Dodici dei più illustri nomi del giornalismo iraniano raccontano esperienze di repressione, censura e autocensura nel proprio Paese. La lotta per la libertà di informazione attraverso gli occhi e le parole di Ahmad Rafat, Massoumeh Shafie, Maryam Afshang, Ahmad Zeydabadi, Mehrangiz Kar, Ebrahim Nabavi, Lili Farhadpour, Mashaollah Shamselvaezin, Emadeddin Baghi, Mohammad Ghouchani, Mohsen Sazgara, Bijan Rouhani. Ma anche di Stefano Marcelli e Roberto Reale, giornalisti italiani. Tanti nomi, persone e storie diverse. Denominatore comune il desiderio di un’informazione libera, svincolata dal potere, non censurata.
Ciò che viene descritto nel libro ritrae in maniera inedita il Regime degli Ajatollah e delinea i confini di quell’opposizione liberale di cui però nessuno parla.
I pensieri e le esperienze dei giornalisti, tradotti e impressi su carta, omaggiano l’esercizio della libera espressione, in uno spirito solidaristico rivolto a scrittori e intellettuali ai quali è stato negato il diritto alla comunicazione e all’espressione.
E’ proprio Marcelli, presidente dell’associazione ISF, a scrivere le prime pagine, forse le più crude, sicuramente le più esemplificative. Racconta di Akbar Ganji, il giornalista rinchiuso nel carcere di Evin, “la casa dei fantasmi”, che nel suo settimanale Roche no (Nuova via) aveva denunciato i delitti compiuti dal regime contro gli intellettuali dissidenti e per questo condannato a 6 anni di reclusione. Resiste alle torture, non chiede la grazia, continua a scrivere dal carcere. Nell’estate del 2005 invita il popolo iraniano a boicottare le elezioni contro la prevista vittoria del falso riformista Khatami e inizia uno sciopero della fame che durerà 2 mesi. Si mobilitano per lui Amnesty International, le Nazioni Unite, Kofi Annan: ne denunciano le pessime condizioni, ma il giornalista non viene liberato. “Questa candela è quasi spenta - scrive dal carcere di Evin - ma questa voce non sarà messa a tacere”. Ma non si spegne, Ganji: verrà rilasciato nel 2006.
Anche Ahmad Zeidabai, oggi collaboratore della BBC World Service, fu imprigionato. Nel libro, mediante un’intervista, racconta che cosa ha significato lavorare in un giornale, Hamshahri (Il Cittadino), considerato il capofila del giornalismo indipendente iraniano dell’era post rivoluzionaria. Parla di autocensura, sostiene che solo in rare occasioni è riuscito a evitarla: “non è facile scrivere liberamente, quando si è appreso questo mestiere in un paese dove la censura è una regola e non un’eccezione”.
Viaggio nella storia del giornalismo iraniano, tra i tentativi compiuti dai giornalisti per poter esercitare con libertà e dignità la loro professione. Pagine e pagine alla scoperta dell’Iran più intellettualmente acceso e crudo, quello dei dissidenti disarmati che non usano altro messo mezzo se non la parola. Le donne e il giornalismo di Lili Farhadpour, il viaggio di un fotografo raccontato da Rouhani, e ancora il ruolo dei blog e la repressione in rete analizzati da Roberto Reale. E la conclusione, di Rafat: la speranza è l’ultima a morire.
Il coraggio unito all’entusiasmo e al desiderio di chi vuol “far sapere”, di chi ama il proprio paese e lo vuole libero, di chi difende la propria professione.
Inno alla libertà di manifestazione delle idee. Ciò che fa di un paese un paese democratico. - Irene Salinas
L'ultima primavera. La lotta per la libertà di informazione in Iran
a cura di Ahmad Rafat
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