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20 febbraio 2015
In libreria
Maarten van Aalderen
Il bello dell'Italia.
Il Belpaese visto dai
corrispondenti della stampa estera
Albeggi edizioni, Roma, 2015, pp.
152.
Descrizione
Maarten van Aalderen vive in Italia da molti anni e da altrettanti osserva
il nostro Paese attraverso la lente della stampa estera, della cui associazione
professionale è stato quattro volte Presidente. Maarten ha capito che, in un
momento in cui l’Italia sta attraversando una grave crisi da diversi punti di
vista, in cui l’autolesionismo dilaga, al Paese serve una scossa positiva per
risollevarsi, rialzare la testa, proprio come l’Icaro raffigurato in copertina.
Maarten ha dato voce un gruppo di colleghi corrispondenti stranieri chiedendo
loro cosa amano del Paese che li ospita. Il giudizio
estero sul Paese non può essere ridotto al rating di qualche potente agenzia che
controlla i conti, eventualmente accompagnato dal severo giudizio di un Capo di
Governo straniero particolarmente rigido o dal senso di superiorità di un
nordeuropeo che può vantare un livello di corruzione più basso nel proprio
Paese, sostiene l’autore. L’Italia e l’immagine
dell’Italia nel mondo, per la verità e per fortuna, sono molto più di
questo. Sono convinto che chi non vede nulla di
buono nell’Italia deve cambiare occhiali, oppure Paese.
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17 febbraio 2015
Il tempo della rabbia
Oriana Fallaci intervista sé
stessa - L’Apocalisse
è un libro già edito per i lettori del "Corriere della sera", ma con un titolo
diverso Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci. Rispetto all’edizione
precedente troviamo varie aggiunte, come l’incontro fortuito con Bin Laden e un
Post-Scriptum: L’Apocalisse. Sul cambiamento del titolo la Fallaci disse: " Ho modificato anzi abbreviato il titolo per motivi grafici e per
alleviare il fastidio che provavo a vedere il mio nome ripetuto".
L’opera può essere inserita in una “trilogia”
che inizia con La rabbia e l’orgoglio e prosegue con La forza della Ragione,
in cui vengono riaffrontati, con forza e coinvolgente intensità, le idee già
sviluppate in precedenza, inserendo nuove esperienze, aneddoti. Un auto
intervista che collega la sua malattia,
l’Alieno, al cancro del nazi-islamismo che distrugge, divorando senza sosta
l’Occidente, “un cancro ben più tragico, ben più irrimediabile del mio.[…] Il cancro del nuovo nazifascismo, del nuovo
bolscevismo, del collaborazionismo nutrito dal falso pacifismo, dal falso
buonismo, dall’ignoranza, dall’indifferenza, dall’inerzia di chi non ragiona o
ha paura”. Ecco perché inizia il suo libro con una lunga lista aggiornata di vittime
del terrorismo islamico, dedica proprio a loro quest’opera, non ha paura di
affermare le sue idee, di parlare di un Eurabia e di terrorismo islamico. Sono
troppi quelli che tacciono e la Fallaci con rabbia e forza si scaglia contro la
politica, Destra o Sinistra che sia, “sono due volti della stessa medaglia”, che non si oppone, leghisti a parte, alla
costante invasione e imposizione dell’Islam.
La
Fallaci spara un lungo J’accuse
contro l’egemonia culturale della Sinistra, capace di sostenere un falso
pacifismo filo islamico e antiamericano, contro la presunzione di Berlusconi,
contro Prodi nominandolo Mortadella, contro D’Alema, Fassino. Le sue parole
colpiscono anche la politica americana, da Clinton e la moglie Hillary, a Kerry
e Bush, individuando in alcuni di loro anche qualcosa di positivo. Il J’accuse coinvolge anche Kofi Annan e l’ONU,
definendo quest’ultimo come “la summa di tutte le ipocrisie, il concetto di
tutte le falsità”.
“Ovunque vi sia antiamericanismo v’è
antioccidentalismo. Ovunque vi sia antioccidentalismo, v’è filo islamismo. E
ovunque vi sia filo islamismo v’è antisemitismo”, venne processata in Francia
con le accuse di razzismo religioso, d’istigazione all’odio, di xenofobia. In
realtà la Fallaci non è nulla di tutto questo, difende con rabbia quella
libertà che gli italiani si sono
conquistati con il sangue e la lotta, è contraria ad una democrazia che non può essere imposta ai
popoli che non la vogliono e che non sanno cosa sia, proprio a causa del loro
credo. Ha vissuto e contribuito alla Resistenza italiana ed è proprio qui che
bisogna ricercare il motivo del suo fervore e ciò che la spinge a sostenere che
al “terrorismo che ci sgozza, ci taglia la testa, ci fa saltare in aria” non si
può rispondere con “i baci, abbracci, il perdono, i volemose-bene di Papa
Wojtyla. È proibito anche difendersi da chi ammazza, ora?!?”.
Il Post-Scriptum,
L’Apocalisse, si rifà all’Apocalisse dell’evangelista Giovanni, utilizzata
dalla Fallaci per affermare fatti precisi, senza fronzoli, che definiscono l’Islam
l’incarnazione del mostro a Sette Teste, il mostro che i cristiani dovranno
sconfiggere. L’Apocalisse è abbastanza chiara, parla dello scontro tra due
civiltà e per la Fallaci è già in atto. Lo scenario delineato dall’autrice è
formato da un Occidente decadente, indifeso e inerme, e soprattutto da un’Italia
sottomessa all’Eurabia.
Oriana
Fallaci intervista sé stessa - L’Apocalisse è un libro denso di rabbia, di
orgoglio partigiano, di forti e chiare idee gettate in faccia al lettore senza
peli sulla lingua, anche se pubblicato nel 2004 risulta essere attualissimo
anzi quasi profetico nell’ipotizzare anni prima una Repubblica dell’Islam.
Maria Teresa Nigro
Oriana
Fallaci
Oriana Fallaci intervista sé stessa - L’Apocalisse.
Rizzoli, Milano, 2004 (Collana Rizzoli
International).
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16 febbraio 2015
Libbri in scia stradda
Il salotto letterario della Maddalena. Libbri in scia stradda
Martedì 17 febbraio 2015 h. 17, Teatro Altrove - Teatro della Maddalena in piazzetta Cambiaso, incontro con Attilio Bolzoni, Inviato di "Repubblica", e protagonista del giornalismo d'inchiesta.
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Martedì 17 febbraio 2015 h. 17, Teatro Altrove - Teatro della Maddalena in piazzetta Cambiaso, incontro con Attilio Bolzoni, Inviato di "Repubblica", e protagonista del giornalismo d'inchiesta.
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15 febbraio 2015
Un Cappello pieno di ciliegie
"Ora che il futuro s'era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l'inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d'estate costituiva il mio Io."
Così Oriana Fallaci da il via alla sua saga famigliare che, partendo dal 1773 fino al 1889, mescola le vite dei suoi avi con gli avvenimenti della Storia. Un romanzo denso di minuziosa e maniacale ricerca delle date, in giro per il mondo, nei luoghi in cui i suoi “cromosomi” sarebbero stati costruiti poco alla volta. L’opera è divisa in quattro parti, ciascuna delle quali si occupa di un ramo della famiglia e di come la Storia, ricostruita in modo accurato, possa aver definito in vari modi la sua essenza.
Accanto alla sua antenata Caterina Zani amata per la caparbietà, il desiderio furioso di imparare a scrivere usando anche il suo corredo di nozze come foglio e il coraggio di scagliarsi, con il pancione di otto mesi, contro Napoleone troviamo Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e Filippo Mazzei. Un altro arcavolo, Francesco Launaro bestemmiatore incallito, Anastasìa, che con atteggiamenti inammissibili per una donna dell’Ottocento, va alla conquista del Far West, seguono poi gli aneddoti legati ai suoi ricordi da bambina come quando vide per la prima volta Mussolini. Tutti i personaggi della Fallaci sono dei rivoluzionari, non si arrendono a una vita preconfezionata, cercano di migliorarla, di avere un riscatto morale anche attraverso la voglia di impadronirsi della scrittura e della lettura.
Inevitabilmente però il Destino ha la meglio: naufragi, suicidi e le “mal dolent”, la malattia che non risparmia la trisnonna della madre di Oriana e che non risparmierà l’autrice, “Lo spietato mal dolent che aveva ucciso Maria Isabel Felipa, che attraverso i suoi cromosomi e quelli di Montserrat avrebbero ucciso un mucchio di gente in famiglia, e che prima o poi ucciderà anche a me.”
La Fallaci in questo suo regalo postumo ci dona uno straordinario viaggio all’indietro, il racconto che ne esce in Un Cappello pieno di ciliegie è la fatica di vivere, l’emancipazione femminile e l’animo rivoluzionario che caratterizza i tanti volti di Oriana. “Il mio bambino”, così definiva il romanzo, ha avuto un lungo periodo di gestazione, occupando tutta l’intera vita d’adulta della Fallaci, “Sicché la ricerca si mutò in una saga da scrivere, una fiaba da ricostruire con la fantasia. Si, fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inevitabile poi all’inventato: l’uno complemento dell’altro, in una simbiosi tanto spontanea quanto inscindibile. E tutti quei nonni, nonne, bisnonni, bisnonne, trisnonni, trisnonne, arcavoli e arcavole, insomma tutti quei miei genitori, diventarono miei figli. Perché stavolta ero io a partorire loro, a dargli anzi ridargli la vita che essi avevano dato a me”.
Maria Teresa Nigro
Oriana Fallaci
Un Cappello pieno di ciliegie
Rizzoli, Milano, 2008, 2014.
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14 febbraio 2015
Guerre, informazione, propaganda
Giovanni Porzio, giornalista milanese,
nasce nel 1951. Si appassiona alla fotografia durante gli studi di Scienze
Politiche e dal 1979 lavora per il settimanale Panorama, di cui è inviato speciale. Ha realizzato servizi e reportage in
124 paesi tra Medio Oriente, Africa, Europa e America, specializzandosi nel
giornalismo di guerra. In Cronache dalle
Terre di nessuno, sedici anni da inviato sulla linea del fuoco. Guerre,
informazione, propaganda il giornalista ripercorre la propria esperienza come
inviato. Dalla Prima Guerra del Golfo nel 1991 fino alla guerra in Iraq del
2002, ci presenta un racconto e un analisi, talvolta pungente, della
mediatizzazione dell'informazione.
Nel 1991 Giovanni Porzio é l'inviato di Panorama
a Baghdad, dove è in
corso la Prima Guerra del Golfo. L'informazione mediatica é strettamente controllata, i giornalisti sono accreditati
dal JIB (Joint Information Bureau), che dispensa le regole fondamentali della
comunicazione: le “round rules. Per motivi militari vige il divieto di divulgare notizie
relative all'ubicazione, agli armamenti, alle basi e agli spostamenti dei
contingenti alleati. Ma è anche vietato filmare o fotografare soldati feriti o
uccisi, descrivere le operazioni militari e l'armamento nemico, il linguaggio
deve essere moderato e le informazioni riguardanti luoghi e date devono essere
generalizzate e imprecise. Il governo americano si impone come organo di
propaganda e censura. Avviene però una svolta nel giornalismo di guerra: la CNN ottiene il
permesso di riprendere in diretta televisiva l'operazione militare “Tempesta nel deserto. I giornalisti Peter Arnett e Robert
Wiener sono gli unici ad avere il permesso – accordato dallo stesso Saddam – di rimanere in Iraq, strettamenti controllati e senza
avere il reale potere di fare alcun scoop che non sia accordato da entrambe le
fazioni e con il divieto di avvicinarsi alle zone di guerra. Le informazioni divulgate come “breaking news” raccolte sul campo sono in realtà veline approvate
dal Pentagono, le immagini sono riprese a chilometri di distanza dal fronte e
negano la verità dei fatti. Le reazioni indignate dei media non tardano a
manifestarsi e negli USA i principali organi di informazione si mobilitano per
chiedere l'abolizione della censura. Molti giornalisti, come lo stesso Porzio,
scelgono di raggiungere la linea del fuoco illegalmente, con il conseguente
arresto. Tuttavia i sondaggi pubblici sembrano sostenere le decisioni del
Pentagono: il 78 per cento degli americani approvava la restrizione informativa
e il 60 per cento era favorevole a controlli più severi.
La Guerra civile somala, che segue di
poco la conclusione dell'operazione "Tempesta nel
deserto", é in un primo momento totalmente ignorata dai media e
dall'opinione pubblica occidentale, finché dal 1992 il conflitto non si trasforma in una “crisi umanitaria. La sensibilizzazione dell'opinione
pubblica comincia con la serie di documentari realizzati dall'attrice Audrey
Hepburn per conto delle Nazioni Unite, alla quale segue anche un intervento di
Sophia Loren nella città di Baidoa. Subito dopo Washington approverà l'impegno di
trentamila soldati per distribuire alimenti e combattere la carestia. In questa
occasione la censura non è necessaria, l'interesse dell'opinione pubblica é totalmente
concentrato sull'intervento occidentale a sostegno della popolazione somala e
non dal tragico conflitto avvenuto in precedenza. Lo sbarco dei Marines è programmato per essere un evento mediatico: l'ora
coincide con il prime time americano
e le spiagge somale vengono trasformate in un set cinematografico. Nella realtà l'intervento
delle Nazioni Unite degenera in uno scontro armato, Porzio si trova a
Mogadiscio e ne è
testimone diretto. Le cronache provenienti dalla capitale Somala, però, non fanno notizia in occidente. La battaglia di
Mogadiscio sarà l'ultimo grande evento di interesse per i media prima
del definitivo abbandono della Somalia da parte dei giornalisti. I pochi che
rimangono lo fanno mettendo a repentaglio la propria incolumità, come testimonia
la tragica l'uccisione di Ilaria Alpi.
In Rwanda e nello Zaire Porzio assiste
al genocidio degli Hutu per mano dell'etnia Tutsi: "mi misi subito al lavoro per raccogliere le testimonianze dei
sopravvissuti. Le pagine dei miei taccuini si riempivano di orrori". Come
in Somalia, l'interesse dei media si scatena tardivamente, quando lo scontro è già tragedia e l'opinione pubblica viene mobilitata da un
intervento umanitario dell'occidente. I giornalisti sono liberi di circolare e
raccogliere informazioni, non esiste nessun tipo di controllo sul flusso delle
notizie. In questo caso sono stati i media locali ad avere fondamentale
importanza come strumento di propaganda nel fomentare le rivolte e le
rappresaglie e ad istigare il genocidio. Mentre in Africa la guerriglia, la
carestia e le malattie uccidono, in occidente l'opinione pubblica resta
indifferente: "Le immagini
televisive puntavano a suscitare il riflesso emotivo della comprensione senza
compassione: un meccasismo psicologico che i mezzi di comunicazione di massa
sfruttani ampiamente per aumentare l'audience senza appesantire lo spettacolo
con troppe analisi e noiose spiegazioni".
Durante il reportage sul Kosovo
Giovanni Porzio si unisce all'Associazione di amicizia Italia-Albania. Quando
arriva a Tirana la guerra civile sembra ormai inevitabile. Qui i giornalisti
non possono seguire gli avvenimenti di persona, seguono i notiziari della BBC
da un albergo e riportano solo notizie di seconda mano. L'apparato
propagandistico della Nato fu ampliato creando il Media operation center,
mentre gli indipendentisti kosovari avevano affidato la loro immagine alla
società americana di
pubbliche relazioni Ruder & Finn. Le notizie arrivano in occidente
manipolate attraverso i briefing di Bruxelles e le veline della Nato.
La
seconda metà del libro di Porzio è interamente dedicata alla questione medio-orientale e
alla guerra in Iraq. A causa dei numerosi scontri sul territorio palestinese le
notizie non erano difficili da reperire: “Dovunque andavamo ci imbattevamo in una storia buona per
il Tg di Gabriella o per il mio giornale”. Ma il conflitto
arabo-israeliano è un
terreno difficile per qualsiasi giornalista: ogni servizio rischia di assumere
una posizione politica e la censura pesa su ogni dichiarazione. I reporter
devono fare i conti con il potere israeliano, ma non possono restare
indifferenti di fronte alla negazione dei diritti dei palestinesi. In un simile
contesto propaganda e disinformazione condizionano pesantemente l'opinione
pubblica nazionale e internazionale. Dopo l'11 settembre 2001 sono gli Stati
Uniti a tenere le redini della propaganda, costituendosi simbolo della
democrazia e della lotta al terrorismo. Sul fronte opposto Bin Laden ha una
grande familiarità
con i meccanismi dell'informazione globale e “un'intima conoscenza della psicologia dei popoli arabi. Anche in Afghanistan Porzio conduce da solo le proprie
indagini, in quanto ritiene che ottenere un embedding
con gli americani non sia vantaggioso e quello italiano non gli permetterebbe
di avvicinarsi alle zone di guerra. I governi occidentali costituiscono
l'Office of Strategic Influence, per intervenire preventivamente sul flusso di
notizie in uscita dall' Afghanistan. I media americani, sopratutto Fox News
emittente di Rupert Murdoch, fungono da organo propagandistico del Governo
Americano. In Iraq ottenere il visto è ancora più complicato, il regime di Saddam seleziona i giornalisti
in base all'importanza della testata e alla fiducia che ripone nei singoli
inviati, essere accreditati sognifica quindi sottostare a dei compromessi e a
delle regole molto rigide che influenzano inevitabilmente la libertà d'espressione del giornalista.
Dopo
l'impiccagione di Saddam accreditarsi diventa ancora più complicato. Oltre
a tesserino stampa, lettera del giornale e passaporto, è necessario
firmare l'elenco delle “ground rules” e la liberatoria
in caso di morte o ferimento. I giornalisti vengono schedati attraverso foto
digitali, dell'iride e attraverso la rilevazione delle impronte. La procedura
richiede giorni di attesa, dopodiché è possibile accedere alla zona verde dei combattimenti,
così diversa dalla
zona rossa teatro di massacri irreali. Il susseguirsi degli attentati e delle
stragi satura l'opinione pubblica occidentale al punto che l'Iraq non ottiene
le prime pagine se i morti non sono almeno centinaia.
Nel corso della guerra poi gli Stati
Unti saranno colpiti da uno scandalo dopo l'altro anche a causa della nuova
tecnologia (blog, MySpace, You Tube e le prime piattaforme sociali) che
permette ai soldati di contattare le famiglie raccontanto il vero volto della
guerra senza la possibilità di censura e anche all'imtervento dell'emittente
televisiva Al-Jazeera che trasmette video esclusivi di americani che torturano
prigionieri di guerra. “The worst US
foreignpolicy disaster since Vietnam”, affermerà
Patrick Cockburn.
Le parole di Giovanni Porzio raccontano
il mondo dell'informazione con crudo realismo. Dalle cronache del giornalista
emergono realtà ben diverse da quelle mostrate dai media, evidenziando
ancora una volta come il lavoro del reporter sia condizionato da fattori
esterni alla volontà di
riportare i fatti oggettivamente.
La censura, durissima in tempo di
guerra da sempre, dal 1991 viene però lentamente aggirata. Nel suo racconto Porzio ci mostra
come dal tempo di "Tempesta nel deserto", in cui o eri embedded e
sottostavi a regole stabiilite dall'alto o non potevi avere informazioni, si è passati alla figura del non-embedded, quel giornalista
che riesce a muoversi autonomamente, a suo rischio e pericolo, non legato però a leggi di censura. Questo è possibile anche ai nuovi media che rendono il collegamento
con la propria redazione possibile o, ai nostri giorni, addirittura immediato.
Nel libro di Porzio la narrazione
autobiografica si intreccia con il racconto storico e la critica. Questi
molteplici piani di racconto ci permettono di avere una visione a tutto tondo
della guerra, sia dal punto di vista umano dei vari paesi in guerra
contrapposti, sia dal punto di vista di un'esperto di informazione che analizza
i mezzi di comunicazione coinvolti. I media mondiali, durante queste guerre,
sono spesso anche loro impegnati in un conflitto interno per manipolare la
pubblica informazione per ottenere consenso alla guerra stessa. Giovanni Porzio
si sofferma più volte su quanto è facile e poco impegnativo dividere i "noi"
buoni da "loro" cattivi e da sconfiggere. Divisione che anche
oggigiorno è più volte ripresa come argomentazione valida per
indottrinare le masse non interessante ad acquisire una visione critica della
realtà.
L'inviato di Panorama ha inoltre
evidenziato come vengano ancora usati organi specifici per il controllo
dell'informazione, non sono per la salvaguardiadelle operazioni militari; L'Osi
(Office of Strategic Influence) creato e gestito dal Pentagono in
corrispondenza della guerra in Afghanistan è stato chiuso nel 2002 "travolto dalle polemiche:
era emerso con evidenza che il suo obiettivo era fornire deliberatamente ai
media false informazioni e notizie manipolate".
Oltre ai conflitti il libro è una splendida e emozionante testimonianza di lavoro
giornalistico ed esperienza sul campo in zone di guerra. Un cambiamento degno
di nota nel lavoro è
dato sopratutto dal fatto che una volta il giornalista era considerato un
narratore necessario sul campo di battaglia, una terza entità. Ora invece non è più così; il giornalista è considerato come merce di scambio da rapire per avere il
riscatto o un potere sul nemico. La dedizione delle persone che si dedicano
alla ricerca della notizia, nonostante tutto il pericolo, è più che mai lodevole e credo che sia questo che Porzio
volesse far trasparire dalle sue pagine raccontanto la sua storia ma anche
quella dei suoi colleghi e collaboratori. Dietro alle notizie e ai reportage di
giornali e telegiornali, infatti, c'è chi mette in pericolo la propria vita per raccontare ciò che accade in
guerra, per essere poi talvolta censurato o rimproverato da governi, dalla
società o anche dalla
propria redazione per aver raccontato troppa
verità.
Purtroppo,
come si è sempre verificato, non è possibile raccontare oggettivamente una guerra sui
giornali o in tv, dove variabili come spazio e tempo si legano alle esigenze
del mezzo di comunicazione e alla linea editoriale e politica del media. Il
lettore quindi non può permettersi di apprendere una notizia passivamente ma
deve documentarsi il più possibile attraverso fonti diverse per avere una visione
più completa dei
fatti e poter raggiungere un'opinione personale.
Erika Repetto
Giovanni Porzio
Cronache dalle Terre di nessuno, sedici anni da inviato
sulla linea del fuoco.
Guerre, informazione, propaganda
Troppa editore, Milano, 2007.
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Recensione
13 febbraio 2015
Il tempo del New Journalism
La necessità è la madre dell'invenzione». Si apre con questa citazione del biologo premio Pulitzer Jared Diamond, il libro sui cambiamenti dei media di Marco Pratellesi, «New journalism: dalla crisi della stampa al giornalismo di tutti», edito da Bruno Mondadori. L'autore, docente alla Scuola di giornalismo «Walter Tobagi» di Milano e responsabile dei siti del Gruppo Espresso, può essere considerato uno dei massimi conoscitori degli eventi che hanno segnato il modo di fare giornalismo nel mondo.
NECESSITÀ E INVENZIONE - Necessità e invenzione. Due termini chiave che guidano il lettore all'interno della guida di Pratellesi. La necessità di cambiamento di un settore in continua evoluzione come la comunicazione ha portato a nuovi scenari che hanno condizionato in maniera irreversibile il lavoro del giornalista. Pratellesi lo sa bene, perché insieme a Marco Bardazzi (ora firma de La Stampa), ideò nel 1997 Reality Magazine, piattaforma definita dall'Ansa una «palestra del giornalismo web». Una piccola stanza, due computer collegati via modem e una piattaforma fornita da un amico provider. Tanto è bastato, insieme a una ingente dose di intuizione, per portare Reality Magazine a essere uno dei primissimi punti di riferimento dell'informazione online. Questa esperienza ha permesso a Pratellesi di portarsi avanti di quasi dieci d'anni rispetto ai loro colleghi. Quei colleghi che li prendevano di mira nella redazione de La Nazione, nei primi tempi di lavoro dell'edizione online: «Ma che fate tutto il giorno in quella stanza a giocare con i computer?». Di lì a poco, scrive l'autore, «anche i colleghi della carta cominciarono a capire cosa stavamo facendo».
GIORNALISMO A 360 GRADI - Il testo di Pratellesi è una testimonianza imprescindibile per chi si vuole avvicinare al mondo del giornalismo. E quindi a quello dei new media. Già, perché come sostiene l'autore, chi vuole fare questo lavoro non può permettersi di limitare le proprie capacità a un solo campo. Pc, taccuino, registratore e videocamera: il giornalista del ventunesimo secolo deve saper interagire a 360° con tutti i canali di comunicazione. Questo è il nuovo giornalismo, questo è il mondo di internet: una realtà in continuo aggiornamento e che non si ferma mai. Pratellesi, con una scrittura chiara e un piglio coinvolgente, sa condurre l'aspirante giornalista verso i passaggi chiave che hanno segnato gli ultimi anni dell'informazione. Dal sexgate di Clinton che nel 1998 diede prova delle potenzialità della rete e dell'immediata diffusione delle notizie, ai problemi di chi, come le testate cartacee, ha dovuto contenere l'onda d'urto del giornalismo online, del giornalismo di tutti. Come il Guardian che, dal giugno 2006, ha intrapreso la politica del «web first»: scrivere prima per la rete e poi per la carta. Pratellesi riporta le parole di Alan Rusbridger, direttore del giornale inglese: «Se non capiamo che siamo in competizione con avversari che possono anticiparci di 12, 18 o anche 24 ore sulle notizie, diventeremo inutili».
SOCIAL E CRISI - New media vuol dire social network, vuol dire Twitter. Un terreno in cui lo stesso Pratellesi si muove con naturalezza: il suo profilo (https://twitter.com/marcoprat), che fornisce notizie e utili approfondimenti, conta più di 12 mila follower. Twitter è una fonte continua d'informazione da cui attingere (ma con una attenta selezione delle fonti) e un megafono dato in mano agli utenti, sempre più protagonisti e produttori delle notizie. New media vuole dire crisi della stampa, che si è dovuta adeguare all'approdo su internet (con buona pace dei dinosauri del giornalismo). Di qui nascono le annose questioni che hanno tormentato e tormentano le principali testate mondiali: le notizie su internet si mettono a pagamento o «free»? Pratellesi snocciola una serie di esempi pratici, come gli abbonamenti del New York Times o il modello Axel Springer, editore di quotidiani come Die Welt e Bild, che ha puntato tutto sulla rete: «la nostra finalità non è stampare carta, è comunicare». Spunti di riflessione sul mondo del giornalismo che si possono trovare anche sul blog di Pratellesi, Mediablog (http://pratellesi.blogautore.espresso.repubblica.it/).
UN BUON MOMENTO - Storia dei nuovi media ma anche consigli pratici a chi si sta avvicinando al vorticoso mondo dell'informazione online: come usare Twitter, i blog o, più di tutto, «farsi trovare». Pubblicato dodici anni fa e riaggiornato nel 2008 e 2013, il manuale di Pratellesi può considerarsi già superato dal costante fermento dei new media. Ma, giunto alla terza ristampa, rimane un caposaldo fondamentale che sa fornire un quadro generale dell'evoluzione degli strumenti ormai imprescindibili per un giornalista. Con un consiglio che, in fondo, può incoraggiare chi si affaccia al mondo del giornalismo ai tempi della crisi. Scrive Pratellesi: «La crisi dell'editoria coincide con l'epoca di massima abbondanza di giornalismo. Nonostante il pessimismo che si respira nelle aziende editoriali martoriate dai tagli, è ancora un buon momento per fare il giornalista».
Daniele Zanardi
Marco Pratellesi
New journalism: dalla crisi della stampa al giornalismo di tutti
Bruno Mondadori, Milano, 2013, 237 pp. (terza edizione)
NECESSITÀ E INVENZIONE - Necessità e invenzione. Due termini chiave che guidano il lettore all'interno della guida di Pratellesi. La necessità di cambiamento di un settore in continua evoluzione come la comunicazione ha portato a nuovi scenari che hanno condizionato in maniera irreversibile il lavoro del giornalista. Pratellesi lo sa bene, perché insieme a Marco Bardazzi (ora firma de La Stampa), ideò nel 1997 Reality Magazine, piattaforma definita dall'Ansa una «palestra del giornalismo web». Una piccola stanza, due computer collegati via modem e una piattaforma fornita da un amico provider. Tanto è bastato, insieme a una ingente dose di intuizione, per portare Reality Magazine a essere uno dei primissimi punti di riferimento dell'informazione online. Questa esperienza ha permesso a Pratellesi di portarsi avanti di quasi dieci d'anni rispetto ai loro colleghi. Quei colleghi che li prendevano di mira nella redazione de La Nazione, nei primi tempi di lavoro dell'edizione online: «Ma che fate tutto il giorno in quella stanza a giocare con i computer?». Di lì a poco, scrive l'autore, «anche i colleghi della carta cominciarono a capire cosa stavamo facendo».
GIORNALISMO A 360 GRADI - Il testo di Pratellesi è una testimonianza imprescindibile per chi si vuole avvicinare al mondo del giornalismo. E quindi a quello dei new media. Già, perché come sostiene l'autore, chi vuole fare questo lavoro non può permettersi di limitare le proprie capacità a un solo campo. Pc, taccuino, registratore e videocamera: il giornalista del ventunesimo secolo deve saper interagire a 360° con tutti i canali di comunicazione. Questo è il nuovo giornalismo, questo è il mondo di internet: una realtà in continuo aggiornamento e che non si ferma mai. Pratellesi, con una scrittura chiara e un piglio coinvolgente, sa condurre l'aspirante giornalista verso i passaggi chiave che hanno segnato gli ultimi anni dell'informazione. Dal sexgate di Clinton che nel 1998 diede prova delle potenzialità della rete e dell'immediata diffusione delle notizie, ai problemi di chi, come le testate cartacee, ha dovuto contenere l'onda d'urto del giornalismo online, del giornalismo di tutti. Come il Guardian che, dal giugno 2006, ha intrapreso la politica del «web first»: scrivere prima per la rete e poi per la carta. Pratellesi riporta le parole di Alan Rusbridger, direttore del giornale inglese: «Se non capiamo che siamo in competizione con avversari che possono anticiparci di 12, 18 o anche 24 ore sulle notizie, diventeremo inutili».
SOCIAL E CRISI - New media vuol dire social network, vuol dire Twitter. Un terreno in cui lo stesso Pratellesi si muove con naturalezza: il suo profilo (https://twitter.com/marcoprat), che fornisce notizie e utili approfondimenti, conta più di 12 mila follower. Twitter è una fonte continua d'informazione da cui attingere (ma con una attenta selezione delle fonti) e un megafono dato in mano agli utenti, sempre più protagonisti e produttori delle notizie. New media vuole dire crisi della stampa, che si è dovuta adeguare all'approdo su internet (con buona pace dei dinosauri del giornalismo). Di qui nascono le annose questioni che hanno tormentato e tormentano le principali testate mondiali: le notizie su internet si mettono a pagamento o «free»? Pratellesi snocciola una serie di esempi pratici, come gli abbonamenti del New York Times o il modello Axel Springer, editore di quotidiani come Die Welt e Bild, che ha puntato tutto sulla rete: «la nostra finalità non è stampare carta, è comunicare». Spunti di riflessione sul mondo del giornalismo che si possono trovare anche sul blog di Pratellesi, Mediablog (http://pratellesi.blogautore.espresso.repubblica.it/).
UN BUON MOMENTO - Storia dei nuovi media ma anche consigli pratici a chi si sta avvicinando al vorticoso mondo dell'informazione online: come usare Twitter, i blog o, più di tutto, «farsi trovare». Pubblicato dodici anni fa e riaggiornato nel 2008 e 2013, il manuale di Pratellesi può considerarsi già superato dal costante fermento dei new media. Ma, giunto alla terza ristampa, rimane un caposaldo fondamentale che sa fornire un quadro generale dell'evoluzione degli strumenti ormai imprescindibili per un giornalista. Con un consiglio che, in fondo, può incoraggiare chi si affaccia al mondo del giornalismo ai tempi della crisi. Scrive Pratellesi: «La crisi dell'editoria coincide con l'epoca di massima abbondanza di giornalismo. Nonostante il pessimismo che si respira nelle aziende editoriali martoriate dai tagli, è ancora un buon momento per fare il giornalista».
Daniele Zanardi
Marco Pratellesi
New journalism: dalla crisi della stampa al giornalismo di tutti
Bruno Mondadori, Milano, 2013, 237 pp. (terza edizione)
12 febbraio 2015
Reportage da Costantinopoli
Costantinopoli è un romanzo scritto da Edmondo De Amicis, in seguito a un breve soggiorno nella città di Istanbul. Il suo viaggio risale al 1874, ma il testo, tratto dalla sua esperienza, venne pubblicato tre anni dopo, nel 1877-1878, dall’editore Fratelli Treves di Milano. Conosciuto specialmente per il libro Cuore, De Amicis è meno noto per i suoi racconti di viaggio, molto presenti in tutta la sua produzione letteraria.
L’autore visita la capitale ottomana in compagnia dell’amico pittore Enrico Yunk, che avrebbe dovuto effettuare degli schizzi per l’edizione illustrata del libro. Siccome morì prematuramente, questo compito fu portato a termine da Cesare Biseo nel 1882.
Il libro di Edmondo De Amicis è una commistione tra vari generi letterari: il diario di viaggio, molto personale e intimo, il reportage, attento a descrivere nel dettaglio tutti gli aspetti naturalistici, sociali, culturali, architettonici della città che visita e della gente che la popola, e, non per ultimo, la guida turistica, attenta a consigliare al lettore-viaggiatore i luoghi da vedere e le cose da evitare. L’opera risulta in questo modo assolutamente moderna e attuale, nonostante risalga al XIX secolo. La caratteristica fondamentale di De Amicis è il suo costante interesse verso il pubblico ed è sempre attento a colpirne gli interessi. Si indirizza direttamente al lettore, in modo tale da coinvolgerlo in ogni passaggio e da mantenere viva la sua curiosità. Utilizza così un linguaggio semplice e diretto, spesso confidenziale, come se dialogasse con un amico.
Tutto inizia con una descrizione molto profonda: "Un gran piacere per me e per il mio amico è la profonda certezza che la nostra immensa aspettazione non sarebbe stata delusa. Su Costantinopoli infatti non ci sono dubbi; anche il viaggiatore più diffidente ci va sicuro del fatto suo; nessuno ci ha mai provato un disinganno. E non c’entra il fascino delle grandi memorie e la consuetudine dell’ammirazione. È una bellezza universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, il figlio del settentrione e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno messo un grido di meraviglia. È il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra. Gli scrittori di viaggi, arrivati là, perdono il capo".
Le aspettative sono elevate e l’emozione dell’autore trapela in tutte le sue parole, trasmettendola direttamente al lettore. La sua "ansia" è resa ancora più forte dalla coscienza di aspettare questo momento da oltre vent’anni e finalmente è riuscito a guadagnarsi tanta attesa. La sua prima visione di Istanbul è così perfetta che si domanda con quali parole potrà descrivere uno spettacolo simile: "Ed ora descrivi, miserabile! Profana colla tua parola questa visione divina!". Tramite queste riflessioni, molto frequenti nel diario, il suo legame con il lettore è forte, al punto tale da apparire come "uno di loro". Questa caratteristica permette di tessere un filo invisibile con il pubblico, coinvolto psicologicamente e sentimentalmente al racconto.
Nelle descrizioni dei primi giorni a Costantinopoli è forte l’euforia di De Amicis, che la evidenzia con frasi come "strappa un grido all’anima", "mi saltava il cuore", "rimasi a bocca aperta". Passa così in rassegna tutta le caratteristiche sociali, civili, antropologiche, architettoniche di Istanbul. La città è un mosaico di razze e religioni e, per descrivere il gran numero di etnie presenti, utilizza la metafora della varietà di calzature che la gente indossa, sinonimo delle loro origini. Ecco il passaggio molto interessante: "Non guardavo altro che i piedi: passano tutte le calzature della terra, da quella d’Adamo agli stivaletti all’ultima moda di Parigi: babbuccie gialle di turchi, rosse di armeni, turchine di greci, nere d’israeliti; sandali, stivaloni del Turkestan, ghette albanesi, scarpette scollate, gambass di mille colori dei cavallari dell’Asia minore, pantofole ricamate d’oro, alpargatas alla spagnuola, calzature di raso, di corda, di cenci, di legno, fitte in maniera che mentre se ne guarda una se ne intravvedono cento".
La prima meraviglia si tramuta presto in una riflessione sull’umanità: quella processione così carnevalesca, non è altro che la sfilata di tutte le miserie, le follie, le differenti leggi e credenze e, soprattutto, dell’epoca aurea ormai decaduta. Spesso sembra provare una sorta di malinconia verso la città durante la gloria ottomana. Il suo pensiero si lancia sovente nel passato e, di fronte ai segni evidenti della devastazione subita, prova rammarico pensando a ciò che fu. È il sentimento che prova quando visita le mura della città, e per questo consiglia la visita in solitaria, e soprattutto la moschea di Santa Sofia. Spesso si immagina come potesse essere vivere in quell’epoca. Ad esempio girovagando tra i giardini dell’antica reggia ottomana, vagheggia sui tempi che furono. Immagina che quegli atrii ai tempi fossero luogo di intrighi amorosi e di pettegolezzo, politica e questioni economiche e di giustizia, di educazione e di accordi matrimoniali. Prova così un batticuore piacevole, che risulta essere un misto di malinconia e tenerezza.
Come già affermato, il testo in molti passaggi appare come un diario personale, intimo e ricco delle emozioni più profonde che prova De Amicis. Di fronte ad alcuni tramonti o paesaggi spesso sente sentimenti contrastanti di gioia e solitudine, pensa ai propri familiari e amici, effettua riflessioni profonde.
Alle volte invece l’opera appare come una vera e propria guida turistica, nella quale si consigliano al viaggiatore i posti migliori da vedere. Tra di essi abbiamo un’intensa descrizione del Gran Bazar della città, dai quali è impossibile uscire senza aver comprato nulla perché si vende qualsiasi cosa: gioielli, profumi, calzature, tessuti, tappeti, pipe, armi, abiti vecchi, coltelli, spezie, e molto altro ancora.
Per descrivere alcune opere o visioni, spesso le paragona a monumenti o a situazioni europee, note quindi al suo pubblico. L’esempio tipico è la rappresentazione della moschea di Santa Sofia. Per far capire al lettore la grandezza della sua cupola, la relaziona a quella di San Pietro. Guardandole da sotto, appaiono molto simili, data l’enorme circonferenza che le caratterizza. Utilizza il processo opposto per indicare gli stili di vita così diversi tra Istanbul e le principali città occidentali. Ad esempio nel passaggio: "Per chi vive la vita facile, giovanile e leggera di Costantinopoli, è poi difficile adattarsi alle dinamiche delle città europee". Qua c’è un ozio assoluto e il bagno turco rappresenta perfettamente la ricerca del piacere personale. Il supremo desiderio è la quiete e lasciar fare a Dio. Nonostante ciò vi è una vita notturna incredibile. Inoltre lo stereotipo della "nostra" mentalità porta a pensare le donne turche come molto controllate e sottomesse. In realtà dalle parole dell’autore il genere femminile appare emancipato. Le donne escono sempre da sole, anche la sera, e si incontrano con le amiche. Non le si vede mai accompagnate da un uomo. Appaiono moderne e libere. Sorridono molto ai passanti e alle volte salutano, gesto che viene spesso frainteso dagli europei. Indossano piccoli veli intorno al capo e amano acconciarsi i capelli in modi molto particolari. Nelle case vivono in luoghi separati dai mariti, con i quali si incontrano nell’harem. Tutte queste caratteristiche fanno riferimento al ceto benestante, in quanto più le famiglie sono povere, più saranno costrette a condividere gli stessi ambienti, l’educazione dei figli e gran parte della giornata. Infatti la ricchezza divide, mentre la povertà unisce. La donna è molto rispettata e mai verrebbe maltrattata. Inoltre la loro indole è ardita e feroce, anche se di primo impatto risulta dolce e mansueta.
Dato il grande animo che caratterizza la città, De Amicis ritiene che sarebbe un divertimento molto curioso se ci fossero tra i turchi i gazzettini tipici del bel mondo, che conoscono tutto e parlano di tutti. In molti passaggi si denota come Costantinopoli sia uno scritto postumo al suo viaggio. Ne è esempio l’incontro con il sultano Abdul Aziz. Egli è descritto dal popolo come uomo violento e avido, però al lettore appare come buono, mansueto e modesto. Ecco il passaggio che indica la stesura in epoca successiva: "La mano destra del sultano è bianca e ben fatta e saluta. Con questa stessa mano si taglierà le vene nel bagno due anni dopo".
Nel momento in cui la partenza si avvicina ogni aspetto delle giornate passate per tutti gli angoli di Istanbul, così diversi e particolari tanto da fare sembrare tante città in una sola, dà a ogni cosa un leggero colore di tristezza. È come se quelle visioni non fossero già più che ricordi di un paese lontano. Eppure alcune immagini rimangono immobili nella memoria. Ritengo questa riflessione assolutamente vera e profonda e l’ho vissuta in prima persona durante alcuni viaggi.
Lascia Istanbul solo con la frase "Addio…t’abbandono", perché appare difficile spiegare tutti i sentimenti che prova in quel momento.
Al termine del testo il lettore è stato trasportato in un viaggio vivo insieme all’autore, come se fosse stato partecipe con lui all’avventura. Appare sempre di sentir vive le voci, i rumori, gli odori, i profumi. Le descrizioni sono talmente passionali da trasmettere a chi le legge la voglia di partire e di andare a visitare con i propri occhi questa città. Le analisi paesaggistiche di De Amicis sono così precise da rappresentare una sorta di sequenza cinematografica. Con queste pagine di grande eleganza, fece rivivere la capitale dell’Impero Ottomano alla fine del 1800, ai viaggiatori borghesi da salotto dell’epoca, alla ricerca di esotismo.
Giulia Fraschini
Edmondo De Amici
Costantinopoli
Treves, Milano, 1877-1878.
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