Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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23 maggio 2018

Quel genere di giornalismo che genera sconcerto



Spesso si pensa che le caratteristiche del buon giornalismo siano meramente quelle della chiarezza espressiva e della fruibilità del testo da parte di ogni tipo di lettore. Troppo spesso, altresì,  passa in secondo piano l’importanza della scelta delle parole. Nel momento in cui scegliamo determinate parole per descrivere un’azione o un soggetto, non riportiamo semplicemente la realtà dei fatti ma creiamo realtà. L’obbiettività del giornalista risiede anche nel chiedersi se quel determinato termine, usato per descrivere una persona, è rispettoso della dignità di quest’ultima. Negli ultimi anni è tornato centrale il tema del genere e di come quest’ultimo venga attribuito, aprioristicamente, in base al nome proprio di persona; aprendo un dibattito, soprattutto nei casi in cui si parla di persone transessuali o transgender.
Il giornalista non è avulso dalla realtà sociale: il giornalista è un guardiano della laicità e dei principi essenziali che sostengono la buona comunicazione e la corretta informazione. Troppo spesso leggiamo articoli nei quali viene indicata la sessualità di una persona nonostante sia irrilevante ai fini della cronaca. La domanda da porsi è, non solo perché questo accada ma anche perché nessuno- o meglio la stragrande maggioranza delle persone- si accorga e riconosca questo abuso di potere. Un articolo deve sì essere letto e reso appetibile al lettore, ma questa priorità non deve scalfire l‘identità altrui. Il giornalista di oggi, ancor più rispetto al giornalista di ieri, ha il dovere di essere il più possibile distaccato emotivamente e idealmente dai fatti di cronaca di cui si occupa. Freddo come un investigatore che vuole contribuire alla risoluzione di un caso; freddo ma non per questo meno credibile. L’enfatizzazione di certi fatti, apparentemente comuni, seppur tragici non deve spingere a rendere notizie quelle che non lo sono; notizie che non avrebbero la stessa importanza e visibilità se non fossero state etichettate con un’ideologia omofoba o xenofoba o misogina. D’altro canto, l’informazione giornalistica della carta stampata come del web, tende a imitare il grande schermo, a renderci un continuum tra le pagliette dello spettacolo e le pagliette immaginarie attribuite, dal sentire comune, all’immagine del transessuale.
Senza scomodare vecchi articoli de Il Borghese, negli anni 50’, oggi, purtroppo, ci troviamo ancora a dover discutere dell’importanza che hanno le testate giornalistiche nella lotta  alle discriminazioni. Creare un clima di opinione pubblica, senza assecondare la maggioranza e senza ostentare le minoranze. Partendo dalla conoscenza dei fatti e delle realtà: Se una persona è diventata donna o si definisce tale dopo essere nata uomo, o viceversa, quella persona- che abbia cambiato il sesso biologico o meno- non è un/una transessuale ma una donna o un uomo. Le lotte femministe degli anni Settanta dovrebbero riportarci alla memoria la grande fatica per attuare la laicità in questo paese, se dicente laico. Dovremmo tornare a quello spirito fraterno non religioso né fazioso, scandaloso ma non deplorevole; a quel clima in cui le donne unite creavano la forza per cambiare la loro quotidiana e liberarsi da quell’ Amica oppressiva e rendere più vivibile la realtà alle donne di domani. Oggi la società è frammentata, le femministe come altri gruppi per i diritti civili tendono a creare fronti di opposizione e a non collaborare. Per questo il giornalista dovrebbe, per quanto possibile, cercare di riavvicinare queste due realtà, farle comunicare, semplicemente mettendole in uno stesso articolo- riuscendo così a farle convivere in una dimensione- chiamandole in causa e facendole sentire parte della stessa missione. Può sembrare surreale ma dal surreale che, sempre negli anni Settanta, abbiamo ottenuto il divorzio; e che evento mediatico fu, quella campagna referendaria!
Dovremmo tornare ad essere entusiasti, non di noi stessi e della nostra vetrina social; dovremmo riempire le piazze, riunirci e non schierarci da una parte ma ascoltare tutte le ragioni e rispettare tutte le sensibilità, perché queste ultime sono esperienze di vita, pelle viva.
Di recente, la presidente del Senato -prima donna in Italia a ricoprire questo ruolo- Maria Alberti Casellati, ha chiesto ai giornalisti di non essere chiamata “La Presidente” ma di usare nei suoi confronti, l’espressione, “Il Presidente”. La rete si è schierata e i salotti televisivi, pur di rendere stuzzicante  la scaletta quotidiana, ne hanno parlato e straparlato. E’ una scelta ed è incredibile come una richiesta esplicita sconvolga così tanto gli animi. E’ una scelta da rispettare, come da rispettare è stata la scelta della ex presidente della Camera, Laura Boldrini, di essere chiamata “La Presidente”. Non centra lo schieramento politico, perché a chiedere questo non è il politico o la politica ma una persona, in questo caso una donna che ha il diritto di chiedere il rispetto della sua identità; per meglio dire della sua sensibilità culturale e personale.
 Il giornalista non deve schierarsi con questa o con l’altra fazione, deve – se vuole recuperare la sua credibilità sociale e rendere vivo il giornalismo, distinguendolo dallo pseudo giornalismo-  diventare difensore della laicità, amante della critica e in primis curatore delle parole. Italo Calvino non a caso sosteneva che le parole fanno più male delle pietre.
Federica Frasconi
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