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30 settembre 2014
Informazione violenta
Lo spunto è l’articolo di Sergio Romano I terroristi che
sono tra noi, pubblicato su "Corriere della sera" di
sabato 27 settembre 2014, dove si illustrano le due differenti battaglie da
combattere nella guerra contro lo Stato islamico: una militare e l’altra
culturale. Credo ne esista una terza, molto meno evidente, quella
dell’informazione di tipo sensazionalistico.
La violenza appare un corollario secondario. L’indignazione
uno spiacevole intralcio piuttosto che una necessità. Così lo spettacolo della
morte entra nelle nostre case con i tg della sera, tra un piatto di spaghetti e
un bicchiere di vino, senza creare grossi imbarazzi o problemi di digestione.
Lo stesso scenario si ripropone la mattina successiva con i titoli-slogan delle
prime pagine dei quotidiani, tra il profumo rassicurante della brioche e del
cappuccino.
La guerra con il suo orrore si mescola alle nostre faccende
quotidiane senza alcuna sensazione di rigetto. Dai tg, dal web, da ogni forma
di stampa emerge il dramma delle violenze perpetuate contro innocenti. Panorami
che sembrano lontani. Ma vicina è la stessa violenza, più subdola e silenziosa,
che pervade la nostra vita, costretta ad interagire con scenari cosparsi di
paure, sospetti, vigliaccherie, nemici immaginari. E poiché l’uomo si abitua a
tutto, finisce col diventare assuefatto e indifferente anche quando non
dovrebbe. Anche davanti alla decapitazione, allo stupro, al genocidio. Pare un
ossimoro pensare che la nostra giornata sia scandita dal fiato pesante della
morte. Le nostre attività “da vivi” scorrono tra il sangue delle macellazioni
dell’Isis, nella tranquilla indifferenza di chi pensa che tanto si tratta di
una guerra che non ci tocca. Ma come
può l’orrore, sbattuto nelle case all’ora dei pasti, prevalere sull’indignazione
umana? Come ci si può abituare a certe notizie? E come può l’informazione
soccombere al diktat dell’audience o delle vendite?
Anche l’informazione è un’arma, molto potente e pericolosa,
che ferisce attraverso la visione dei bombardamenti o il frame del video di una
decapitazione. Un’arma che può rivelarsi inconsciamente letale mentre i nostri
bambini assistono indifesi al rito del naufragio di centinaia di “nemici
clandestini” o ai morti ammazzati dalla mafia.
Un video o un titolo di giornale che bruciano il pensiero
critico di milioni di persone, che manipolano scelte e volontà di un pubblico
incapace di rifiutarne la visione o la lettura.
A questo è ridotta oggi l’informazione?
Il problema non è solo etico e sociale ma comunicativo. Da
una parte è doveroso informare, mentre dall’altra è auspicabile maggiore
attenzione, tatto e sensibilità da parte dei media nel proporre certe notizie.
Tra il prigioniero di guerra che viene decapitato e il giovane che guarda e
riguarda, con curiosità morbosa, il video della decapitazione sul web che
differenza c’è? Nessuna: entrambi sono morti. Uno fisicamente e l’altro emotivamente. Perché non si può e non si deve accettare di vivere accompagnati dal fantasma della morte e della violenza come se fosse una cosa “normale”.
Forse, in tale contesto, una giusta informazione può trovare una buona occasione per curare la patologia del sensazionalismo, del titolo spot, facendo in modo che la morte passi attraverso la vita e non il contrario.
Anna Scavuzzo
27 settembre 2014
In libreria
Ewan Clayton
Il filo d'oro. Storia della scrittura
Torino, Bollati & Boringhieri, 2014, 400 pp.
(disponibile anche in formato ebook)
Descrizione
*link al sito di Ewan Clayton
Il filo d'oro. Storia della scrittura
Torino, Bollati & Boringhieri, 2014, 400 pp.
(disponibile anche in formato ebook)
Descrizione
«Questa – ha scritto Ewan Clayton, presentando il suo libro – è la storia degli uomini che hanno cambiato la scrittura; e siccome noi siamo gli eredi delle scelte che loro hanno fatto, questa è anche la nostra storia». Il filo d’oro della comunicazione scritta – la più antica e persistente delle tecnologie umane – si è dipanato lungo tutto il percorso dell’umanità per oltre tremila anni. Parte dalle pareti rocciose di Wadi el-Hol, nell’Alto Egitto, e da lì passa ai pezzi di coccio, al papiro, alle architravi marmoree, alla pergamena, alle tavolette di cera, alla carta cinese, fino ad arrivare allo schermo pixellato del computer e sui muri delle periferie metropolitane. La scrittura – questo tesoro cangiante – è stata impressa in tavolette di argilla, arrotolata in papiri, legata in codici, rilegata in libri e codificata in bit. Milioni di mani hanno scritto grafie diverse usando scalpelli, bacchette, piume d’oca, grafite, pennelli, caratteri mobili di piombo con font sempre nuovi, stilografiche metalliche, penne a sfera del signor Bìró, macchine da scrivere rivoluzionarie, tastiere QWERTY e bombolette spray. Ogni parola, tracciata da chiunque, con qualsiasi mezzo e su qualsiasi superficie, ha mostrato chiaramente la storia che l’ha preceduta e dialogato in maniera serrata con il suo tempo e la sua società. Questo è Il filo d’oro: l’epopea affascinante e sorprendente di quel miracolo culturale che è la parola scritta, da sempre strumento insuperabile di comunicazione e motore del progresso culturale, scientifico e politico dell’umanità. Stiamo vivendo un periodo di svolta e di grandi cambiamenti tecnologici. Eppure mai come ora gli uomini hanno scritto con tanta abbondanza, e in questo loro gesto, forse inconsapevolmente, continuano a tramandare, adeguandoli al loro tempo, segni che sono figli di una storia lunga e sfaccettata, che poi è la nostra storia. L'autore Ewan Clayton è un noto e stimato calligrafo, docente alla facoltà di Arti, Design e Media presso l’Università del Sunderland, in Gran Bretagna, dove dirige il Centro Internazionale di Ricerca Calligrafica. Negli anni ottanta ha vissuto presso la Worth Abbey, nel Sussex, come monaco benedettino, lasciando in seguito il monastero per lavorare presso il Xerox’s Palo Alto Research Laboratory (PARC), il luogo in cui sono stati inventati i computer connessi in rete, le finestre di Windows, l’Ethernet, la stampa laser e dove sono state gettate le basi dell’odierna scrittura elettronica.
*link al sito di Ewan Clayton
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24 settembre 2014
In libreria
Alessandro Papini
Post-comunicazione
Istituzioni, società e immagine pubblica nell’età delle reti
Milano, Guerini e Associati, 2014, 202 pp.
Descrizione
Post-comunicazione
Istituzioni, società e immagine pubblica nell’età delle reti
Milano, Guerini e Associati, 2014, 202 pp.
Descrizione
La post-comunicazione è quell’insieme di superfici comunicative e ambienti di interazione generati dalle nuove tecnologie, che sta oggi diventando il moderno paradigma relazionale verso cui individui e società moderne adeguano comportamenti e stili di vita. Tutti siamo digitali e organizziamo la nostra vita permeati dai nuovi media. Così non è per le istituzioni e gli apparati pubblici che, al contrario, per la natura stessa che assume il potere burocratico, tendono a opporre resistenza al cambiamento. Se la crisi che la comunicazione pubblica sta attraversando è così profonda, è perché essa non mette in questione soltanto la legalità della funzione, ossia il campo delle regole che ne definiscono l’esercizio, ma anche la sua legittimità nel rappresentare l’immagine pubblica del Paese. Finito il tempo dello Stato-nazione come unità di misura dei processi comunicativi, un nuovo ruolo attende oggi la comunicazione pubblica. L’approccio post-comunicativo spoglia di responsabilità l’apparato pubblico per orientarsi al raccordo con una società civile mediatizzata, globale e autonoma nelle auto-rappresentazioni.
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06 settembre 2014
In libreria
Federico Rampini
Rete padrona. Amazon, Apple, Google & co.
Il volto oscuro della rivoluzione digitale
Milano, Feltrinelli, 2014, 278 pp.
Descrizione
Rete padrona. Amazon, Apple, Google & co.
Il volto oscuro della rivoluzione digitale
Milano, Feltrinelli, 2014, 278 pp.
Descrizione
Mi trasferii a San Francisco nel 2000 per vivere nel cuore della Silicon Valley la prima rivoluzione di Internet. Ci ritorno oggi da New York e ho le vertigini, e un senso d'inquietudine. La velocità del cambiamento digitale è stata superiore a quello che ci aspettavamo e ormai la Rete penetra in ogni angolo della nostra vita: il lavoro, il tempo libero, l'organizzazione del dibattito politico e della protesta sociale, perfino le nostre relazioni sociali e i nostri affetti. Ma la Rete padrona ha gettato la maschera. La sua realtà quotidiana è molto diversa dalle visioni degli idealisti libertari che progettavano un nuovo mondo di sapere e opportunità alla portata di tutti. I nuovi Padroni dell'Universo si chiamano Apple e Google, Facebook, Amazon e Twitter. Al loro fianco, la National Security Agency, il Grande Fratello dell'era digitale. E poi i regimi autoritari, dalla Cina alla Russia, che hanno imparato a padroneggiare a loro volta le tecnologie e ormai manipolano la natura stessa di Internet. Con questo libro vi porto in viaggio con me nella Rete padrona. È un viaggio nel tempo, per confrontare le speranze e i progetti più generosi di un ventennio fa con le priorità reali che plasmano oggi il mondo delle tecnologie. È un viaggio tra i personaggi che hanno segnato quest'epoca, da Bill Gates a Steve Jobs, a Mark Zuckerberg, e tra tanti altri profeti e visionari meno noti, che già stanno progettando le prossime fasi dell'innovazione."
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03 settembre 2014
Vale ancora la pena di vivere in Italia?
"Il Buon Paese " di Enzo Biagi. Suggestioni e parallelismi 1981-2014
Lo spirito che anima Enzo Biagi nella sua inchiesta Il
Buon Paese del 1981 non è frutto di
genuina curiosità, ma di sincera preoccupazione. Nell’Italia del 1981 valeva la
pena restare?
Biagi ci offre una carellata di ventinove ritratti umani, testimonianza unica,
per la sua sensibilità, dell’Italia di trentatré anni fa. Così simile e tanto
diversa da quella che oggi viviamo. La crisi internazionale e quella economica
si fanno più pressanti, la politica è già cosa lontana dalla vita di tutti i
giorni, il terrorismo si insinua.
Subito si capisce che qualcosa è cambiato: gli anni Ottanta
rappresenteranno infatti una fase passaggio. Tutto ciò che aveva rappresentato
gli anni Sessanta e Settanta, si perderà: il clima non è più lo stesso: per
descrivere l’Italia di Enzo Biagi la politica quasi non serve, ma apre la
rassegna di interviste. Il primo è il Presidente della Repubblica Sandro Pertini,
seguito dal parlamentare Giorgio Amendola e dal sindacalista Luciano Lama: è
questa la politica che Biagi ha scelto di raccontare per la sua Italia. Se la
figura di Pertini non poteva mancare, come idolo degli italiani, l’intervista
ad Amendola serve per chiudere un ciclo ed è lo stesso Biagi ad ammettere “Ho
capito che non facevo un’intervista, ma raccoglievo un testamento” (p. 1).
Luciano Lama è invece il simbolo di un’Italia operaia, che a causa della crisi
perde certezze e vede nel sindacato un intermediario per trattare con
l’imprenditoria. Sta scemando la passione ideologica dei decenni precedenti, la
sostituiscono la scetticismo e la diffidenza.
Le altre storie appartengono a uomini e donne di ogni
estrazione sociale, provenienti da ogni area geografica del Paese. C’è spazio
per tutti nell’Italia di Biagi: per l’industriale e per l’operaio, per il sacro
e per il profano, per la nobile imprenditrice e per gli attori della casa di
riposo per artisti, per il letterato e l’ex analfabeta autodidatta. Ognuno
porta il suo contributo: in qualche modo, tutti fanno l’Italia.
I protagonisti sono scelti con cura e vengono incastonati
dentro la “cornice-Italia”. Sono molte le domande ricorrenti, declinate in
diverse forme, tra queste troviamo: “Vorresti raccontarmi la tua giornata?”,
“Chi sono i nostri compatrioti più infelici?”, “Chi sono gli italiani
che se la passano meglio?”, “Ha visto Prova d’orchestra di
Fellini? Che ne pensa?”, “Qual è il peccato che consideri più grave?”,
“Che possibilità abbiamo, di salvarci?”, “Che cosa sono i soldi?”,
“Chi è per lei un comunista?”, “Chi è per lei un imprenditore?”,
“A suo figlio che consigli dà?”, “C’è qualcosa che le fa paura?”,
“Politicamente che cos’è?”, “Chi sono i suoi amici?”. Il lettore
può quindi confrontare le risposte degli intervistati, che sembrano dar voce a
quella che potremmo definire l’opinione pubblica italiana. Attraverso un
piccolo gruppo di persone, Enzo Biagi riesce a dar voce a tutte le facce del
nostro Paese: alle istanze, ai successi e le sconfitte di tutti quanti.
Ogni intervista è preceduta e
seguita da un commento del giornalista, che racconta in breve al lettore la
storia dell’intervistato e che, a fine capitolo, va a chiosare esprimendo la
propria impressione sull’incontro.
Il filo conduttore è un immaginario itinerario attraverso la
Penisola: Roma, Milano, Torino, Padova, Vicenza, Scaldaferro di Pozzoleone
(VI), Bologna, Imola, Modena, Parma, Montagnano (AR), Pavia, Massa Carrara,
Salerno, Palermo, Cagliari, con un salto oltre confine, nella Lugano che
Prezzolini aveva scelto come dimora dei suoi ultimi anni.
A ogni tappa un personaggio racconta la propria storia
attraverso un’intervista; in alcuni casi manca la voce del protagonista, la cui
esperienza rivive attraverso le parole di Biagi. A loro volta queste storie
raccontano l’Italia: la sua spiritualità cattolica, il suo spirito
imprenditoriale, la sua cultura.
Nulla sembra mancare in questo ritratto, tanto semplice e a volte
amaro. Amaro perché restituisce un’immagine chiara: il brillante spirito
italiano convive con le miserie che ancora non è riuscito a debellare. C’è la
storia di Mimì Aylmer alla Casa di Riposo per artisti di Bologna, che qualcuno
avrebbe voluto chiudere. La storia di Rossanna Riccetti, madre di due
tossicodipendenti: Massimo e Fausto, morto di overdose. E ancora il racconto di
vita di Antonietta Pepe, salernitana, che ha imparato a leggere e scrivere
senza essere andata a scuola e che ha undici figli, quattro sordomuti. I
ritratti di Pietro Calogero e Giancarlo Stiz, magistrati che hanno combattuto
il terrorismo nero. L’intervista alla famiglia di un altro magistrato: Guido
Galli, ucciso dalle Brigate Rosse. L’ultimo capitolo è dedicato alla Sardegna:
Enzo Biagi sceglie di raccontarla attraverso gli occhi di tre carabinieri: il
colonnello Felice Scalzo, il maggiore Franco Murtas e il maresciallo Giorgio
Spano. Raccontano dei briganti, di quella realtà rurale e così “isolata”,
diversa dal resto della Penisola. Una realtà così lontana, che per essere
raccontata serve la testimonianza del presidio dello Stato. Biagi ascolta il
loro racconto con l’attenzione di un antropologo che studia un popolo a lui
sconosciuto.
C’è spazio per nomi importanti: Gianni Agnelli, simbolo delle
dinastie dell’imprenditoria italiana, Padre Martini, che si appresta a
diventare vescovo di Milano, Callisto Tanzi, ancora ben lontano dal crack
Parmalat, Elvira e Enzo Sellerio, che con l’aiuto di Leonardo Sciascia hanno
raggiunto il successo, Giuseppe Prezzolini, sulla soglia dei novantanove anni.
Le interviste non si soffermano solo sulla vita professionale
e pubblica degli intervistati, Enzo Biagi vuole arrivare al cuore di
quest’Italia ed è per questo che le sue domande sono discrete, ma spesso si
fanno personali. Lo scopo è quello di rappresentare il cuore del Paese.
L’Italia del 1981 vive delle grandi contraddizioni, ma
attraverso questa inchiesta, Biagi trova la risposta alla sua domanda. Alcuni
problemi sociali sembrano insanabili, atavici in Italia, ma vale ancora la pena
restare: esiste una forza vitale che ci porta avanti, attraverso i buoni e i
cattivi momenti, attraverso la tragedia e il successo. Come lui stesso dice: “Se
arriverete all’ultima pagina, forse vi sarà chiaro perché l’Italia sta in
piedi, perché ogni mattina, più o meno, escono i tram, i bambini vanno a
scuola, e fuori della porta c’è la bottiglia del latte e il giornale. Esiste
ancora qualcuno che fa la sua parte: sono quelli che forse ci salveranno” (p.8).
*
La mia copia de Il Buon Paese è di seconda mano, sulla
quarta di copertina qualcuno ha inciso una data, 23/7/82. Il libro era appena
stato ristampato in seconda edizione da Mondadori. Il 1981 è appena passato: è
stato un anno intenso, un anno di cambiamenti.
C’è un mondo nuovo da affrontare e il giornalismo italiano si
confronta con nuovi eventi e nuove evoluzioni: il terrorismo è una realtà
sempre più concreta, gli attentati sono sempre più frequenti, nel mese di marzo
viene scoperta la loggia massonica P2: è un terremoto, ogni settore
dell’industria è colpito, editoria compresa. Il Corriere della Sera perde
100.000 copie di tiratura e buona parte della redazione, compreso lo stesso
Biagi. Il 17 maggio, con un referendum, gli elettori respingono l’abrogazione
della legge 194. A giugno un dramma scuote la nazione: Alfredo Rampi, 6 anni,
muore a 60 metri di profondità, tre giorni dopo la caduta in un pozzo. Nella
speranza di poter documentare il momento del salvataggio, il TG1 e subito dopo
anche il TG2 e il TG3 aprono una diretta in esterna, che durerà 18 ore e si
concluderà tragicamente con la morte del piccolo. In seguito i direttori dei
tre telegiornali vennero accusati di scarsa sensibilità, avendo
spettacolarizzato un così tragico evento.
E’ in questo scenario che prende il via l’inchiesta de Il
Buon Paese. Bisogna fare chiarezza e portare un po’ di luce su questo
panorama desolato. E’ questo il compito che si prefigge Enzo Biagi, che, con la
pacatezza e la serenità che lo hanno contraddistinto, mette un po’ d’ordine e
fa emergere il lato meno triste del nostro Paese. Anche nella tristezza e nella
miseria, Biagi ha saputo trovare il lato buono: le interviste non sono mai
formali, sono sempre cariche di emotività. Sono ritratti pieni di colore, c’è
il dialetto di Antonietta Pepe, il pranzo semplice di Pertini, come quello di “certi
professori che insegnano in provincia” (p. 12), la semplicità del piccolo
Paolo che cammina con le ciabatte del papà, è figlio di Guido Galli, magistrato
ucciso dalle Br.
La lettura è piacevole e veloce, grazie a una scrittura
semplice e lineare, ma coinvolgente. Biagi dà molto spazio alle riflessioni del
lettore, lascia a lui la possibilità di giudicare i personaggi raccontati e
l’epoca in cui vissero.
In poco più di duecento pagine, Enzo Biagi riesce a
descrivere l’umanità intera. La mette a nudo in tutte le sue sfaccettature, ma
il risultato è sorprendente: sono passati trentatré anni dall’avvio di questa
inchiesta, per di più, in un’epoca che ha attraversato velocissimi cambiamenti
e che hanno segnato cambiamenti epocali per la storia dell’uomo. Eppure le
similitudini con il nostro tempo sorgono spontanee.
Già dai primi capitoli, si notano due temi ricorrenti
“sfiducia nella politica” e “crisi internazionale”, gli stessi che ancora oggi
ripetiamo come mantra. A un primo sguardo, può sembrare che l’Italia sia
rimasta immobile per decenni, ma a ben vedere si può capire che c’è stata una
grossa evoluzione, che, sotto alcuni aspetti, è ancora in atto.
Siamo un Paese più laico: benché la maggioranza dei cittadini
italiani sia di fede cattolica o si dichiari credente, la religione non occupa
più una parte così importante delle nostre vite. Il terrorismo non è più una
realtà quotidiana, è diventato una pagina buia nella storia del nostro Paese.
Con il senno di poi e un po’ di
sarcasmo, si può guardare all’intervista “Il mio latte nutre anche i soldati
USA”, in cui un quarantenne Callisto Tanzi alla domanda “Che cos’è il
denaro?” dichiara “Una cosa che serve rovinarne molte altre” (p. 134).
Tra i nostri cittadini è cresciuto ancora il livello di istruzione; c’è anche
più consapevolezza dei rischi del mondo: la droga non è una piaga sociale tanto
distruttiva quanto lo era nei primi anni Ottanta.
In questi trentatré anni però qualcosa si è perso: i Tullio
Campagnoli, i Mario Lodi, i Gian Luigi Morini, i Sellerio, i Panini ma anche i
Gianni Agnelli sembrano non esserci più, sembrano non trovare più spazio.
Personaggi come questi hanno rappresentato non solo il made in Italy, ma il
vero e proprio spirito dell’italianità: creatività, imprenditorialità,
sensibilità culturale. Per non parlare dei Prezzolini e dei Bacchelli, che
davvero possono essere considerati unici e appartengono a un altro mondo, sia
culturale sia storico.
Di Enzo Biagi ricordo Il Fatto in onda su Rai1 nelle
sere della mia infanzia, non ho potuto vivere appieno la sua carriera e la sua
vita professionale, ma leggendo questa sua raccolta di interviste, qualcosa è
scattato. Qualcosa che è più di una suggestione. “Vale ancora la pena di
vivere in Italia?” è una domanda che colpisce, soprattutto perché rimane
molto attuale: conosco tanti coetanei che sono emigrati e io stessa ogni giorno
sembro avere un motivo in meno per restare. Queste riflessioni hanno riportato
alla mente un testo molto più recente, un libro che rappresenta una
testimonianza sull’Italia degli anni Duemila: è Vieni via con me di
Roberto Saviano, che attraverso otto storie di corruzione e di speranza,
racconta la realtà italiana. Nato da una trasmissione tv, la pubblicazione del
libro si è trasformata in un tour-evento, il cui “tormentone” è stato, non a
caso, la “lista delle dieci cose per cui vale la pena vivere”. Nelle ultime
pagine, Saviano racconta la storia dei trentasei Giusti, che esistono in
ogni generazione e che si oppongono al male quando esso prevale. Per commentare
questo racconto sceglie una poesia di Borges, I giusti, che può essere
usata anche per raccontare la scoperta fatta da Biagi, attraverso il suo ciclo
di interviste:
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva
Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sud giocano
in silenzio a scacchi.
Il ceramista che intuisce un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina
che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono
le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male
che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano
ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano stanno salvando
il mondo.
Dopo aver riletto queste
poche righe non posso fa a meno di chiedermi se Saviano avesse mai letto Il
Buon Paese prima di pubblicare il suo Vieni via con me.
Marta Fiorellino
Enzo Biagi
Il Buon Paese
Mondadori, Milano, 1982
Il Buon Paese
Mondadori, Milano, 1982
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Giornalismo d'inchiesta,
Grandi firme,
Libri ri/trovati
02 settembre 2014
Paese che vai, giornalismo che trovi
Paese che vai, giornalismo
che trovi. E Che giornalismo troviamo in Italia? Questa è la domanda che si
pone Damiano Celestini, l’autore del libro. Il nostro giornalismo è perennemente oggetto di
critiche, vuoi per l’ingerenza della politica, vuoi per la tendenza al “chiacchiericcio”
più che alla storia. Ma cosa porta il nostro paese ad avere questo modello?
Possiamo ritenerlo meno buono di altri?
L’autore cerca di
rispondere a queste domande a partire da un contesto storico/politico,
attingendo dall’analisi di Daniel Hallin e Paolo Mancini nel volume Modelli di giornalismo. Mass Media e politica nelle
democrazie occidentali (Laterza). Motivo della
scelta di questa fonte, risiede nella convinzione che un giornalismo assuma
specifiche caratteristiche in base al
trascorso storico e politico della nazione.
In base a queste premesse il primo capitolo si delinea
come un riassunto del volume di Hallin e Mancini, dove vengono illustrati i tre
modelli di giornalismo individuati dagli autori e i parametri che ne hanno
consentito la classificazione.
Il secondo capitolo, si
sposta sull’analisi del giornalismo politico all’interno di diverse nazioni per
determinarne l’ingerenza politica. Celestini, a supporto della propria analisi,
monitora i giornali principali di alcuni paesi rientranti nei tre modelli
identificati da Hallin e Mancini: New
York Times, Daily Telegraph, Le Soir, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Corriere
della Sera, Repubblica, Le Monde.
Ogni nazione analizzata viene corredata di un background storico-politico nel
quale ogni giornale analizzato si contestualizza, seguita dai principali eventi
che hanno determinato la nascita di ciascun quotidiano monitorato. La parte
riguardante il monitoraggio dei giornali, però viene condensata in poche righe,
passando in questo modo in secondo piano. Del resto una piccola pecca la si può
riscontrare anche nella forte predominanza di informazioni fornite riguardo al
quadro storico di alcuni paesi a scapito di altri.
Nel terzo capitolo Celestini
passa a un’analisi del giornalismo economico, che risulta di poco spessore,
procedendo grazie ad un collage di stralci di interviste condotte dall’autore
ad alcuni professionisti del settore. Uguale struttura la troviamo nell’ultimo
capitolo riguardante il giornalismo televisivo, strutturato mediante un insieme
di opinioni che si snodano fornendo una visione generale del tema di cui il
capitolo è oggetto.
Gli ultimi due capitoli
sono corredati di poche informazioni contestuali a supporto, ma ricche di
esempi pratici e opinioni di esperti che vanno a creare un mosaico di punti di
vista sull’argomento. Interessante è l’accostamento che l’autore propone dei
pensieri espressi dagli intervistati riguardo al loro paese e all’Italia con
particolare attenzione alle carenze o i problemi che essi riscontrano nel
nostro paese. I Professionisti, la maggior parte inviati esteri, forniscono
un’analisi delle maggiori difficoltà nelle quali si imbattono nel tentare di
raccontare il nostro paese ai propri lettori. Questi problemi sono dovuti al
modo di fare giornalismo italiano, al modo in cui la notizia viene raccontata,
con maggiore attenzione alla “storiella” più che al fatto, al dare rilievo alla
dichiarazione più che all’azione, al non attribuire alle notizie il giusto
peso.
Sono le interviste di
questi giornalisti che rispondono alle domande poste inizialmente da Celestini,
sono esse che risultano essere la discriminante dell’analisi. Mediante le
opinioni di questi professionisti l’autore ha operato un confronto tra Italia e
i loro paesi di origine, con un risultato spostato a favore dei secondi.
L’unico settore nel quale l’ Italia sembra uscirne relativamente bene, a parere
degli intervistati, è l’ambito economico, dove l’argomento verrebbe trattato
meno superficialmente. Il ruolo dell’opinione pubblica italiana viene messo,
invece, in rilievo per la sua inattività tanto da venir definito un “muscolo
disattivato”, che non reagisce, e fa si che la stampa italiana lo veda come un
soggetto da coinvolgere, intrattenere e non da informare correttamente.
Grazie all’ausilio delle interviste
condotte e del monitoraggio sui quotidiani, l’autore giunge alla conclusione
che il modello di giornalismo italiano non risulti essere peggiore di altri. La
politica, grosso macigno sulle spalle della nostra stampa, in realtà si rivela
come l’ argomento predominante in tutti i paesi da lui analizzati. La
differenza che caratterizza l’Italia e la rende diversa dalle altre nazioni, è
il modo di trattare la notizia, il ruolo dell’opinione pubblica e dei
giornalisti, anch’essi come l’opinione pubblica inattivi, e non resistenti a
quelli che sono i poteri forti che, come da ogni parte tentano di
strumentalizzare i mezzi di comunicazione.
Ma, se le critiche mosse al giornalismo italiano risultano
fondate, il merito del volume di Celestini è quello di fornire ottimi spunti di
riflessione a partire dalle opinioni di professionisti del settore e di gettare
dei semi nel terreno del giornalismo italiano, auspicando che da questi possano
germogliare nuove professionalità che possano andare a modificare quel “giornalismo
che nel nostro paese troviamo”.
Sara Gossi
Damiano Celestini
Paese che vai,giornalismo che trovi
Prospettiva editrice, Civitavecchia,
2011, 200 pp.
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