Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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25 luglio 2008

Come cambiano i giornali

Giorgio Bocca firma la rubrica "L'Antitaliano" per il settimanale "l'Espresso". Il commento di questa settimanana è dedicato agli scenari del giornalismo italiano.

"L'Espresso", 31 luglio 2008.

Perché siano leggibili occorre un linguaggio corretto, scolastico, che è quasi scomparso, sommerso dai gerghi, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mode inzeppate di parole straniere
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Mi scrivono dei giovani che vogliono fare il giornalista, mi chiedono consigli. Se fossi sincero gli direi: ringrazio il cielo di aver chiuso la professione prima che fosse morta suicida. Per fare, non dico un giornale eccellente, un giornale da classe dirigente, ma un giornale leggibile, occorre la materia prima indispensabile, un linguaggio corretto, scolarizzato, del tipo appunto imparato sui banchi di scuola adatto a un lettore di media cultura - sopra il livello di povertà, se no che gli serve leggerlo? - cui il giornale serve come informazione su quel che accade al mondo e per dare aria nuova al cervello. Questo linguaggio scolastico è quasi scomparso, seppellito dai gerghi, dalle sigle, dalle abbreviazioni, dalle allusioni, dalle mutazioni continue degli argomenti, delle mode inventate giorno per giorno, inzeppate di parole straniere, specialistiche, professionali, da segnali grafici che messi assieme, più che a un nuovo linguaggio, assomigliano a un sistema confuso d'indicazioni stradali, in una metropoli in cui non sai bene come muoverti, dove andare.
I vecchi lettori del secolo borghese forse esageravano con i loro giornali di classe scritti solo per gli elettori che il censo autorizzava al voto. Ma in casa mia e dei miei amici c'erano degli abbonati ai grandi giornali, alla 'Stampa', alla 'Gazzetta del Popolo', al 'Corriere della Sera' che li compravano ogni giorno, ma che, non facendo in tempo a leggerli, li conservavano a pile nel salotto e con calma, pian piano, li recuperavano per così dire senza sprecare un titolo, un corsivo. In quei giornali c'era la cultura media comune della borghesia al potere e del socialismo nascente. Non c'era politico conservatore o rivoluzionario che non pensasse subito a un giornale come strumento indispensabile per la politica come per l'economia.
Gramsci e Mussolini erano inconcepibili senza l'Ordine Nuovo o il Popolo d'Italia, gli imprenditori senza i magni organi 'indipendenti', cioè alle loro dipendenze, il Fascismo senza la stampa di regime. Che cosa è cambiato profondamente nella stampa? È cambiato l'editore che non è più un politico o un imprenditore, ma il mercato, e precisamente quel suo braccio armato che è la pubblicità, la creatrice irresistibile di desideri e di consumi, la potentissima locomotiva che trascina il genere umano verso nuovi sprechi e forse nuove guerre. L'informazione adatta alla pubblicità deve sempre essere un pugno allo stomaco, deve stupire, impressionare, lasciare il segno sul lettore. Per questo oscilla fra catastrofismo e ottimismo, fra paure immaginarie e promesse esagerate. In questa eccitazione continua si passa da un eccesso all'altro. Negli anni della mia gioventù tutti i giornali descrivevano i pregi dell'amianto e ora tutti lo accusano di essere cancerogeno. Le statistiche dicono che i delitti 'antichi', omicidi e rapine, stanno decrescendo, ma la paura cresce fra la gente e può decidere un'elezione.
Il massacro dell'automobile continua: tra Europa e Stati Uniti uccide più di centomila persone l'anno e ne ferisce più di un milione, ma il mercato fa finta di non accorgersene. Il catastrofismo si mescola all'ottimismo, entrambi esagerati, si procede fra filantropia e ferocia, magari resuscitando le vecchie persecuzioni ai piromani colpevoli di tutti gli incendi come gli untori della peste. Il commissario alla protezione civile Bertolaso, seguendo l'immaginazione popolare, li ha definiti "uomini malvagi che vogliono rovinare l'Italia", mentre sono italiani normali che ritengono normali i loro piccoli, abituali delitti
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