Il bavaglio, la malattia che uccide i giornali
In edicola con l’Unità il primo d’una serie di saggi di Furio Colombo. Esordio con un’indagine sulla metamorfosi del mestiere di giornalista. Dal New York Times a Le Monde il cancro è lo stesso. Il nuovo titolo non è una trovata per dare un segno vivace a una nuova edizione. Intende rendere evidente un aggravarsi del sistema delle informazioni in Italia dopo la clamorosa vittoria di Berlusconi nell’aprile del 2008. Con il suo ritorno al governo, che implica anche un progetto di vasta revisione costituzionale, piú o meno condiviso con l’opposizione, Berlusconi riporta al centro dello Stato il peso del suo impero mediatico, sommato al controllo sulla televisione di Stato, che gli è garantito dalla legge Gasparri, rimasta in vigore durante il breve governo del centrosinistra, sommato alla vastità della sua ricchezza, dunque capacità di influenza o potere sui consigli di amministrazione dei più importanti gruppi editoriali italiani. Il problema - in questa fase difficile per le democrazie occidentali, ansiose, insicure e inclini a rinunciare a diritti inalienabili come la libertà di stampa in cambio di una illusione di sicurezza - non è solo italiano, come testimonia Barbara Spinelli su La Stampa del 18 maggio 2008.«Sono tante le democrazie alle prese con una informazione che fallisce la prova, che al cittadino non rende visibile l’invisibile, che dal potere politico si fa dettare l’agenda, le paure, gli interventi prioritari. Che è vicina alle lobby e ai potenti piú che ai lettori».
Basterebbe ricordare lo scandalo del Pentagono che fin dall’inizio della guerra in Iraq ha fatto in modo che ex ufficiali venissero assunti come «esperti militari» dalle maggiori reti televisive americane, in modo da assecondare autorevolmente, in ogni telegiornale o talk show le notizie preferite dal Pentagono. Basterebbe citare lo scandalo del New York Times che per anni ha passato le «veline» della Casa Bianca al New York Times attraverso la principale notista politica di quel giornale (poi scoperta per caso e licenziata, come si narra in questo libro). Basterebbe riferirsi ai tormenti del quotidiano Le Monde, uno dei piú autorevoli del mondo, che non riesce ad uscire da una crisi che in parte è economica e in parte di capacità e volontà di confermare senza compromessi la propria missione.Ma vede giusto la Spinelli quando aggiunge alla sua dura diagnosi il quadro, peggiore, della situazione italiana: «Quel che ci rende originali (noi italiani, ndr) è il fallire del sistema immunitario che altrove funziona. Non sappiamo liberarci dalle patologie, dalle loro cellule».L’informazione italiana non produce anticorpi atti a ristabilire un contatto con la società. Il risultato è palese, oggi, e lo storico Adriano Prosperi lo descrive con nitidezza: «Un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto di correttezza, un’aria di intesa e di pace. Fuori, intanto, una guerra tra poveri e pogrom moltiplicati contro Rom e diversi. Il guaio è che anche la stampa è palazzo: incensa serenità politiche ritrovate e scopre, d’improvviso, una società inferocita da tempo, ormai indomabile dalla destra che l’ha sobillata».
Il fatto è che la stampa e la tv, come buoni e fedeli retrievers trovano ciò che devono trovare e lo portano dove lo devono portare, in onda o in pagina, proprio come in una partita di caccia fruttuosa e bene organizzata. Una pesante anomalia in piú a carico dell’Italia e del suo sistema di notizie, che è casta-specchio della casta del potere.
In Italia, di frequente, e anche nel mezzo di drammatiche vicende nazionali e internazionali, i telegiornali aprono con interventi, parole, apparizioni del Papa che non sono notizia, sono buon materiale per i programmi religiosi e per qualche occasione di approfondimento. Invece la capacità della Chiesa cattolica di dirottare il corso delle notizie a vantaggio della propria prominenza si esprime in un vero, incontrastato dominio delle redazioni che il «silenzio stampa» italiano, preso nella doppia morsa del potere commerciale di Berlusconi e del potere religioso della Chiesa, segnato dalla resistenza esangue di un sistema immunitario allo stremo, di una contrapposizione politica fragile e smarrita, è un fatto tristemente evidente. Ma poiché sarà sempre contestato sia dalla malafede di chi - come abbiamo detto - domina la scena (la strategia vincente è sempre quella di farsi passare per parte minoritaria, perseguitata, un underdog che esercita con le unghie e coi denti un diritto alla sopravvivenza), sia da chi, in buona fede, e senza vedere la camera stagna in cui è racchiuso vuole difendere ciò che crede il suo buon, onesto lavoro, potrà essere utile offrire qui, all’inizio di questa breve esplorazione dell’infelice giornalismo italiano contemporaneo, la narrazione e documentazione di un fatto italiano e televisivo di ordinaria amministrazione che però è apparso tanto allarmante quanto esemplare a chi ha ancora memoria di giornalismo libero. È il caso Travaglio, il caso di un giornalista che, invitato ad una intervista giornalistica intesa come occasione mondana, si è preso la responsabilità di trasformarla in occasione politica. La Rai si è scusata con il pubblico, si è dissociata dall’intervistato-ospite, ha dichiarato che l’ospite risponderà personalmente dei danni, come se avesse devastato lo studio invece di raccontare ciò che sa e ha dimostrato di sapere di un personaggio delle istituzioni. Perciò abbiamo ritenuto di aggiungere un nuovo capitolo dedicato a questa strana avventura televisiva che offre una preziosa chiave di lettura per il materiale e le opinioni che seguono sullo stato del giornalismo italiano. Intanto Berlusconi torna a governare e si avvia, con tutto il peso delle sue vettovaglie, verso la presidenza della Repubblica.
* estratto dal sito de L'Unità