Tranne qualche raro flash di routine, l’Iraq è scomparso dalle pagine dei giornali e dalle informazioni di telegiornali e radiogiornali. È come se laggiù fosse finito tutto, finita la guerra, finite le lotte tra sciiti e sunniti, finite le infiltrazioni terroristiche di al-Qaeda, finite le stragi e le autobomba. Poi sfogli il New York Times e nel piccolo riquadro d’una pagina interna un breve titolo, «I nomi dei morti», accompagna l’annuncio che il soldato John Smith e il sergente Carlos Redondo ieri sono stati ammazzati in Iraq. Smith e Redondo si aggiungono ai 4102 che finora erano i morti di quella guerra, ma altri due o tre o cinque Smith e Redondo già domani cancelleranno questi loro nomi, come accade in ognuno di tutti i giorni da quando la guerra è cominciata, nel marzo del 2003. In Iraq, si combatte e si muore tuttora. Solo che ora non se ne parla, non se ne scrive, non se ne raccontano più uomini, storie, tragedie, battaglie. L’Iraq pare diventato una guerra dimenticata. Un tempo, le «guerre dimenticate» erano quelle dove i giornalisti non andavano perché - si diceva - non interessano nessuno, non erano coinvolte né grandi potenze né grandi strategie. Ma oggi la geografia del giornalismo è cambiata drammaticamente, oggi le guerre «dimenticate» sono le guerre dove invece i giornalisti non vanno perché non possono andarci. Perché il rischio d’esservi ammazzati è troppo elevato. Farnaz Fassihi, inviata del Wall Street Journal in Iraq, dice: «Essere un giornalista straniero a Baghdad in questi giorni è come essere un condannato agli arresti domiciliari». (La sua intervista può esser letta nel Diario-mese che ha pubblicato la traduzione italiana d’un numero speciale del Columbia Journalism Review dedicato ai reporter in Iraq). Quest’ultima guerra del Golfo è, forse, anche l’ultima del giornalismo di guerra. Un mestiere va finendo, quanto meno va finendo il modo con cui lo si faceva, che era la pratica testimoniale di un rapporto diretto con il territorio raccontato e con coloro che vi operavano, i soldati, gli ufficiali, i guerriglieri, ma anche la gente comune e la loro vita senza storia e senza qualità. Oggi, in Iraq, se pensi ancora di andare in giro a osservare, intervistare, incontrare persone e informatori, sei un aspirante suicida. Puoi essere rapito e sequestrato, come la Giuliana Sgrena o Malbrunot, ma è più facile ancora che ti prendano e ti sgozzino. Dice Borzou Daragahi, del Los Angeles Times: «Un espediente strategico che utilizzo è di andare sul lungo di un attentato, raccogliere con estrema rapidità i numeri dei cellulari della gente lì attorno, per andarmene nel giro di dieci o quindici minuti. Poi, mentre sto tornando indietro in macchina, li richiamo per raccogliere le loro testimonianze». Borzou non ha l’aspetto di un giornalista straniero, ma quei quindici minuti sono il limite massimo della sua missione. I media occidentali stanno delegando la raccolta e produzione d’informazioni ai loro collaboratori iracheni, che però - nemmeno essi - sono esentati dal pericolo, perché considerati «spie degli americani». Il Committe to Protect Journalists ha contato che, dei 206 giornalisti e stringer e interpreti uccisi fino a oggi in questa guerra, più di 170 erano iracheni. Nell’analisi critica del giornalismo d’oggi, ha un ruolo sempre più accentuato l’utilizzo mediato dei flussi informativi, cioè la sostituzione del lavoro sul campo con la pratica di «impastare» in redazione le informazioni raccolte attraverso l’uso di fonti esterne. È, questo, il derivato più determinante dell’evoluzione tecnologica e delle straordinarie potenzialità del web. Finora, il reporter di guerra aveva potuto resistere a questa mutazione, integrando piuttosto con Internet il suo vagare e indagare sul campo di battaglia. Ma ora che l’Iraq è diventato territorio off-limits, la cronaca di una morte annunciata si va consumando. E ci si chiede che cosa sia giornalismo oggi.
Professione: reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile, da Hemingway a Internet
Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2000
Professione: reporter di guerra, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2002
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