Più specificamente la storia del giornalismo di guerra è un’indagine circostanziata delle sue diverse performances. Uno studio e una verifica dell’immagine che i reporter seppero dare degli eventi bellici, alla luce delle conoscenze date dagli studi e dalle scoperte di ambito storico. La ricerca storica serve a ricostruire una o più “verità” sugli accadimenti bellici; non solo. Inquadra il conflitto in un più ampio contesto politico-economico-sociale-culturale; non basta. Definisce lo stato del giornalismo di un’epoca, tenendo conto dei suoi progressi tecnici e tecnologici, del suo peso all’interno della società, infine delle restrizioni cui è stato sottoposto dai governi per imbrigliarne la corsa.
Innanzitutto il testo fa questo: incastona la pratica (e professione) del giornalismo in una rete complessa intessuta dalle maglie della storia, di cui essa è figlia e parte integrante. Da un lato, prodotto della storia: nata e cresciuta passo passo con le sue civiltà; dall’altro, membro di essa: capace di studiarne il divenire, influenzarne il corso e figgerne l’immagine a memoria dei posteri.
Il giornalismo nasce nella storia, vi cresce all’interno, poi se ne distanzia e ne diventa scrutatore. Per questo studiare la storia del giornalismo, o di una sua branca, significa ripercorrere a ritroso il suo cammino, osservando picchi e cadute, svolte e accelerazioni, in rapporto alle società civili, alle strutture politico-economiche e alle sovrastrutture culturali nelle quali è inserito.
Torno al libro. Bergamini scrive mescolando in una sola narrazione elementi storici e giornalistici. Il suo testo raccoglie ricostruzioni proprie della storia dei conflitti bellici, argomentazioni attinenti al giornalismo di guerra (accompagnate da excursus di storia del giornalismo tout court) e descrizioni dei reporter di spicco, alti esempi di dedizione, coraggio e amore della verità. Questo trova una soluzione unica e continua sulla pagina, che diventa il delta di confluenza di fiumi argomentativi distinti.
La trattazione inizia con le guerre napoleoniche (o meglio, di stampo napoleonico), e finisce con i conflitti in Afghanistan e Iraq d’inizio XXI secolo. Si parte con le corrispondenze per il Times dalla Crimea dell’inviato speciale William H. Russell: uno dei grandi padri fondatori del war reporting. Si conclude con l’analisi di un giornalismo di guerra complesso e soffocato dagli organismi di potere. Se Russell doveva ancora rivelare al mondo la grande potenza del resoconto di guerra e l’importanza del suo autore, il reporter; le prove giornalistiche dei conflitti afghano e iracheno, dimostrano definitivamente come i mass media siano allacciati agli interessi degli organismi di potere (economico e politico), e non possano per questo motivo offrire un’informazione penetrante.
Dovrà nascere pertanto, se non è già nato (con le tecnologie digitali), un movimento che stacchi il giornalismo (certa parte di esso) dai circuiti dominanti, risponda al bisogno di informazione delle società civili e si riavvicini alla “realtà”.
In mezzo, il testo affronta l’analisi delle guerre coloniali, dei conflitti guerre mondiali, della guerra civile spagnola (1936-1939). Dà spazio alle guerre “periferiche” degli anni ’50, ’60: inserite nel quadro ideologico-culturale della Guerra Fredda. Combattute perciò dalle popolazioni indigene di vari paesi “arretrati” (Filippine, Nigeria, Angola, Algeria ecc…), ma armate e appoggiate dalle potenze dominanti del pianeta, Usa da una parte, Urss dall’altra.
Nasce come guerra “periferica” anche la guerra del Vietnam, salvo poi veder crescere a dismisura l’impiego americano dei soldati e dei mezzi. Sarà un teatro di morte come pochi altri nella storia, ma anche una prova di alto giornalismo da parte delle centinaia di reporter sul campo. Viene ricordato come una delle occasioni in cui la voce del giornalista è riuscita a sorprendere “il potere” e a ritrarlo impegnato nel conflitto. Viene ricordato come “la guerra nel salotto di casa”: l’uso coraggioso e sapiente della cinepresa porta le tragedie del fronte (dei mille fronti del Vietnam) in televisione e spalanca l’orrore della guerra davanti agli occhi delle famiglie americane.
Va detta ancora una cosa, il testo non costituisce solo una storia del war reporting, ma anche una storia della censura. Dei vari tipi di censura e dei diversi metodi con cui “il potere” li ha applicati al giornalismo di guerra.
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