, ripercorrendo le folli spartizioni coloniali che avvennero durante i trattati di Versailles e che crearono entità statuali nuove e senza tradizione e narrandoci con il punto di vista cinico e sincero dell’inviato le due “guerre del Golfo”, la prima quella tra Iraq e Iran e la seconda tra USA e Iraq in seguito all’invasione del Kuwait da parte dei secondi. E infine ci prospetta una scenario apocalittico, uno scenario non molto diverso da quello che poi si è realmente verificato. Certo era difficile prevedere Daesh nel 2002 ma la natura aborrisce il vuoto e quando gli Stati Uniti decisero di rimuovere il “loro mostro” avrebbero dovuto tenere conto di quello che poteva essere.
“Saddam ha fatto due guerre disastrose, contro l’Iran (per 8 anni) e contro gli Usa (per 42 giorni). Dice di averle vinte entrambe; forse gli è soltanto sopravvissuto. Ora è il tempo della terza guerra del Golfo; sopravvivere anche a questa gli sarà più difficile”. Quattordici anni dopo si può dire che probabilmente Mimmo Càndito non sbagliava ma naturalmente il giudizio sarà riservato ai posteri e alla storia.
Gianluca Pedemonte

  

Mimmo Càndito
L’Apocalisse Saddam
Baldini & Castoldi, Milano 2002


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16 settembre 2016

In libreria

Davide Bagnoli
La cronaca nera in Italia. I perché della sua spettacolarizzazione.
Temperino rosso, Brescia, 2016, pp. 128.
Descrizione
Questi i casi di cronaca nera che Bagnoli ricostruisce con cura analitica e propone al lettore con una scrittura libera da enfasi retorica e in grado di immetterlo nella drammaticità dei fatti, mentre lo induce a riflettere sul sistema del racconto prodotto dai media e dalla curiosità del pubblico". Queste parole di Alessandro Bosi, docente di Sociologia Generale all'Università di Parma, racchiudono il senso di un libro che propone una duplice lettura dei fatti di cronaca che hanno appassionato e angosciato il nostro Paese. La spettacolarizzazione sfrenata a cui abbiamo assistito è figlia soltanto di logiche commerciali o anche il giornalista finisce per subire la forte attrazione di quanto racconta? Cosa prova il giornalista mentre tenta di raccontare in modo oggettivo l'accaduto? Quanto spesso è stata varcata la soglia del rispetto del dolore altrui? In questo libro è contenuta la risposta dell'autore, preceduta dall'analisi di come sono stati raccontati i fatti più emblematici della storia della cronaca nera italiana.
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14 settembre 2016

Tra Social e All-News

Si può dire che l'evoluzione del mestiere del giornalista e dell'organizzazione editoriale e redazionale sia stata sempre in qualche modo al centro dell'attenzione e degli interessi di Michele Mezza. Giornalista Rai fra i più noti e popolari, inviato in URSS e in Cina negli anni 70 e 80, poi nelle guerre dei Balcani fino agli anni 90, già in quella veste - che può essere considerata iconica del grande giornalismo della tradizione: essere presente in prima linea laddove avvengono i fatti che fanno la Storia  - si pone il problema di individuare nuove forme di narrazione giornalistica, quali il documentario radiofonico,  per le quali ottiene anche importanti premi e  riconoscimenti. Negli anni 90 collabora al piano di unificazione dei GR, nel 98 progetta Rai News 24, primo canale all-news della televisione italiana, del quale diventa vice direttore. Insomma un giornalista che, interpretando e vivendo  con passione i fondamentali della propria professione, si interroga sulla sua evoluzione.  Prima dal "di dentro" - sul campo - poi, allargando i propri orizzonti professionali come docente di culture digitali all'Università Federico II di Napoli, studiandone i sempre più rapidi cambiamenti nel grande e tumultuoso oceano della rivoluzione digitale, che sta travolgendo il mondo dell'informazione. 
Il giornalismo  nel nostro tempo dominato dalla Rete, dai social, dalle grandi potenze del mondo digitale: cosa è, cosa sta diventando,  dove sta andando, quale è il suo ruolo, e prima di tutto: ha ancora un ruolo il mestiere del giornalista? Queste sono le domande epocali alle quali cerca di dare una risposta "Giornalismi nella rete - per non essere sudditi di Facebook e Google", il più recente libro di Michele Mezza,  pubblicato da Donzelli.
Impostato esso stesso in modo innovativo, con la parola scritta accompagnata in parallelo dal costante uso di QR code che rimandano ad approfondimenti, video, dati aggiornati in tempo reale, il libro è avvincente, scorre rapido e chiaro nella narrazione,  una pagina tira l'altra come in una storia di cui si vuole vedere il finale.  Ma - nella sua briosa effervescenza - è in realtà un'opera complessa, che affronta temi di portata globale e in continuo divenire, quindi difficilmente afferrabili e sistematizzabili. 
Lo strapotere delle grandi centrali di servizi, come Google, Amazon; la "dittatura" dell'algoritmo che si assume il compito di decifrare cosa vuole il pubblico; gli accordi editoriali e i passaggi di proprietà di testate mitiche come New York Times e Washington Post, che vanno verso una dimensione in  cui il giornale non è più erogatore di informazioni ma di servizi; l'informazione non più come fine ma come mezzo per stringere legami di affidabilità con il lettore; la rete come "listening system" che veicola e incrocia le informazioni e opinioni degli utenti con quelle delle redazioni; la struttura della versione web del giornale che, nella difficile lotta di sopravvivenza delle testate anche più prestigiose, abbandona ogni similitudine con quella del cartaceo, fino al New York Times e al Guardian che affidano direttamente a Facebook la diffusione delle proprie notizie; il ruolo importante delle amministrazioni locali per creare infrastrutture della comunicazione in grado di dare voce e quindi potere alle proprie comunità, in un contesto dell'informazione polarizzato fra "global" e "hyperlocal"...
Dalle molte e complesse suggestioni offerte dal libro esce il quadro di un mondo della comunicazione tumultuoso e per alcuni aspetti contraddittorio, dove le tradizionali coordinate di tempo e spazio - basi del concetto stesso di notizia  -  perdono di significato, al punto che le tradizionali 5 w diventano 6, dove la sesta sta per "while". 
Un mondo in cui la storica distinzione di ruolo fra produttore della notizia - il giornalista  - e fruitore - il lettore - è annullata da un'informazione che nasce dall' interazione e abbattimento della distanza spaziale e temporale fra produttore e utilizzatore: il divorzio fra testimone e giornalista, il matrimonio fra redattore e lettore. 
Determinando  una rottura netta rispetto alla tradizione, e un'evidente discontinuità nel prestigioso ruolo sociale che la cultura degli ultimi due secoli ha riservato al giornalista, i social network e l'accelerazione della trasmissione dell'informazione impongono il passaggio,  come acutamente sintetizza Mezza, dal broadcasting, tipico del mezzo  televisivo e dei media di massa (che tende ad omogeneizzare e unificare - processo da uno a tanti) al networking dell'universo digitale  (distinzione e diversificazione - da tanti a ciascuno).  
Citando spesso Benjamin e Mc Luhan, Mezza dimostra d'altra parte che il processo per cui i mezzi e le modalità del comunicare condizionano i linguaggi e determinano i contenuti parte da lontano. L'attuale rivoluzione non è determinata dalla tecnologia, ma da un'esigenza della società a cui la tecnologia, come sempre nella storia,  ha dato una risposta. 
Dove sta allora il futuro della professione giornalistica?  E soprattutto, ha un futuro il giornalismo?La risposta è sì, a patto che il giornalista viva la propria professione e professionalità in modo totalmente diverso dal passato, non proponendosi come portatore della verità, ma come regista di processi sociali nuovi, in cui la notizia nasce dalla e nella condivisione della rete, aiutando gli utenti a non soggiacere al nuovo e insidioso volto del potere: l'algoritmo semantico, che pretende di interpretare volontà e bisogni della rete. Volontà e bisogni che invece devono rimanere ben saldi nelle mani di quegli esseri umani che in definitiva "sono" la rete.
Così, dice Mezza, qui sta il nuovo ruolo del giornalista: da "cane da guardia" delle istituzioni, a " cane da guardia" dell'algoritmo.
Marisa Gardella

Michele Mezza.
Giornalismi nella rete. Per non essere sudditi di  Facebook e Google
Donzelli, Roma, 2015, 268 pp.





12 settembre 2016

Giornalismo a “stelle e strisce”

Nel libro Il giornalismo americano l’autore, Fabrizio Tonello, professore di Scienza dell’opinione pubblica presso l’Università di Padova (e VisitingFellow alla Columbia University di New York), ripercorre l’evoluzione storica del giornalismo a “stelle e strisce”.
Dalla nascita ai giorni nostri, ciò che viene messo in luce sono le trasformazioni tecnologiche e ovviamente economiche che la stampa americana ha dovuto non solo affrontare, ma anche subire. 
Tonello si sofferma sul  netto cambiamento emerso a partire dagli anni 70’, periodo storico in cui nasce quello che lui definisce “giornalismo interpretativo”, che si trasformerà, più avanti, in “frammentario”.
Si assiste all’abbandono di pilastri quali “verità” e “credibilità”, da sempre elementi ritenuti imprescindibili e valori su cui la stampa, da sempre, ha fondato la propria identità, messi da parte e sostituiti in nome del nuovo format che si andava affermando: l’informazione-intrattenimento o, per dirla all’americana, infotainment.
Finisce l’era dei giornalisti come Pulitzer e Hearst, anche se restano tutte le novità introdotte, a livello grafico, i grandi titoli su tutti, per far posto ad un giornalismo investigativo davvero “pesante” e “profondo” i cui fautori vengono definiti muckrakers, dove la precisione e l’ispirazione politica ispiratrice degli anni 70’ cessa di esistere.
Con il progresso tecnologico che porta ad una drastica riduzione di prezzi di vendita e di stampa aumenta il peso e la presenza della pubblicità. A farne le spese non sono più solo i giornali, e quindi la carta stampata, ma anche i nuovi mezzi che si stanno diffondendo: la radio e la televisione. 
Non importa come i mezzi di comunicazione fossero utilizzati, negli Stati Uniti fino alla guerra del Vietnam, questi ricoprono un ruolo quasi sacro. L’obiettivo era uno solo: difendere i valori americani.
Ed è proprio il Vietnam, insieme anche allo scandalo del caso Watergate, che si sviluppa durante gli anni della guerra, a lasciare un segno indelebile sul mondo del giornalismo statunitense. Anche se, forse, si è trattato più di una vittoria della magistratura e del Congresso rispetto a quella della stampa.
Con lo sviluppo dell’infotainment gli standard tipici della TV iniziano ad imporsi anche alla carta stampata. È l’era delle soft news, della personalizzazione delle notizie e delle storie-spazzatura che avevano il solo obiettivo di accrescere gli introiti. Quello del caso Watergate fu anche un periodo in cui maturarono nuovi strumenti come la tv via cavo o il McPaper, un quotidiano “facile e veloce da consumare come un hamburger”. Successivamente nacquero Cnn nel 1980 e Usa Today nel 1982. Tonello afferma che lo scandalo dell’hotel divenne un mito proprio nel momento in cui i fattori strutturali della crisi successiva della crisi americana iniziavano a manifestarsi. 
Interessante anche la spiegazione data da Tonello sulle proposte di John Edgar Hoover, capo dell’Fbi pronto a tutto pur di eliminare Martin Luther King dalla scena politica. Il direttore del Bureau of Investigation fece preparare un dossier in cui venivano provate le scappatelle di
King, con tanto di rumore dei rapporti sessuali. L’Fbi offrì il materiale a varie testate nazionali tra cui il Times. Tutti i giornali contattati si rifiutarono di pubblicarlo. Tonello sostiene una tesi alla base di questa scelta: “L’unica spiegazione possibile è che il giornalismo di allora considerava la politica come una cosa seria, un campo i cui temi (un conflitto nucleare o un’esplosione di violenza razziale che finisse in una guerra civile) apparivano così importanti a chiunque da relegare le storie di adulterio al di fuori del perimetro delle notizie pubblicabili.” Notizie di infedeltà matrimoniali erano impubblicabili anche per John Kennedy, ma non, di fatto per
Bill Clinton, che ha dovuto affrontare lo scandalo Lewinsky, lanciato non da un medium tradizionale, ma da un sito “pettegolo”, Drudge Report. Sulla testata online di Matt Drudgevenne detto che Newsweek era incerto se pubblicare o no la storia. La mattina dopo il Washington Post
dedicò la prima pagina all’episodio.

Anche la politica viene trasformata in spettacolo, le sorti del paese ora sono messe in secondo piano, tutto ruota attorno alla figura del politico a cui, per ottener consensi, viene richiesta più una buona dote da oratore rispetto a vere e proprie competenze in materia. Tonello si sofferma, in particolare, su una caratteristica dell’opinione pubblica americana nei confronti dei giornalisti: il legame tra media e patria. O, ancora meglio, tra media e amore per la patria. Una buona metà degli americani – afferma Tonello – vuole dei media patriottici ed è disposta a considerarli credibili e professionali solo quando lo sono, rispecchiando così un tratto sociale della realtà americana.

Guglielmo Mazzola


Fabrizio Tonello
Il giornalismo americano
Carocci, Roma, 2005, 144 pp.

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11 settembre 2016

In libreria

Simone di Biasio
Guardare la radio. Prima storia della radiovisione italiana
Mimesis, Sesto San Giovanni, 2016, 136 pp.

Descrizione
“Che un giorno non tanto lontano noi potremo radiovedere non è in alcun modo dubbio”: così scriveva il Radiocorriere nel 1931. Ma quanti oggi guardano la radio, oltre che sentirla? Che cos’è la radiovisione? Secondo Maurizio Costanzo “è una radio che studia da televisione” e questo aiuta già a distinguere: la storia della radiovisione non è la storia della radiotelevisione italiana. O meglio, è una storia della televisione dal punto di vista della radio, il medium sempre dato per spacciato e invece puntualmente rinato. Attualmente la radiovisione è una precisa tecnologia di trasmissione e dunque il termine ha bisogno di essere definito univocamente. Non si tratta di un’espressione moderna: dal 1920 al 1947 è stato il vecchio nome della “grande sorella” tv ai tempi dei primi “esperimenti radiovisivi” dell’EIAR (ma anche di singoli), mentre nel 2000 il network Rtl 102.5 (e con esso altre realtà) ha ridefinito il concetto dando uniformità ai processi di rimediazione. Al centro di queste due epoche sta inoltre il periodo florido della “musica da vedere” negli Anni Settanta e Ottanta, quando le prime radio libere trasmettevano anche in televisione e quest’ultima prendeva in prestito dalla radio linguaggi e fortunati programmi.
Questo saggio è una storia di convergenza tecnologica e l’affermazione dell’ecologia comunicativa secondo cui ogni nuovo medium non espunge il precedente, bensì lo integra nel proprio ecosistema mediale. La radio è il (super)medium con il maggior numero di resurrezioni.

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07 settembre 2016

In libreria


Arturo Marzano,
Onde fasciste. La propaganda araba di Radio Bari (1934-43)
Carocci, Roma, 2015, 448 pp.
Descrizione
Il volume ricostruisce l’esperienza di Radio Bari (1934-43), la prima stazione europea a trasmettere in arabo. Grazie ad una ricerca condotta in numerosi archivi in Italia, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Marocco, emergono da queste pagine i protagonisti di Radio Bari, dai responsabili politici agli autori, agli ospiti, agli speaker, nonché i programmi che la radio ospitò. Le trasmissioni culturali (conversazioni, canzoni, pièce teatrali) furono apprezzate dal pubblico arabo, mentre quelle politiche (i notiziari) non ebbero successo perché scontavano una contraddizione insuperabile della propaganda e, più in generale, della politica estera fascista: Roma corteggiava i nazionalismi arabi e attaccava Londra e Parigi con l’obiettivo di sostituirvisi come potenza egemone nel Mediterraneo e in Medio Oriente, senza considerare che quei nazionalismi si sarebbero opposti con uguale forza al dominio coloniale italiano. Proprio attraverso Radio Bari e la sua “guerra delle onde” con Radio Londra, Radio Paris Mondial e Radio Berlino, il libro, al confine tra storia delle relazioni internazionali, storia transnazionale e storia dei media, mette in luce come la politica araba dell’Italia fascista fosse, nonostante le ambizioni imperiali, destinata al fallimento.
*Link all'Indice del libro:
http://www.carocci.it/index.php?option=com_carocci&task=schedalibro&Itemid=72&isbn=9788843067497

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