Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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21 gennaio 2012

Scaffale amico

Francesca Astengo
Le grandi firme della critica televisiva in Italia (1954-2000)

Tesi italiane, 2012.

Introduzione

"Faccio un’ipotesi. La televisione è arrivata soltanto quarant’anni fa. Loro sono un po’ distratti. Si sa come sono fatti, gli intellettuali. Tanto intelligenti, ma anche un pochino lenti. Non si sono ancora accorti che è stata inventata."
BENIAMINO PLACIDO


Sergio Saviane era solito dire, con il suo brillante e generoso anticonformismo, che la critica ha una figlia legittima che si chiama satira. Apparentemente – e il lettore si accorgerà di quanto questo avverbio sia fondamentale per cambiare continuamente l’ordine delle carte, già ben rimescolate, di questa tesi – la matrice teorica del “giudizio”, autonomo e autoritario, lega a filo doppio le due discipline esegetiche. In realtà, nessun cittadino del “secolo dei media” si sentirà disposto a negare, se interpellato, che tra satira e critica scorre un fiume immenso, di autorevolezza e di credibilità, di stroncature indorate dall’alto e di trovate geniali miseramente cestinate. Non vi è dubbio, nella prassi e nella storia, che tra Francesco De Sanctis, il buco nero da cui nacquero Benedetto Croce e tutta la scuola critica italiana del Novecento, e Bobo - per citare il personaggio da vignetta forse più famoso - intercorrono differenze non ignorabili, che fomentano l’interpretazione della presunta filiazione individuata dal critico dell’”Espresso” in termini essenziali di grandezze. La satira è più piccola, pesa meno, parla a bassa voce anche quando urla, perché sa di pronunciare parole meno degne; la critica, dall’alto – e in molti casi è pur vero – della sua scienza infusa e sterminata, ha il pollice di Cesare, decide cosa è vivo e cosa deve morire.
Tutto vero, se si tralascia la critica della televisione. Il “convitato di vetro”, come amava chiamarlo Luciano Bianciardi nel simposio del suo divano, sconvolse da subito sia le caratteristiche estetiche a cui le accademie erano abituate, sia quelle temporali. D’improvviso, nei pochi giovedì che servono al televisore per raggiungere i salotti più comodi della penisola, s’instilla il bisogno di analizzare uno spettacolo innovativo e inconsueto e di renderlo fruibile, allo scritto sul quotidiano del mattino, tralasciando che l’evento è ormai passato per sempre.
Parole buttate al vento, la critica televisiva.
Al vento nella dimensione in cui, come Umberto Eco coglie dal principio, la televisione non è arte e gli strumenti dell’estetica tradizionale non possono rovistare tra la monnezza. Al vento perché chi non è scoliaste di un fenomeno creativo puro, non ha nessun diritto di essere annoverato nell’Olimpo della critica e il suo giudizio perde, istantaneamente, ogni brillio di verità e di autorevolezza. A queste deformazioni congenite del mezzo televisivo si aggiunge, prepotentemente, lo spunto virale del pregiudizio. Non solo – si legge tra le righe nei giorni paleotelevisivi – la televisione è poca cosa e per giunta brutta, ma, per occupare il suo palinsesto, è costretta a filtrare e triturare le “cose che contano”. È il caso degli sceneggiati televisivi tratti dai grandi classici della letteratura che si rialzano, alla fine del round, sempre stanchi e tumefatti; fa la stessa fine, con implicazioni logistiche oltre che etiche, il cosiddetto “teatro televisivo”, snaturato dalla compressione del palcoscenico e del loggione in venti pollici piatti. Infine, anche l’arte più bistrattata prima dell’avvento, salvifico, della tv e ultima ruota del carro dell’evoluzione umana – per come era considerato all’inizio del secolo, non è un nostro giudizio -, il cinema, ha le sue rimostranze da fare. Perché il cinema, anche se trasmesso in televisione, resta cinema ed è competenza del critico cinematografico.
Si sarà compreso, a questo punto, che le “grandi firme” di cui si parla nel titolo difficilmente furono considerate tali nel pieno della loro attività. C’è chi per sposare la televisione diventò asceta, come Ugo Buzzolan nel suo stanzino, c’è chi, come Achille Campanile, fu, forse per sua fortuna, sempre considerato “altro” e preso poco sul serio, come se l’etichetta da “umorista” che gli erano valsi i suoi strabilianti romanzi fosse la patente per uscire dai giochi. Sergio Saviane fu sempre tacciato d’alcolismo; Beniamino Placido fu ferocemente invidiato. Anche dopo la riforma della Rai e, in seguito, il crollo del monopolio che spalanca le porte dell’etere alle emittenze private, se la televisione è lentamente e progressivamente accettata, la critica resta una spina nel fianco. Suoi delatori, che prima erano gli intellettuali di cartello e i settori culturali dei giornali che fanno opinione, diventano nientemeno che gli addetti ai lavori. Via Teulada, corso Sempione, viale Mazzini e il Babuino sono fortezze stravaganti e blindate, da cui l’informazione esce rimasticata e addolcita secondo i voleri di palazzo, mentre l’intrattenimento fa la muffa nei suoi schemi del passato.
Ritornando all’affermazione iniziale di Saviane, credo che la filiazione da lui individuata volesse suggerire ben altro. La critica, ma solo il magnifico e pessimo mondo della televisione ha saputo dimostrarlo, conserva al suo interno una radice comune a quella della satira. L’aveva dentro in origine, ma i secoli di bambagia a cui la connivenza, derivata dal necessario scambio, con le arti riconosciute e affermate l’hanno fatta scivolare nell’oblio dei velluti e degli ori. La critica, avendo a che fare con la televisione, deve tornare a combattere e quel che di satirico si nasconde nei soldati di questa battaglia – soldati apocalittici e soldati integrati – è la capacità di togliersi i guanti e sporcarsi le mani.
Edoardo Sanguineti, nella sua Critica in poltrona (1978), incalza la polemica brechtiana contro la critica teatrale definita “culinaria” – quella che nella lingua catodica si traduce in anteprime, promozioni, interviste, servilismi – suggerendo che il critico perfetto, quello che la scampa, dovrebbe essere un po’ miope e un po’ presbite; non solo difettato, ma anche distaccato e sornione. Il recensore ideale, per Sanguineti, va a teatro con un grosso sigaro e si guarda bene dal dimenticarlo, evitando di farlo spegnere sebbene sotto i suoi occhi scorrano le meraviglie più stupefacenti sulla faccia della terra. Il critico televisivo – l’esempio è illustre e arguto – dev’essere tutto questo e anche, suo malgrado, turarsi il naso. Solo con i sensi appositamente allenati si coglie il giusto atteggiamento verso un media così controverso, che racchiude in sé istanze artistiche poco palesi e discutibili, che si impone, per natura, il fine irrealizzabile di essere al contempo “popolare” – con tutti i difetti che la definizione si porta appresso dai meandri reconditi dell’attestazione della grande cultura – e di qualità. La denuncia del critico televisivo, che non sviscera dal proprio contesto le discussioni sul metodo e sui paradigmi che sono propri della critica sui generis, si scontra con poteri che vanno aldilà dello spettacolo, che si addentrano nella più viva lotta politica e che toccano da vicino le corde della manipolazione dell’opinione pubblica e della propaganda neanche troppo subliminale.
Parole controvento, la critica televisiva.
Lo scopo di questo lavoro è, in sostanza, quello di fare criticamente chiarezza sulle figure - Luciano Bianciardi, Achille Campanile, Sergio Saviane e Beniamino Placido – che sole, o quasi, hanno saputo, con stratagemmi, convinzioni e disposizioni spesso opposte, atterrare nell’arena dello spettacolo televisivo per sconfiggere il pregiudizio e denunciare, senza mai scendere a compromessi, i sotterranei accordi, le viltà e le contraddizioni di trent’anni d’Italia, fuori e dentro la tv.
Una precisazione è doverosa per quanto riguarda l’apparato del lavoro. Storie della critica televisiva ne sono state scritte alcune. L’obiettivo, in questa sede, era duplice e nasceva dalla necessità del confronto che proprio i testi-guida, di fine ricercatezza e memorabile suggestione, hanno saputo stimolare. Si è cercato, con i pochi mezzi a disposizione, di conservare, e se possibile, ampliare la sistematicità propria del testo di Elena Dagrada (A parer nostro. La critica televisiva nella stampa quotidiana in Italia, 1992) che è il vero punto di partenza di questa tesi ma, focalizzandosi in maniera più tecnica sul contesto degli anni ’90 e sulle specifiche editoriali delle testate, si conforma come un libro per gli addetti ai lavori. Questo non vuole esserlo e si ripropone, senza ambizioni, di abbozzare le linee guida, storiche e interpretative, che al lettore “esterno” possano suggerire almeno un’idea del contesto in cui si muovono i nostri personaggi.
In secondo luogo - e il rimando va alla brillante ricostruzione famigliare della critica televisiva redatta da Nanni Delbecchi (La coscienza di Mike, 2009) - si è sentito il bisogno di ridurre la fortunatissima parte aneddotica dei racconti dei critici, per dare invece più spazio ai testi e all’analisi, essenzialmente letteraria, dello stile e della composizione, come il corso dei miei studi umanistici mi ha reso propensa a fare.
La conclusione, tutta personale, è un invito alla rilettura di questi autori che non meritano di essere dimenticati. Mai come oggi la loro parola è attuale, il loro stile raggiante, il loro insegnamento una guida per sopravvivere alla modernità. Non solo televisiva.
Francesca Astengo

*Francesca Astengo si è laureata in Informazione ed editoria (laurea magistrale) presso l'Università degli studi di Genova con la tesi ora pubblicata da Tesi italiane. Il libro è acquistabile sul sito tesi italiane.it.
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