La possibilità per una società civile di creare un’informazione di tipo multiculturale è direttamente proporzionale al grado di civiltà della società stessa.
Il testo Un diverso parlare di Marcello Maneri e Anna Meli, descrive come in Italia il percorso di integrazione delle comunità immigrate passi anche attraverso i media. Questi, definiti dagli autori “media multiculturali”, rivestono una particolare rilevanza perché informano ed intrattengono questo pubblico che difficilmente troverebbe rappresentanza nei canali tradizionali. I canali presi in considerazione sono la carta stampata, la radio e la televisione, rappresentati con le dovute differenze di creazione, gestione e target a cui indirizzare il proprio lavoro.
Il problema che interessa gli autori del testo è la potenzialità di questi progetti all’interno dei media italiani. Mentre la carta stampata può definire a priori il proprio pubblico, per scelte di campo e soprattutto per scelte linguistiche, i media culturali di radio e televisione vivono in una situazione decisamente più complicata perché ospiti della (monolingue) tv italiana. Ma all’interno della programmazione radiotelevisiva, i format creati per i migranti possono raggiungere un pubblico decisamente più ampio della free press distribuita nelle agenzie Western Union. Il canale perfetto non esiste, soprattutto per una realtà che si tende erroneamente sempre più spesso a generalizzare.
Dfficilmente si può trovare un punto in comune negli usi e nei costumi delle diverse etnie che compongono la società dei migranti che si è stabilita in Italia. Non esiste una lingua dell’immigrato. Queste diversità portano ad un’ ovvia difficoltà ad uniformare un format utile ad informare ed intrattenere.
Il problema italiano è complesso. L’immigrazione è vista come un elemento negativo, i media la dipingono in una maniera che spaventa l’italiano medio. L’immigrato, seppur integrato, rischia sempre la messa in discussione; le mele marce, che sono marce sia indigene che barbare, sono messe nella condizione di reiterare i propri reati. L’Italia ha paura del diverso, dimentica il fatto di essere stata il trampolino di milioni di uomini che hanno raggiunto tutti i continenti alla ricerca di una nuova vita negli anni della crisi. L’Italia ha grosse divisioni interne che ne minano la stabilità. La crisi fa chiudere a riccio e gli aculei devono essere ben serrati per garantire la sicurezza.
Qui il problema dei media multiculturali. Spesso sono portatori di ghettizzazione perché non si interessano di far da ponte tra le culture. Il giornale scritto per un etnia è in lingua, è autoreferenziale, tratta dell’Italia solo nel momento in cui l’Italia tratta di quell’etnia. Sicuramente utile per mantenere il legame con la madrepatria e con le tradizione, sicuramente lodevole perché nessuno deve dimenticare le proprie origini, sicuramente isolazionista.
L’italiano non si interessa a questo tipo di editoria. Non c’è piacere nel conoscere chi sta intorno. Si vive di pregiudizio o al contrario di cieca devozione interessata. Questa editoria non fa nulla per invitare il migrante ad essere un po’ più italiano, ma soprattutto per invitare l’italiano nel mondo del migrante.
Il problema della lingua potrebbe essere il primo da cui partire. In Italia solo ora si inizia a parlare un’altra lingua, per motivi di studio o lavorativi. L’italiano non è la lingua più semplice da imparare, anche per chi in Italia è nato e cresciuto. Inoltre il colonialismo non ha assolutamente esportato la nostra lingua negli stati da cui provengono i migranti. Queste premesse ci aiutano a capire le motivazioni di una comunità nel preferire la propria lingua a quella del paese ospitante. Ma le lingue degli immigrati sono tante e tanti saranno i free press, le trasmissioni radiofoniche e i programmi televisivi. Tutto questo porta ad una dispersione enorme di risorse, ad una impossibile collaborazione tra i vari attori della scena multiculturale ma soprattutto ad un disinteresse della comunità autoctona nei confronti del nuovo che avanza.
Stati in cui la lingua nazionale è più globalizzata possono permettersi di integrare meglio alcune etnie che parlano allo stesso modo. L’Inghilterra è l’esempio più eclatante ormai quasi tutti conoscono l’inglese. In Italia nessuno arriva con un’infarinatura scolastica di italiano. Nascono le difficoltà, perché se nessuno ti capisce nessuno riesce ad aiutarti. Se in Italia fosse diffuso il bilinguismo, non il tedesco del Trentino ma il semplice inglese o i vicini francese e spagnolo, sicuramente una parte di immigrati riuscirebbe a farsi comprendere e magari a creare una stampa di interesse più generale.
Secondo problema è l’interesse suscitato dagli argomenti. L’italia è una spugna culturalmente esterofila. I film e le serie televisive straniere (doppiate dalla migliore scuola di doppiaggio del mondo) riempono i nostri palinsesti. I libri stranieri, tradotti, sono nelle nostre librerie. La musica straniera va di pari passo, più o meno, con la nostra. Il terreno pare fertile per un altro tipo di contaminazione. I temi autoreferenziali delle pubblicazioni multiculturali ci allontanano come il crocifisso per i vampiri. Probabilmente non ci interessa la spiegazione della politica italiana che riguarda l’immigrazione o più semplicemente già non ci interessa se scritta in italiano, figuriamoci in una lingua a noi sconosciuta.
Qui il problema che a mio avviso è il più determinante: la questione culturale. La cultura in Italia latita. Non c’è interesse se non per argomenti standardizzati e svuotati di contenuto per essere assorbiti dalla massa. La tv generalista è piena di belle donne e vuota di concetto. I giornali sono anacronistici per chi li compra e un’incognita per chi no. La radio è in leggera ripresa grazie alle interminabili ore passate nel traffico. Chiedere agli italiani di sforzarsi nel comprendere le altre culture è uno sforzo troppo grande. Si prende il diverso, gli si mette addosso il clichè (peraltro facilmente indossabile) ed il gioco è fatto.
Concludendo l’analisi di Maneri e Meli è decisamente interessante, anche nel metodo di ricerca, e mostra una situazione che deve cercare di uscire fuori e di far capire che il diverso non è sempre e comunque un male, evitando però la sterile ghettizzazione. Nel momento in cui da parte sua ci sarà questo intento starà a noi rispondere all’appello e capire che il diverso non è sempre e comunque un male.
Francesco Traverso
Un diverso parlare. Il fenomeno dei media multiculturali in Italia a cura di Marcello Maneri e Anna Meli
Roma, Carocci, 2007, 128 pp.*link all'Indice del libro. ______
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