Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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25 gennaio 2017

Dei delitti e dei mass media

Come e quando è cambiata la narrazione della cronaca nera in Italia? Perché omicidi, rapimenti e dolore ci attraggono così tanto? C’è un modo eticamente corretto per la narrazione di simili fatti?
Queste sono alcune delle domande a cui Davide Bagnoli, giornalista attivo nella provincia di Parma, cerca di rispondere nel suo libro La cronaca nera in Italia. I perché della sua spettacolarizzazione pubblicato nel 2016.
Il volume è diviso in due parti: nella prima l’autore ci introduce nel mondo della cronaca nera presentando cinque casi tra i più noti in Italia, mentre nella seconda cerca di dare una risposta ai quesiti che hanno ispirato la ricerca per formare il ritratto di una situazione che, a suo avviso, è gradualmente sfuggita di mano per toccare il fondo con la bufera mediatica sul delitto di Avetrana.
E se l’omicidio di Sarah Scazzi è definito come l’apice della «tivù del dolore», l’autore propone come caso chiave per comprendere meglio il fenomeno della spettacolarizzazione quello di Alfredo Rampi, il bambino di appena sei anni caduto nel pozzo di Vermicino che ha tenuto incollati gli spettatori allo schermo per tre lunghissimi giorni. Per la prima volta i mass media, ma anche le istituzioni, danno così tanta importanza e spazio a un fatto che di per sé non ha interesse nazionale, ma in cui tutti si sono immedesimati. E proprio l’istintivo apprendimento empirico dall'osservazione, il sentirsi parte di una storia o comunque provare empatia per i protagonisti di essa è una delle prime risposte che Bagnoli dà per spiegare l’incredibile livello di audience registrato in quell’occasione e la mole di trasmissioni dedicate all’evento, protrattesi anche dopo che per Alfredino non ci fu più nulla da fare.
Gli altri casi analizzati sono invece tutti recenti (i fatti di Vermicino accaddero nel 1981) e ben saldi nella memoria comune: il caso Cogne (2002), la sparizione del piccolo Tommaso Onofri (2006), l’omicidio di Meredith Kercher (2007) e il già citato delitto di Avetrana (2010). Sicuramente si tratta di eccezioni, fatti molto sentiti in primis dagli operatori tv e dai giornalisti che si sono letteralmente accampati fuori dalle case degli interessati, e ciascuno aveva la propria particolarità che ha contribuito ad amplificare l’interesse (l’arma del delitto introvabile per Cogne oppure la risonanza internazionale del caso di Perugia) ma qui il titolo del capitolo, «I casi che hanno cambiato per sempre la cronaca nera in Italia», è illusorio e forse poco sincero: tra i casi principe di nera nel nostro Paese è quindi assente la vicenda del Mostro di Firenze? La scomparsa di Emanuela Orlandi? Tutti i delitti e le stragi di matrice mafiosa? Senza ombra di dubbio quelli proposti sono alcuni tra i crimini più discussi, selezionati dai mass media secondo criteri di notiziabilità che si avvicinano sempre più a mere logiche di mercato, come emerge dalla successiva analisi dell’autore.
Ma lo scopo della ricerca di Bagnoli non è quello di identificare i casi più “quotati” nella cronaca nera italiana, bensì quello di comprendere i «perché della sua spettacolarizzazione». Nella seconda parte del volume diventa chiaro come, per fornire una risposta, l’autore si sia posto inizialmente un’altra domanda: perché siamo attratti dalla violenza?
Una prima “colpa” viene assegnata all’individualismo che oggi permea la nostra società, e alla mancanza di grandi narrazioni e miti che vengono appunto sostituiti dai fatti di cronaca. Questa centralità dell’individuo, riporta Bagnoli citando lo psicologo Phil Zimbardo, manterrebbe viva l’idea che gli atti criminali possano essere sempre riconducibili alla personalità deviata o malvagia di chi li ha commessi, a qualcosa di diverso dall’essere umano “normale”. Un simile processo infonderebbe inoltre nello spettatore un aumento di autostima, perché paragonandosi al criminale esso si riscopre buono.Tuttavia questa società, presentataci come impregnata di individualismo, trova però conforto nel calore della massa, nello stringersi attorno a una perdita o nell’unirsi contro un nemico (reale o meno) mettendo da parte le differenze del quotidiano. Ma queste emozioni da chi vengono suscitate? Dai mass media, a cui l’autore si rivolge con vena polemica sull’argomento della spettacolarizzazione.
Traspare infatti che, secondo Bagnoli, il rispetto delle persone coinvolte nei fatti non dovrebbe essere prevaricato da nessun’altra logica, soprattutto se nascosta dietro a uno sfruttato “dovere di cronaca”. Risulta inoltre scettico sui processi paralleli visti più volte in televisione all’interno di trasmissioni come “Porta a Porta”, che riescono contemporaneamente a disturbare le indagini e a fornire una visione confusa e frammentata all’opinione pubblica.
Però, come fa notare anche l’autore, queste trasmissioni non esisterebbero, o avrebbero certamente cessato di esistere da tempo, se lo share non fosse elevato. Oltre che a politico e allenatore, la televisione eleva chiunque al ruolo di giudice e di inquirente, ci invita a prendere parte alla discussione, a dire la nostra. Bagnoli riconduce questa caratteristica e quella di dividersi tra innocentisti e colpevolisti esclusivamente agli spettatori italiani; non è ben chiaro il motivo di questa affermazione dopo aver definito l’attrazione verso il macabro come un istinto dell’essere umano, e soprattutto avendo “ereditato” questa usanze direttamente dagli Stati Uniti, che in materia hanno molte più histories dell’Italia (ricordiamo tutti i casi di Charles Manson e O.J. Simpson, ad esempio).
Quello che stupisce non è quindi la tendenza al commento e alla presa di posizione, ma la facilità con cui questo verdetto viene emesso, paragonabile alla facilità con cui viene pronosticata una partita. Sembra quasi che la massa non faccia distinzione tra un’esibizione sportiva e un delitto efferato, e l’autore sostiene che questo sia possibile solo se i soggetti coinvolti, e in realtà mi spingerei a dire l’intera vicenda, vengono deumanizzati. In questo modo si prende una totale distanza dalla situazione e non ci si capacita di stare giocando (perché altro non è che puro intrattenimento) con situazioni tragiche e con la vita privata delle persone.
Ma se non è possibile impedire la messa in onda delle trasmissioni che fomentano i processi mediatici, quale soluzione dovrebbe essere adottata? Bagnoli dà la stessa risposta di Cesare Beccaria quando nel suo Dei delitti e delle pene invoca un ritorno alla cronaca giudiziaria, basata solo sui processi e sulle sentenze della Magistratura. Per non giungere a una soluzione così drastica è attivo un organo preposto al controllo delle attività dei mass media, ovvero la Agcom (Agenzia Garante delle Comunicazioni), intervenuto più volte nei casi presentati, in particolar modo per Avetrana, al fine di ristabilire un approccio maggiormente professionale e diminuire la pressione sulla vicenda.
Dopo questi interventi, e dopo una presa di coscienza da parte dei giornalisti della spettacolarizzazione, la situazione oggi sembra diversa, anche se la cronaca nera riempie più del 25% della programmazione di tv e giornali. Bagnoli in questa sua pubblicazione, dal taglio prevalentemente saggistico, traccia il perimetro della spettacolarizzazione del dolore nell’ultimo decennio e cerca timidamente di proporre un’alternativa, coadiuvato da testimonianze di colleghi giornalisti. Si concede però alcune affermazioni che di rado sono presenti in un volume che vuol essere un saggio, come la frase di apertura delle conclusioni «la nostra società è quindi totalmente assuefatta al dolore e terribilmente abituata alla violenza», ipotesi totalmente soggettiva che travisa la diminuzione di filtri nella narrazione e la “distanza” del soggetto dai crimini sullo schermo con un’assuefazione definita addirittura terribile. Ho inoltre notato l’assenza di un aspetto che sarebbe stato interessante analizzare per lo scopo della ricerca, ovvero internet. Senza dubbio la colossale rivoluzione del web ha influito sulla spettacolarizzazione e mantiene vivo l’interesse per i casi di nera (attraverso, ad esempio, portali specializzati) e forse un approfondimento avrebbe fornito maggiore completezza al lavoro.
Nel libro tuttavia sono presenti diversi spunti per ragionare sul rapporto dei media con i delitti che vengono commessi ogni giorno, su tutti a mio avviso proprio quello del rispetto verso la situazione e i soggetti coinvolti: vale assolutamente la pena pensare di più quando si parla o si tratta di argomenti così delicati, e la “normalità” con cui essi vengono presentati e approfonditi non aiuta di certo a tenere un comportamento eticamente corretto. Il cambiamento non dev’essere solo dei media, ma anche e soprattutto dei lettori e degli spettatori, che devono essere informati e sensibilizzati. Leggere questo volume è sicuramente un ottimo modo per dare il via a un cambiamento, per capire ed essere più consapevoli e responsabili.
Edoardo Traverso
 Davide Bagnoli 
La cronaca nera in Italia. I perché della sua spettacolarizzazione
 Temperino rosso, Brescia, 2016.

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