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01 dicembre 2011
La zona grigia calabrese
«È un inchiesta dei colleghi di Milano ma spero almeno che non si dica più che le indagini si fermano sulla soglia della ‘zona grigia'». Sono state queste le prime dichiarazioni rilasciate alla stampa da parte del Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, nel momento in cui un magistrato, un politico, un avvocato, un medico e un maresciallo della Guardia di finanza venivano arrestati in Calabria per ordine della procura di Milano.
Un momento triste e ben difficile da metabolizzare per tutto il Paese, ancor più per chi della Regione ultima fra le ultime è originario; e forse non di meno per un onesto servitore dello Stato che non più tardi di un anno e mezzo fa, era il Maggio 2010, veniva ‘omaggiato’ di un regalo da parte di quelle cosche sempre più indebolite dall’opera di sequestro beni portata avanti proprio da Pignatone in collaborazione con la Direzione Investigativa Antimafia di Reggio Calabria. Era un bazooka. Fatto trovare, dopo una telefonata anonima, davanti al Tribunale di Reggio Calabria.
Facile immaginare cosa possa esser passato nella testa del Procuratore quando ad essere arrestato è stato il presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, Giuseppe Vincenzo Giglio, accusato di rivelazione di segreti d’ufficio e favoreggiamento personale aggravato dalla finalità di favorire l’associazione mafiosa. Eppure nonostante l’inevitabile shock personale i primi pensieri di Pignatone si sono rivolti a questa specie di simbolo mitico, questa zona grigia sempre narrata e sempre descritta ma evidentemente mai compresa fino in fondo, nella sua essenza e nella sua esistenza reale e non soltanto in quella di comodo, di facciata. Quell’esistenza che ha spinto vari cronisti a tracciarla con le loro penne il più delle volte in modo strumentale quando le porte di determinati Tribunali non si aprivano come invece essi avrebbero preferito raccontare. Ed era a questo che si riferiva il Procuratore di Reggio nelle sue dichiarazioni.
Già Primo Levi ne parlava come di una ‘realtà dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi’ ma il termine è ancora attuale al punto da comparire spesso nella letteratura criminologica con il significato di quell’area intermedia tra legale e illegale. E nel giorno in cui oltre a Giglio finiscono in carcere anche il consigliere regionale calabrese, Francesco Morelli, l’avvocato del foro di Palmi (Reggio Calabria) ma con uffici tra Milano e Como, Vincenzo Minasi, il maresciallo capo della Guardia di finanza, Luigi Mongelli, e nel giorno in cui c’è un secondo magistrato, Giancarlo Giusti di Palmi, divenuto ormai già celeberrimo per l’intercettazione in cui arriva a confessare al presunto boss Giulio Lampada di come nella vita lui ‘avrebbe dovuto fare il mafioso’; ecco è questo lo scenario che inevitabilmente porta a pensare che forse mai come adesso si è accesa la luce su questa zona d’ombra che da sempre governa con la ‘ndrangheta la vita e gli affari della regione calabrese.
Da anni siamo abituati praticamente a tutto. Un politico calabrese indagato per fatti di mafia non fa più notizia, anche sul mercato dell’informazione è diventato ormai un prodotto scadente. Quando però ad essere colpiti sono i magistrati tutti, di colpo, ci si scopre impreparati alla enormità della notizia, indifesi e frastornati.
Ebbene da calabrese spero di avere ancora a lungo la capacità di stupirmi di fronte a notizie di questo tipo. Anche se forse indagini come questa, che vanno dritte al cuore della classe dirigente con lo scopo di far luce su questo crepuscolo fatto di collusione e connivenza, riescono involontariamente ad ottenere il risultato di annerire ancor di più gli orizzonti del resto di una società civile che classe dirigente non è. E che a queste condizioni non vorrà mai divenire, continuando cosi a schivare le responsabilità che dovrebbe invece assumere.
Marco Tripepi
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