«Ci sono fatti, pezzi di storia, che esistono solo perché c’è una fotografia che li racconta. […] Queste foto, che hanno plasmato il nostro immaginario collettivo, mi hanno spinto ad andare a cercare i loro autori, per farmi raccontare il momento in cui hanno incontrato la Storia e hanno saputo riconoscerla».
Come José Koudelka, “l’anonimo praghese”, che testimoniò la sanguinosa repressione della Primavera di Praga, realizzando uno dei più grandi reportage della storia del fotogiornalismo. «Devi capire al volo che è quello il momento in cui hai un appuntamento con la Storia», commenta Elliott Erwitt, che con i suoi scatti ha testimoniato meglio di chiunque altro il cambiamento di un Paese, gli Stati Uniti d’America, dalle tensioni razziali degli anni Cinquanta all’elezione del Presidente Obama alla Casa Bianca.
Perché se “fotografare” significa “scrivere con la luce”, questi fotografi, al pari di tanti giornalisti e scrittori, hanno raccontato storie incredibili con la loro macchina fotografica. Storie di guerra, morte e disperazione, come quelle raccontate negli scatti di Don McCullin in Vietnam e in Libano, o di Paolo Pellegrin in Iraq, ma anche storie di speranza, bellezza e umanità. In ogni caso, storie raccontate “dal di dentro”. «Le belle foto sono in quell’acqua sporca, non puoi stare ai margini, un po’ fuori e un po’ dentro: […] non puoi stare sulla sponda a guardare ma devi diventare parte della storia e abbracciarla fino in fondo», spiega Steve McCurry, che immerso nell’acqua sporca ha realizzato i suoi scatti migliori. Questo è il lavoro del giornalista: immergersi nel mondo e contaminarsi. Perché un giornalista non è un entomologo, provoca Calabresi: non può osservare il mondo dall’alto, come si fa con un formicaio, ma deve vivere in mezzo alle formiche.
E, possibilmente, farsi guidare dall’atteggiamento del cercatore, spinto da una grande curiosità e armato di una buona dose di pazienza. È quello che Alex Webb, il fotografo “del colore”, ha sempre tentato di fare: «Quando fotografo, io provo a capire e mentre scatto le foto comprendo sempre qualcosa in più. […] Le fotografie ci permettono di capire qualcosa visivamente e questo ci spinge a comprendere la stessa cosa intellettualmente». In molti casi, è proprio grazie alle fotografie, grazie al loro impatto visivo e alla loro forza comunicativa, che ancora oggi, a distanza di anni, continuiamo a interrogarci, a commuoverci e a indignarci di fronte agli avvenimenti della storia trascorsa.
È un viaggio nel passato quello che Calabresi regala ai suoi lettori. Sfogliando le pagine del libro, la storia degli ultimi cinquant’anni ci scorre sotto agli occhi come il panorama dal finestrino di un treno. Proprio come il panorama che Paul Fusco immortalò a bordo del Funeral Train, il convoglio di dieci vagoni su cui il feretro di Bob Kennedy partì da New York e attraversò cinque Stati per arrivare alla destinazione finale, Washington. Un milione di persone ad aspettare lungo i binari per tributare il proprio addio al candidato democratico ucciso pochi giorni prima: è il ritratto più emozionante del popolo americano mai realizzato, che ancora oggi commuove chi lo osserva.
Un viaggio come quello intrapreso da Sebastião Salgado, che con il suo progetto In cammino attraversò quaranta Paesi in sette anni, per raccontare il genocidio ruandese e le terribili conseguenze che ebbe sulla popolazione, costretta nella violenza dei campi profughi, eppure mai ritratta come povera e disperata, ma come umanità in fuga, derubata della propria dignità. È sua l’intervista con cui si conclude, affatto casualmente, A occhi aperti. Dopo tanta morte e violenza, Salgado sceglierà di tornare alla vita, con il suo ultimo progetto, Genesi: «Dopo tutto questo, ho pensato che esiste anche il dovere di fare qualcosa di bello, di mostrare a tutti l’incanto della natura». «Appassionato e contaminato del mondo che si è rivelato ai suoi occhi», così lo descrive Calabresi. Nei suoi scatti della Foresta Amazzonica e delle Isole Galapagos che illuminano le ultime pagine del volume si legge tutto l’incanto del mondo, della natura e dell’umanità.
“Incanto” è forse la parola che meglio riassume questo libro, che è molto di più di una semplice carrellata d’interviste. Forse per l’atmosfera sospesa in cui si è immersi nel tornare indietro di anni lungo la linea del tempo, forse perché le immagini catturano, quasi risucchiano, sicuramente perché la prosa di Calabresi è chiara e precisa, e al tempo stesso delicata, evocativa, un po’ magica. In qualche modo, è un libro pieno di poesia. Lo si percepisce sin dalle prime pagine, ma è a metà del volume che diventa cosa certa, alla fine del dialogo con Elliott Erwitt. In cima alla pagina, uno scatto che ritrae Barack e Michelle Obama fotografati da centinaia di persone con telefoni o piccole macchine fotografiche. Poco sotto, una domanda: hanno ancora senso i fotografi nell’era digitale, in cui la fotografia è ormai alla portata di tutti? E, infine, la sua risposta, precisa, esauriente e chiara: «Tutti possono avere una matita e un pezzo di carta, ma pochi sono i poeti».
Mario Calabresi
A occhi aperti
Roma, Contrasto, 2013, 206 pp.
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